Vaso di Pandora

Appunti attorno al concetto di rêverie

Avanzo per punti essenziali, dando per conosciuti una serie di elementi che la letteratura psicoanalitica ha trattato.

1. Il bambino ha bisogno di un seno psicosomatico che nutra e sviluppi corpo e mente. Il bambino avverte la sensazione dell’assenza del seno psicosomatico, sensazione che Bion chiama (1962b,p.70) seno cattivo. Accade che inizialmente il bambino invece di sentire di aver bisogno di un seno buono sente il bisogno di mandar via un seno cattivo.

2. In successive trasformazioni il seno “desiderato” non è più sentito come presenza di un seno cattivo bensì come idea di un seno che non c’è più. Ovvero la non-cosa è un pensiero e come tale dev’essere pensata.

3. Bion formula la sua teoria del pensiero (1962a [1], 1962 b [2]) mettendo insieme, integrando, più elementi. Ricordo l’invio di elementi beta dal bambino alla madre (identificazione proiettiva idonea alla comunicazione), la teoria del contenitore-contenuto, la funzione elaborativa della madre-seno psicologico attraverso la funzione alfa. Il modello elaborativo di Bion si regge su una capacità materna (che si propone come capacità dell’analista di farne uso per significare le comunicazioni psico-somatiche del paziente).

4. Tale capacità viene chiamata da Bion rêverie, che inizialmente (1962a,p.201) definisce come “l’organo recettore della massa dei dati sensoriali sul proprio sé raccolti dalla coscienza (rudimentale) del neonato”. L’organo recettore materno a sua volta riproietta nel bambino il dato sensoriale modificato, ovvero dopo che la sua permanenza nel seno lo ha reso tollerabile al piccolo e quindi reintroiettabile. Bion riprende la scarna descrizione della rêverie nel libro successivo, “Apprendere dall’esperienza” (1962b):
5. – “Io penso che… il suo amore (della madre) venga espresso per mezzo della rêverie” p.72.

6. – “Se durante l’allattamento la madre non può permettersi la rêverie – o se può permettersela senza però associarla all’amore per il bambino o per suo padre – questa incapacità ,quantunque per lui incomprensibile, verrà comunicata al bambino e una certa qualità psichica sarà convogliata nei canali di comunicazione, cioè nei legami tra madre e figlio” (p.73).

7. “Rêverie è un termine applicabile a contenuti di ogni genere, ma è mia intenzione riservarlo solo a quelli impregnati di amore e di odio: in questo senso ristretto, rêverie sta a designare lo stato mentale aperto alla ricezione di tutti gli “oggetti” provenienti dall’oggetto amato, quello stato cioè capace di recepire le identificazioni proiettive del bambino, indipendentemente dal fatto se costui le avverta come buone o come cattive. In conclusione la rêverie è uno dei fattori della funzione alfa della madre (p.73).

8. NOTA a p.74: Nella pratica dell’analisi di pazienti con disturbi del pensiero, l’analista deve procurarsi, se possibile, un inquadramento metodologico, ma, cosa più importante, deve anche cercare di immaginare cosa sia per un bambino un sentimento [3].

9. Green (1990)commenta Bion nel “La capacità di rêverie e il mito etiologico”( 1990,p.295) [4]. “Si passa dal versante dell’analizzato a quello dell’analista”. Considera la capacità di rêverie una “replica o un analogo dell’associazione libera… una replica o un analogo del sogno e dei suoi processi primari”. “La libertà (della rêverie) è legata al fatto di lasciarsi andare, rinunciando “liberamente” a esercitare un controllo sugli avvenimenti” (p. 296) [5].

