Commento all’articolo: Cyberbullismo, la storia di Massimo: “Mi chiamavano cane e nessuno mi ha difeso, grazie a mio papà ho trovato la forza di denunciare” – apparso su La Repubblica, il 7 Febbraio 2023
Ho conosciuto una donna, Angela, tra le tante cose che mi ha confidato del suo passato che non le danno pace c’è il ricordo che la lega ad un ragazzina, Martina.
“Vivevamo nello stesso quartiere, io ero di famiglia più benestante ma nonostante questo Martina e la sua famiglia non mancavano di accogliermi e di essere generosi con me. Sapevano che il pomeriggio ero spesso sola perché i miei genitori lavoravano e allora mi invitavano da loro. E io ci andavo. Ma non perché mi piacesse stare da Martina o giocare con lei, ci andavo soltanto perché mi faceva sentire forte. Sì, forte e potente. Lei era servile, per me avrebbe fatto qualsiasi cosa. E io non lo sopportavo, ma allo stesso tempo desideravo sentirmi così. Mi veniva di trattarla male, le chiedevo di fare tutto quello che a me non andava. E lei era sempre pronta. Per lei, il solo fatto che fossi lì era motivo di gioia, per lei ero una “popolare” e si sentiva considerata. Io invece mi vergognavo a dire che trascorrevo i pomeriggi con lei, lo nascondevo. E quando eravamo a scuola, con le altre compagne, le dicevo di starmi lontana, di non raccontare delle nostre giornate insieme. La deridevo davanti a tutti. Sottolineavo quanto fosse incapace, limitata, senza un bruciolo di intelligenza. Lei non si è mai ribellata. Mi guardava, però. E io non riuscivo a reggerlo quello sguardo, non so cosa avrei fatto per levarglielo dal viso. Penso che non potevo guardarla perché in fondo Martina mi ricordava quello che di me non volevo vedere. Mi sentivo limitata, non avevo una migliore amica perché avevano scelto tutte qualcun’altra. E mi pareva di non essere speciale in niente e per nessuno.”
Ho parlato anche a lungo con Maria, la madre di Sofia, una ragazza di 15 anni che nella chat della classe insultava pesantemente una compagna prendendola di mira per la sua balbuzie.
“Per me è stato un duro colpo. Quando la madre di una compagna di Sofia mi ha mostrato la chat, io non ci potevo credere: Sofia usava un linguaggio che non le ho mai sentito, bestemmie, insulti. Non poteva essere mia figlia. Non l’abbiamo cresciuta così! Mi sono domandata di cosa non ci fossimo accorti e quando le abbiamo parlato ho capito che di lei non sapevo niente: ci ha detto che si sentiva la peggiore, inutile, incapace. Che fisicamente non si piaceva, che si vergognava del suo aspetto fisico e che le sembrava che le altre fossero tutte meglio di lei. Che ogni volta che usciva di casa, si trovava a fare dei confronti tra lei e le altre; che si sentiva una nullità, che avrebbe preferito morire pur di mostrarsi più. Che quella sua compagna di banco balbuziente non la sopportava, le faceva sentire rabbia, una rabbia incontenibile perché tutti la tutelavano e la trattavano con delicatezza. Che lei non si sentiva trattata in quello stesso modo, da nessuno. Nessuno si era accorta che anche lei soffriva, anche se non era balbuziente. Sofia è sempre stata una ragazzina premurosa e accudente, forse le abbiamo chiesto troppo, di essere brava come la sorella più grande e allo stesso tempo che si occupasse anche del fratello più piccolo. Ci faremo seguire, non solo Sofia, ma anche noi, io e mio marito, per capire quello che ci è successo”.
E infine c’è Mattia, un paziente sedicenne inviatomi dalla mamma preoccupata perché il figlio sosteneva di non provare alcuna emozione.
Dalla prima seduta si è raccontato: una storia di prese in giro a causa di un banale difetto fisico, denti grossi e pronunciati, iniziata alle scuole elementari e continuata fino alle scuole medie e culminate in un’imboscata di gruppo dalla quale riesce ad uscire grazie all’amico Giorgio, che non lo lascerà mai più solo. Il tutto perché non si sottometteva ai bulli: rispondeva, non cedeva alle richieste di denaro o altri favori. Non ne ha parlato con nessuno, Mattia, perché i genitori si stavano separando e lui non voleva creare altri dispiaceri in casa. Ha provato molta paura. Non provare più niente, oggi, è per non provare più quella paura.
Bulli. E Vittime.
Leggere la notizia di Massimo, l’adolescente romano che ha trovato il coraggio di denunciare dopo aver subito angherie di ogni sorta, mi ha fatto pensare alle situazioni di cui mi sono curata per lavoro.
Di vittime, così come di bulli.
Generalmente, quando si affronta il tema del bullismo, vengono enfatizzati interventi sui ragazzini identificati come bulli sempre in chiave punitiva. Come se la sola punizione mettesse a posto le cose.
Mi chiedo se, invece, non serva promuoverne la prevenzione: a scuola, in famiglia, nello sport.
Promuovere tra i giovani il valore della condivisione e del rispetto degli altri.
Promuovere un atteggiamento inclusivo, che metta al centro la dimensione relazionale ed affettiva.
Mi chiedo se non serva lavorare per migliorare le competenze empatiche e la capacità di mettersi nei panni dell’altro.
E non solo dei giovani. Anche degli adulti. Perché spesso il bullismo non è che una manifestazione di disagio che non viene compreso. Come quello delle vittime, che non riescono a reagire, che non riescono a chiedere aiuto.
Anche gli adulti devono essere disponibili a mettersi al lavoro: serve formare gli insegnati, i dirigenti, gli allenatori e che questi lavorino in rete con le famiglie.
Perché diano il buon esempio. Perché siano in grado di vedere e di affrontare la complessità delle situazioni.