CRESCITA DEI DISPOSITIVI DI CURA
In Liguria, un momento importante è stato costituito dalla Legge Regionale 4/8/88, nata (sia detto per inciso) dall’input dei Servizi Savonesi. Essa definisce 8 Dipartimenti di salute mentale: di ognuno di essi fa parte il Servizio di Salute Mentale e, ove presente, il SPDC; un Comitato tecnico di coordinamento cura l’omogeneo svolgimento delle attività delle due agenzie. Il Comitato Direttivo deve formulare un programma triennale degli interventi.
Questo prevede l’attivazione di almeno una C.T. per USL e ne prescrive l’attivazione entro tre anni di una ogni due USL. Prevede anche centri diurni e di comunità alloggio; prescrive iniziative per la formazione del personale.
Con l’andar degli anni, si è infine potuto contare, in Liguria come altrove, su una dotazione di strutture intermedie, a gestione pubblica e privata: comunità terapeutiche in senso proprio, comunità protette, comunità alloggio, gruppi appartamento, centri crisi, day-hospital, laboratori protetti. Alcune di queste strutture erano e sono di tipo residenziale, e il loro svilupparsi non è stato accolto senza obiezioni e perplessità, per il rischio che si ricostituisse una nuova realtà di tipo manicomiale, esente dai limiti quantitativi che erano imposti agli SPDC. Si è dovuta riconoscere, non senza lunghe reticenze, l’esistenza di condizioni morbose che impongono soggiorni residenziali anche protratti, per esigenze in parte attivamente terapeutiche e in parte assistenziali: gli operatori hanno dovuto muoversi su uno stretto crinale, evitando da un lato il ricostituirsi di nuove sacche di lungodegenza e dall’altro l’abbandono di pazienti necessitanti di un forte supporto. Credo che la chiave del problema non stia tanto nel definire limiti temporali di un intervento attivo, ma in una costante attenzione ai bisogni del paziente – da lui espressi chiaramente o cripticamente – così da fornire una protezione e una stimolazione (dimensioni non antitetiche ma complementari) non eccessive ma neanche carenti. Importante lo strumento offerto dalle case – appartamento, in cui possono trovare approdo i pazienti non del tutto autonomi ma non più necessitanti di intervento terapeutico attivo e ad alta protezione. In tali strutture, molto aperte sull’esterno, il rischio di istitutizzazione è ovviamente ridotto.
La situazione in Italia al 31/12/92 è fotografata da una ricerca dell’Istituto Italiano di Medicina Sociale:
Centri di Salute Mentale: 1369;
SPDC: 341, con 4285 posti letto;
Strutture residenziali: 353 con 2905 posti letto;
Strutture semiresidenziali:325 con 1635 posti letto
Complessivamente operano allora nei Servizi 31.478 operatori, di cui 17.052 infermieri, 5.533 medici, 1.918 psicologi, 1.615 assistenti sociali, 1.007 educatori e terapisti della riabilitazione, 181 sociologi.
La distribuzione è molto irregolare, con forti carenze soprattutto al Sud.
Si verificano divaricazioni anche nel tipo di approccio: a fronte di realtà come quella triestina, in cui l’allocazione delle risorse privilegia fortemente la presenza sul territorio, se ne verificano altre che non negano il senso del ricovero e della residenzialità, intesi non necessariamente come scacco della terapia ma come momento della terapia. Anche a livello tecnico si registrano differenze: si può porre l’accento sull’incontro interpersonale e – per il momento residenziale – sulla terapeuticità globale dell’ambiente, e anche sull’intervento di figure non professionali, oppure puntare su approcci più tecnologici, non solo farmacologici ma ispirati a quell’ottica cognitivo – comportamentale che tanto spazio ha nel mondo anglosassone. Questo secondo approccio ci convince meno come psichiatri favorevoli a uno sguardo umanistico, ma per contro si presta meglio a procedure valutative dei processi e degli esiti, e dunque si inserisce più facilmente in un’ottica amministrativa aziendalistica. Mi pare questo un aspetto di ciò che fa il limite e il fascino della psichiatria: ciò che è veramente importante non è agevolmente misurabile. Evidenzia pure il non facile rapporto fra l’intervento terapeutico e il quadro amministrativo nel quale esso si attua.
Il 7/4/94 il Progetto Obbiettivo per la tutela della salute mentale – seguito poi da quello 1998 – 2000 – prescrive formalmente l’organizzazione dipartimentale, già presente di fatto in numerose realtà, come strumento di una azione organica nei vari momenti residenziali e non residenziali; indica tipologia, dimensioni, caratteristiche delle strutture residenziali finalizzate anche al superamento definitivo degli O.P., che nel ’92 sono ancora 76, con 16.991 ospiti. Alla chiusura si giunge nel 1998. Essa si impone con tanta maggior forza in conseguenza del disinvestimento emotivo e operativo che ha contribuito all’ulteriore degrado di queste strutture e della restante loro popolazione, plasticamente espresso dal termine, non casualmente impostosi, di “residuo manicomiale”.
In Liguria, Pratozanino chiude il 18/7/98. Ciò è reso possibile dalla creazione di strutture dedicate, come lo “Skipper” del gruppo Redancia, dotata di 40 posti, dove le attività terapeutico – riabilitative puntano, per quanto possibile, a una “rianimazione istituzionale”, con riduzione del danno consecutivo a prolungatissimi periodi di malattia e di istitutizzazione.