10. Sempre Green (Ibidem p.300) ricorda come Bion, introducendo nella rêverie l’amore per il bambino o il padre, proponga che “la rêverie che ha come oggetto il padre è quindi una rêverie del ricongiungimento triangolare di ciò che le cure materne tendono a separare nella relazione chiusa madre-bambino”. (Mi sono chiesto quanto Lacan fosse presente nel pensiero di Green). Aggiunge poi considerazioni che mi sembrano rêverie di Green sulle parole di Bion: “E’ dunque già una rêverie dell’apertura della relazione ai terzi, seguita dalla temporanea messa in disparte del bambino attraverso la ricostituzione dell’unità duale della relazione pienamente sessuale”. Aggiunge (altra rêverie della rêverie?): La rêverie rivolta al padre significa, per la madre, ricordarsi che il piacere della relazione madre-bambino è temporaneo e deve essere vissuto pienamente, ma che il bambino non le appartiene.” p.300. Green legge nella rêverie il tema della accettazione della temporalità, dell’oblio, della mancanza. Si spinge poi un poco più in là rispetto all’esigua descrizione di ciò che per Bion è la rêverie dell’analista. A p. 306 Green scrive che l’analista ascolta le parole e l’emozione dell’analizzando nella seduta, iniziando un implicito processo di comprensione. La tappa seguente modifica la comunicazione lineare analista-analizzando, “evocando altri frammenti di seduta: alcuni recenti… altri meno… altri infine molto più remoti. E’ questo il fondamento sul quale si sviluppa la capacità di rêverie dell’analista. ”Prenderà la forma – prosegue – del fantasma controtransferale che si suppone corrisponda al fantasma tranferale del paziente”. In questo modo potrebbe sembrare che Green neghi il precetto bioniano di lavorare senza memoria e desiderio. Credo che quello che Green scrive riconfermi, invece, l’invito di Bion: non si parla di memoria intesa come contenuto che l’analista tenta di forzare attivamente nella propria mente, occupando spazio, occludendo o intralciando l’attività del contenitore analitico. Al contrario sta parlando di quel libero viaggiare nel nostro spazio mentale, mettendolo a disposizione dei frammenti di scene ed emozioni appartenenti al paziente mescolati senza sforzo volontario alle nostre fantasie, emozioni, immagini, presentati da quella particolare memoria che consente il lavoro analitico, che crea a quattro mani un quadro immaginario di personaggi, stati emotivi, atti e parole,(il “campo analitico” dei Baranger, credo), che consente la rêverie, che permette la fondazione del percorso interpretativo.

11. “La poetica della Rêverie”, pubblicato da Bachelard nel 1960 [6], mi insegue da molti anni, dopo il mio essermi avvicinato ad essa grazie alle sollecitazioni e al contributo della nostra collega Jole Oberti. Certamente ciò che permette un collegamento tra lo psicoanalista (Bion) e l’epistemologo (Bachelard), peraltro cultore di psicoanalisi, è la posizione comune che essi assumono nei confronti degli usi della mente. L’immaginazione creatrice, la rêverie che propongono entrambi, pur con finalità distinte, è da Bachelard distinta dal rêve, dal sogno che ci afferra , nel sonno, si impone visitandoci la notte, una forma di violenza. La rêverie, dice Bachelard, è una sorta di “poetica-analisi” (p. 110) che trae alimento da “il permanere nell’anima umana di un nucleo infantile, un’infanzia immobile, ma sempre viva, fuori della storia, nascosta agli altri…un’infanzia potenziale in noi. Quando la ritroviamo nelle nostre rêveries… la riviviamo nella sua potenzialità… ci permette di capire e di amare i bambini, come se fossimo a loro uguali”. (ritorno alla nota di Bion, il suo chiedere a noi analisti di immaginare cosa sia per un bambino un sentimento. Bachelard ci riconduce a quegli embrionali stati della mente). Bachelard cita Hoderlin:”Non cacciate troppo presto l’uomo dalla capanna in cui ha passato la sua infanzia”, dove, aggiungo, sono presenti ricordi non razionalmente ricordati, emozioni ed affetti, narrazioni che affascinano, che rintroducono la dimensione estetica, che parlano di madre senza escludere i padri, il calore dell’essere insieme, la caducità di ciò che è stato, che rimane tuttavia come melodia-traccia, la sonorità dell’essere (p.147). La rêverie ha a che fare con lo stupore, con l’errabondare della fantasia nutrita dalle memorie dell’infanzia e “ l’infanzia è uno stato d’anima” (p. 142).

