PERCORSO ATTUATIVO DELLA RIFORMA
REALTA’ ITALIANA, LIGURE, SAVONESE. PRIMO IMPATTO
Il difficile avvio del nuovo dispositivo terapeutico si ripercuote inevitabilmente sulle famiglie, il cui malessere le porta a cercare difesa in numerose associazioni, dalle posizioni peraltro differenziate: Di.a.psi.gra., Un.A.Sa.M., Associazione Arcobaleno, A..L.Fa.P.P, Barattolo… Alcune tendono fondamentalmente a un ritorno all’antico, altre sollecitano una migliore applicazione della nuova legge in alleanza con Servizi e Strutture, anche affiancando nella stessa associazione familiari, pazienti e operatori. Si fa strada nei Servizi la consapevolezza del ruolo chiave della famiglia e della necessità di coinvolgerla nel processo terapeutico. Del resto, ciò fa parte della necessità di un intervento di rete che coinvolga anche medici di base, Servizi sociali, al caso forze dell’ordine, quella intera micro-collettività che costituisce l’ambiente di vita del paziente.
L’insieme di ritardi e contraddizioni ha provocato difficoltà e angosce, provate sulla pelle di operatori e pazienti. Chi scrive ha operato in un Servizio ospedaliero con rapporto particolarmente sfavorevole fra dotazione di posti letto e numerosità (240.000) della popolazione da servire, e in cui quindi si è vissuta in modo pesante la difficoltà comune a tutti i Servizi omologhi: la costante lotta per tenere in limiti accettabili la saturazione degli ambienti. Limiti da rispettare per quanto possibile, e non tanto per non varcare i limiti di legge: lo sforamento era infatti sempre giustificabile con le cause di forza maggiore, e con l’obbligo di non rifiutare un intervento sanitario dovuto e improcrastinabile. Quando segnalavo la cosa agli amministratori, rispondevano che era compito e responsabilità del Primario rispettare i limiti di legge e anche garantire sempre le necessarie prestazioni: come se fosse possibile conciliare le due cose. Dal canto suo la Direzione Sanitaria emanava periodici ordini di servizio disponendo di limitare i ricoveri alle situazioni di urgenza; ma erano ordini privi di efficacia perché l’urgenza era la regola, che si trattasse di ricoveri obbligatori o volontari.
La vera grave conseguenza del costante sovraccarico era un’altra: il degrado ambientale del Servizio con compromissione della privacy e frustrazione di ogni tentativo di terapia ambientale. Un collega responsabile di un Servizio Genovese diceva, con triste e sarcastico paradosso: “Io sto difendendo il servizio dall’assalto degli psicotici” .
Un argine consisteva nel sistematico controllo delle proposte di ricovero volontario, che l’equipe setacciava intervenendo a qualunque ora nel Pronto Soccorso: compito improbo perché i turni di reperibilità sono stati suddivisi per qualche tempo fra due soli Sanitari e poi, piuttosto a lungo, fra i tre (incluso il Primario, beninteso) che costituivano l’intero staff medico. Questo, per un periodo non breve, ha sperimentato un vissuto di isolamento e quasi di accerchiamento (mi si passi il termine paranoicale). Infatti l’Ospedale non accoglieva bene la novità: “Ma come, ci portate qua i matti?”; non era facile per i Colleghi dei vari reparti accettare nel posto di lavoro una coesistenza, pur controllata, con quella follia che un tempo era facile esorcizzare facendola magicamente scomparire nei manicomi. Non rara la richiesta di trasferimento nel nostro Servizio di pazienti con evidenti e gravi patologie somatiche ma dal contegno disturbante.
Non facile il rapporto neppure con quel naturale alleato che era il Servizio territoriale. I presupposti (in parte) immaginari erano, per lo staff del Servizio Territoriale: “Gli operatori del Servizio Ospedaliero (SPDC) provengono dal manicomio e quindi portano con sé quella cultura, fatta di approccio esclusivamente farmacologico e violento; l’SPDC in sé è un residuo di manicomio, di cui sarebbe bello fare a meno: se lavoreremo bene un giorno forse ci riusciremo”. E, per lo staff del SPDC: “gli operatori del Servizio territoriale lavorano meno di noi, o almeno hanno orari più comodi; la loro presenza in servizio non è ben controllabile; fanno della teoria a buon mercato, non sostenuta da vera preparazione; quando trovano serie difficoltà possono sempre scaricarle su di noi”. Ovviamente, qui estremizzo la rozzezza di queste posizioni.
E’ stato difficile e lento il progressivo superamento di questi (possiamo chiamarli assunti di base?), nati anche dalla diversa provenienza e retaggio culturale dei due staff: l’uno dal manicomio, l’altro dalla vecchia Igiene Mentale o, in larga parte, di nuova assunzione gestita da Amministrazioni di sinistra comprensibilmente diffidenti verso tutto ciò che dal manicomio proveniva. La separatezza dei due Servizi è stata a un tempo origine e conseguenza di questo stato di cose: non ha certo impedito la collaborazione, che stava nelle cose; ma l’ha resa a lungo più faticosa.
Lo staff del SPDC era spaccato anche all’interno, perché nessuno degli infermieri aveva accettato spontaneamente il trasferimento: in applicazione della legge, un gruppo di essi era stato “comandato” nella nuova sede, e tutt’altro che di buona voglia: con toni di scherno definivano il manicomio di Pratozanino “la casa madre”, quasi a definire la nuova collocazione come una sorta di provvisorio distacco, non di inserimento in una nuova realtà. Si sentivano sradicati dal vecchio ambiente degradato ma rassicurante; temevano senza ammetterlo di essere impari ai nuovi compiti; pativano il confronto con i colleghi dell’Ospedale, dotati di altra preparazione e con compiti sentiti come più qualificanti, e certo l’atteggiamento di questi ultimi non era incoraggiante. Un episodio per tutti: quando, anni dopo, qualche pensionamento ha reso inevitabile un avvicendamento con nuovo personale, una delle scelte “naturali” della Direzione sanitaria è caduta su un infermiere clinicamente psicotico, che peraltro non si peritava di rivendicare una propria superiorità in quanto infermiere diplomato, a differenza dei nuovi colleghi.
Fra i medici dell’Ospedale Psichiatrico invece si era trovato qualche volontario, desideroso di uscire dall’isolamento manicomiale e di entrare a pieno titolo in una vera professionalità medica, socialmente ed economicamente meglio qualificata. Malgrado le mille difficoltà, sentivano di operare finalmente in una realtà viva e stimolante, che non lasciava spazio ad alcun rimpianto per il passato.
La descritta diversità di visione nei due gruppi di operatori ha a lungo impedito la formazione di un vero e coerente gruppo di lavoro.
La gradualissima uscita da questo stato di cose è stata resa possibile da diversi fattori: il progressivo attenuarsi delle angosce, diffidenze e risentimenti reciproci; il rafforzarsi della equipe SPDC e di quella Territoriale, che ha migliorato la propria capacità di intervento e di filtro; il ridursi dei movimenti espulsivi dell’ambiente ospedaliero; il progressivo strutturarsi di una rete di strutture intermedie a gestione pubblica e privata ma comunque inserite nel Dipartimento infine formalmente costituito.