Commento all’articolo di Luigi Manconi apparso su La Repubblica il 22/07/2019
Luigi Manconi, con la sua esperienza di ipovedente, ci racconta del libro parlato e anzi delle varie forme di lettura ad alta voce che ritiene non solo un utile sussidio per chi non vede, ma per tutti un arricchimento della fruizione.
Di fatto, in questo incontro fra lingua parlata vocalmente e lingua scritta, il lettore aggiunge qualcosa al testo – arricchendolo o deformandolo secondo i casi e i gusti – con le intonazioni, le inflessioni, i ritmi della lettura, le pause. Così si rende sonora la scrittura, e si può recuperarne in qualche modo la parte analogica, ma non la dimensione di improvvisazione che c’è nell’originario linguaggio sonoro.
Ma lascerei da parte questa forma di contaminazione fra lingua orale e lingua scritta.
Vorrei invece riflettere su queste due modalità di comunicazione viste allo stato puro. Sono parallele e possibili portatrici di messaggi sovrapponibili, eppure così diverse sul piano fenomenologico. Intanto lo scritto si declina necessariamente nello spazio, poiché le parole scritte hanno una struttura e una distribuzione spaziale; quelle affidate al suono si declinano nel tempo, e come tali sono fugaci: verba volant, scripta manent. Ciò, fra parentesi, è uno dei motivi della difficoltà di dare un affidabile statuto scientifico alla nostra disciplina. Esso infatti richiederebbe una replicabilità del dato, evidentemente difficile da realizzare per quel dato di base che nasce nell’incontro con il paziente, che avvenga in sede propriamente psicoterapica o nella quotidianità.
Lo scritto è invece il regno della affidabile ripetibilità, ma rispetto al parlato ha minor capacità di veicolare gli affetti nell’ambito della relazione. Ne sappiamo qualcosa noi operatori psichiatrici: nel lavoro clinico è e sarà sempre centrale il messaggio orale, mentre lo scritto rivendica il suo spazio nella teorizzazione metapsicologica e scientifica, nonché in certi procedimenti diagnostici che pretendono alla standardizzazione e replicabilità: test, scale di valutazione… Nel quadro generale offerto dalla semiologia, è del verbale la fugacità, dello scritto la persistenza.
Rubo a Derrida alcune frasi, che esprimono la forza ma anche i limiti dello scritto: “ Ciò che non può essere detto non va taciuto ma scritto. Io credo nel valore del libro, che conserva qualcosa di insostituibile”. Tuttavia “La scrittura è la parte morta del linguaggio”.
Credo che per le due modalità, atte a integrarsi e confluire nell’arricchimento e modulazione della comunicazione, si possano riconoscere lontane origini ben distinte l’una dall’altra.
Per la lingua orale, si può ravvisare una sua origine nel grido primigenio – e che ogni tanto riemerge in noi – così saturo di affetti: rabbia, desiderio, timore. Si sarebbe poi instaurata la vera funzione simbolica, quella caratterizzante specificamente il sapiens: ma il legame fra particolare suono e particolare oggetto è arbitrario e casuale oppure necessario per una qualche affinità fra oggetto e suono, come appare nell’onomatopea? Diatriba in corso da sempre.
Diversa l’origine dello scritto. Dobbiamo a Derrida l’importante concetto di archiscrittura, che designa la fondamentale attitudine umana a lasciare un segno, nonché le prime arcaiche realizzazioni di tale attitudine (non diversa, all’origine, dall’uso animale di segnare il territorio?) Si portano come esempio certi cerchi di pietre ordinate che ci pervengono dal paleolitico. Credo che già da allora la traccia assuma una significazione simbolica: indica sempre qualcosa, realizzando in concreto quella che è fondamentale nell’uomo: secondo Saussure, “non è il linguaggio parlato che è naturale all’uomo, ma la capacità di costituire un linguaggio.”
Si può quindi tornare ancor più indietro. Già Socrate descrive percezione e ragionamento come attività di un “interno scrivano che scrive discorsi nell’anima”. Di fatto, questa originaria spinta a lasciar traccia, l’archiscrittura come capacità di ritenere una impressione, può prendere diverse vie: quella dell’arte figurativa; quella della scrittura (dai cuneiformi, dai geroglifici, dalle rune scandinave fino alla scrittura ideografica o alfabetica); o perfino quella di una premessa del ragionamento, della logica, della costituzione di spazio e tempo interni che, in una visione non kantiana, non sarebbero realmente trascendentali ma in qualche modo da noi costruiti.