12. Un saggio su Bachelard e la rêverie, di Wunenburger (2011) [7] si apre affermando che per la prima volta l’autore esplora “il doppio versante dello spirito, quello dell’astrazione scientifica e quello dell’immagine poetica”. Ritengo che le stesse espressioni siano confacenti al lavoro di Bion. Ambedue gli autori peraltro sembrano influenzati (la considerazione è di Wunenburger, riferita a Bachelard, io la estendo a Bion) dall’idealismo tedesco [8] che “promuove l’immaginazione al rango di un potere che produce senso al di là dei poteri dell’intento scientifico”. Nel saggio l’autore osserva che l’immaginazione creatrice appare come un’attività di trasformazione simbolica, curiosamente riportandoci al modello bioniano (lavoro contenitore-contenuto, trasformazioni delle proiezioni beta in elementi alfa). Osserva poi come la rêverie , a differenza della ragione, che segue la regola della non contraddizione, valorizza l’ambivalenza (in senso psicoanalitico) come legge fondamentale dell’immaginazione. Il tema del mistero e della violenza , che Bachelard tratta a proposito dell’acqua e del fuoco, l’ignoto, la presentazione di un modello da cui sorge la rêverie, come ricorda Lescure [9], prodotta dalla coppia artista-spettatore, mi pare rimandino a quell’uso della mente, (alla nascita della mente che pensa i pensieri) , che Bion ci propone. Analogia tematica, quella dei due autori, da considerarsi una svolta dell’indagine (intuizione) epistemica e che, come spesso avviene nei pensieri creativi dell’uomo, sorge in un medesimo tempo nella mente di ingegni diversi.

13. Ogden (1997, p.10) [10] riprende il pensiero di Freud (o “un pensiero di Freud”) sul lavoro dell’analista osservando che siamo inconsciamente recettivi nei confronti dell’analizzato (lo stato di rêverie di Bion), aggiungendo che tale condizione ” implica la (parziale) consegna della propria individualità separata a un terzo soggetto”, il “terzo analitico intersoggettivo” (op. cit. p.61), costruito dalla intersoggettività di analista e analizzando. Non appartiene pertanto ad alcuno, pur essendo frutto dell’interazione di ambedue, le rêveries della coppia, e, aggiunge Ogden, contiene grazie all’apporto dei due inconsci, “nuovi eventi inconsci intersoggettivi mai esistiti prima nella vita affettiva dell’analista o dell’analizzando” (p.103). Ritornando alla rêverie, Ogden ne commenta (con le parole di Jarrell) la sua “strana ordinarietà, la sua ordinata stranezza”, “ruminazioni, fantasticherie, fantasie, sensazioni corporee” (p.85-86), rinnovando, (senza citarlo), la tematica e le definizioni di Bachelard. Nella pratica clinica si propone per un muoversi scivoloso, che non controlliamo, che sfugge inavvertitamente al conscio e si riaffaccia (osservo io) al conscio senza invito. Aggiunge Ogden: “Non ha un chiaro punto di partenza o di conclusione che la separi, per esempio, da un pensiero del processo secondario che la segua o la preceda”. Neppure, aggiunge, forse un po’ deludendo il lettore, è immediatamente utilizzabile per l’interpretazione. In questo senso la rêverie naviga nel mare della capacità negativa (l’esperienza di essere alla deriva, p.87) . La proposta è la necessità di tollerarne la comparsa e il senso che in essa è occultato. Siamo vicini al concetto di sogno della veglia e alla pazienza (termine bioniano) che è elemento proprio dell’analista, al non aver fretta nell’esplodere in una prematura interpretazione.

