QUALE FUTURO?
Le varie proposte regressive finora non hanno avuto concreto seguito, malgrado il mutato clima politico. Si può, con un pizzico di ottimismo, sperare che la legge non verrà snaturata, anche perché sostanzialmente ha mostrato di funzionare dove è stata realmente applicata, pur secondo modelli non proprio identici. L’opinione pubblica non è allarmata, altre e più realistiche sono le preoccupazioni degli italiani. Certo, le dinamiche di tipo schizoparanoideo che sottendono l’angoscia e il rifiuto dell’altro, del diverso-da-me non sono venute meno, né lo potevano, e non è dunque scomparso il bisogno di occultare e dimenticare laceranti problemi. Ma, come si vede scorrendo la stampa quotidiana, queste dinamiche oggi tendono a focalizzarsi meno sul disturbo mentale e di più su altri problemi, come l’immigrazione. Un tentativo di affossare la legge è sempre possibile: ma non mi sembra costituisca un cavallo vincente per una parte politica o per qualche singolo politico ambizioso.
Più concreto il rischio di un cambiamento strisciante, nel senso di un progressivo accumularsi delle lungodegenze e scarso turn over nelle strutture, che potrebbero trasformarsi da terapeutico – riabilitative in assistenziali. E’ una delle grosse sfide all’operatività dipartimentale e alla gestione delle strutture, e richiede innanzi tutto una riflessione sul senso della lungodegenza: scacco della terapia? fase possibile della terapia? funzione non più terapeutica ma assistenziale? E’ necessario, e si è avviato, nelle organizzazioni più consapevoli del problema, un lavoro di monitoraggio dei processi di cura, degli esiti, dei rapporti fra processi ed esiti; e una riflessione su quanto, nella lungodegenza, incida la “fatalità” del decorso morboso e quanto invece la risposta della collettività e dei dispositivi di cura. Si è pure avviata una riflessione sul senso della residenzialità psichiatrica, più o meno aderente al modello di comunità terapeutica in senso stretto, definibile come interfaccia fra sociale e personale; sul significato e modalità dell’abitare; sul concetto di residenza emotiva, su quanto questa venga di fatto realizzata e sul suo impatto terapeutico. Ma questo è funzione certo anche di singoli momenti dell’intervento, come il territoriale e il residenziale, ma nell’ambito del generale funzionamento dell’intero sistema e delle sue articolazioni.
Non sono esenti da un rischio di ritorno neo-manicomiale neppure i Servizi territoriali se, come è sensato, ricordiamo che il manicomio è in primo luogo un luogo della mente, che può strutturarsi o meno in alti muraglioni: il rischio manicomiale nei Servizi nasce dall’abitudine, dalla noia, dall’interminabile rapporto con una popolazione di utenti in discreta parte stabile e immutabile, dalla frustrazione, dalla cronicizzazione degli operatori. Ne nasce l’esigenza di una regolare autovalutazione non autoreferenziale, di riflessione su compiti, richieste e risposte fornite, di un lavoro di supervisione; in una parola, di una costante manutenzione.
Oggi le sfide poste alla psichiatria sembrano cambiare aspetto. Fra i vari punti di osservazione, mi rifaccio a quello che meglio conosco personalmente: quello costituito dalle strutture residenziali, la cui utenza è uno specchio delle difficoltà incontrate nei trattamenti non residenziali. Negli ultimi anni vi si fa un minor ricorso per le condizioni psicotiche, forse anche perché la disponibilità di un arsenale farmacologico articolato e ricco di risorse consente, nelle mani di operatori meglio preparati, interventi psicofarmacologici più mirati e fini, considerati non come il rimedio al disturbo ma come uno strumento fra gli altri. Il contemporaneo aumento delle richieste di residenzialità per i c.d. disturbi di personalità può esser posto in rapporto, certo indiretto ma reale, con i cambiamenti sociali in atto: il mutato assetto dei rapporti di lavoro, l’aumento del precariato, l’indebolimento del welfare e delle organizzazioni solidaristiche come i sindacati, la fragilità dei nuclei familiari, l’ondata migratoria: tutto concorre a lasciare l’individuo solo con le sue difficoltà. La storia deve servire a qualcosa: non dimentichiamo che gli asili pre – e protopsichiatrici erano nati come rudimentale e indifferenziata offerta di assistenza sociale per le caste sacrificate: l’unica oltre a quella, in parte sovrapposta, di matrice religiosa.
La psichiatria deve confrontarsi con la rinnovata realtà, in primo luogo con la propria competenza a intervenirvi e con il legittimo ambito della propria azione; in secondo luogo, con la necessaria multidisciplinarietà di questa, che va integrata con quella di altre agenzie. Quasi paradossalmente quindi, lo sviluppo della psichiatria biologica va in parallelo con l’esigenza di una rinnovata attenzione alla conflittualità sociale sempre connessa al disturbo mentale, e conferma ancora una volta lo statuto della psichiatria come disciplina di confine e necessariamente interdisciplinare.