14. Per maggior chiarezza, accenno a una situazione analitica in cui Ogden racconta una sua reverie intorno ad una paziente (p. 99). Provò nausea, aspettava un colpo all’addome, ebbe la sensazione che la paziente lo divorasse con gli occhi…arrivarono pensieri e memorie su aspetti della relazione della paziente con i genitori…giunse poi all’analista una rêverie più organizzata, una scena di un film, un poliziotto…poi altre emozioni, un amico che improvvisamente deve essere operato al cuore… Non nasce immediatamente un’interpretazione, e quando “il fatto scelto” si farà strada, l’apporto della reverie risulterà imprescindibile.

15. Gaburri (1988) riflette sul lavoro dello psicoanalista [11] proponendo di riprendere il concetto di Bion-Keats (Lettere…) di “Linguaggio dell’Effettività”. “Quest’ultimo – scrive Bion – include un linguaggio che è sia preludio all’azione sia esso stesso una sorta di azione”(1970,p.169) [12]. Più il là (p.172) aggiunge: L’idea nutrita dall’amore si sviluppa dalla matrice alla funzione nel Linguaggio dell’Effettività; di qui può essere trasformata in effettuazioni”. Gaburri considera l’effettività come modo per esprimere l’adeguatezza comunicativa dell’interpretazione, a cavallo tra conoscenze teoriche e flussi emotivi (p.121). La funzione di rêverie si propone come linguaggio dell’effettività, con la sua quota di “laboriosa tolleranza perché aperture inedite si producano nel campo”. La tolleranza all’inedito, all’accettazione di un certo grado di impotenza a cogliere e saturare ogni valenza significativa sono gli aspetti che consentono a Gaburri di accostare il concetto di reverie al concetto di non-cosa, necessitante la tolleranza dello scarto tra rappresentazione e cosa-in-se.

16. Grotstein (2007) [13], inserisce la reverie tra gli strumenti bioniani per l’esplorazione analitica collocandola accanto al linguaggio dell’effettività, alla visione binoculare, ai pensieri selvatici (p.32). Nel suo pensiero la reverie appartiene sia alle attività mentalmente insature, sia contiene le qualità del pensiero intuitivo di pertinenza dell’emisfero destro. Commenta che nel pensiero di Bion la rêverie non deve essere confusa con il controtransfert, “che comprende l’intera gamma del repertorio di sentimenti ed emozioni dell’analista”. La rêverie designa un particolare assetto mentale dell’analista “che abbandona memoria e desiderio per essere ottimamente intuitivo e recettivo verso il proprio inconscio di fronte all’analizzando”(p. 203). In questa definizione propongo il confronto con un altro concetto bioniano , il sogno della veglia, che Grotstein ricorda affermando che “è pensiero, oltre a essere il requisito necessario per pensare, sentire ed essere” (p. 292).

17. Queste ultime riflessioni di Grotstein spingono nella direzione del lavoro di Nino Ferro. Dalla sua vasta bibliografia ho preso in considerazione soprattutto il libro del 2002 “Fattori di malattia, fattori di guarigione” [14]. Ferro, riflettendo sulle qualità della mente dell’analista, conferma i precetti bioniani, ovvero le capacità di accoglienza delle proiezioni (elementi beta) del paziente, di contenimento delle stesse senza ansia di espulsione, infine di traduzione in significati “andando a bottega nella mente dell’altro”(p.18). Come? Innanzi tutto dando forma a un “pittogramma visivo, opera assolutamente creativa” ,a cui segue la trasformazione nella forma narrativa della sequenza (elementi alfa). La rêverie consente questo percorso, che si compone inoltre , prosegue Ferro, di tolleranza alla frustrazione, al lutto, al limite. Come Ogden anche Ferro entra più di altri nella descrizione “concreta” di come in lui si sviluppa ciò che chiama rêverie, la “forma” che assume in seduta. Riprende successivamente la descrizione della rêverie (p.60) sottolineandone la forma di scambio emozionale primitivo (proto-emozioni, proto-sensazione, elementi beta) tra analista e analizzando e la trasformazione ed elaborazione in elementi alfa. Affrontando il tema del metodo necessario a compiere questa trasformazione, Ferro rintroduce il tema bioniano dell’”onirico della veglia”, di cui prendiamo coscienza solamente nella condizione mentale di rêverie [15].

18. Ho pensato di chiudere questa breve rassegna sulla rêverie con un rapido riferimento al pensiero degli Symington (1996) [16], che mi pare chiariscano con semplicità originale aspetti del nostro discorso. In particolare: – La “disciplina” dell’analista deve consentirgli di distaccarsi da “un attaccamento dipendente alla memoria” (p. 184).  L’affiorare di un ricordo nella mente dell’analista in seduta costituisce una rêverie e quel ricordo “ come simbolo di una realtà psichica è estremamente rilevante”.

NOTE

[1] Bion, W. (1962b) “Apprendere dall’esperienza”, Armando, Roma, 1972.

[2] Bion, W. (1962a) “Il pensare: una teoria”, in: Bott Spillius (1988): “Melanie Klein”, Astrolabio, Roma, 1995.

[3] Riprendo da “Cogitations” (1992) -5 agosto 1959- la concezione di Bion, in assoluta coerenza con quanto pubblicato successivamente, che legge la psicosi come risultato di una grave carenza di reverie. L’incapacità psicotica di tollerare la frustrazione e quindi la realtà, che egli odia, comporta l’eccedenza di meccanismi evacuativi e una assai povera capacità introiettiva.

[4] Green, A. (1990) “Psicoanalisi degli stati limite”, Cortina, Milano, 1991.

[5] Ritorno brevemente a Freud ”Consigli al medico nel trattamento analitico”(1912)OSF 6, ricordando due suggerimenti apparentemente contrastanti: – tenere a mente tutti gli innumerevoli nomi, dettagli, associazioni e produzioni patologiche…p.532:- “Si tenga lontano dalla propria attenzione qualsiasi influsso della coscienza e ci si abbandoni completamente alla propria “memoria inconscia” p.533. Questo secondo “consiglio” anticipa il grande riconoscimento che oggi stiamo attribuendo all’intelligenza del mondo inconscio nostro e del paziente.

[6] Bachelard, G. (1960), “La poetica della reverie”, Edizioni Dedalo, Bari, 1972.

[7] Wunenburger, J-J. (2011), “Gaston Bachelard: poetique des images, mimesis, l’oeil et l’esprit.”IDEACAO, Feira de Santana, n.25, p. 19-41.

[8] Citando l’idealismo credo che l’autore si riferisca in particolare all’idealismo trascendentale di Ficte e Schelling che arriverà fino a Husserl. Ricordo, brevissimamente, in Schelling, la valorizzazione del sapere intuitivo inteso come unità profonda di consapevolezza e inconscio, di produttività e ricettività.

[9] Lescure (cit. Wunenburger).

[10] Ogden, T. (1997) “Reverie e interpretazione”, Astrolabio, Roma,1999.

[11] Gaburri, E. (1988) Reverie e non cosa. Riflessioni sulla funzione interpretativa. Bion Talamo, P. et altri (a cura di) In: “Lavorare con Bion” Borla, Roma.

[12] Bion,W. (1970) “Attenzione e interpretazione”, Armando, Roma, 1973.

[13] Grotstein, J. (2007) “Un raggio di intensa oscurità”. Cortina, Milano, 2010.

[14] Ferro, A. (2002) “Fattori di malattia, fattori di guarigione”, Cortina, Milano.

[15] Intorno al “sogno della veglia” rimando allo stesso Bion (vedi ad es. Cogitatios, p.74), a Grostein, a Ferro, e a chi volete.

[16] Symington, J. e N. (1996) “Il pensiero clinico di Bion”, Cortina, Milano, 1998.

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