Corri per pensare così il jogging salva la memoria
Commento di Anna Bonfanti
Il commento che segue si riferisce all’articolo “Cervello – Corri per pensare così il jogging salva la memoria” Federico Rampini, REPUBBLICA, 12/04/2013
Leggiamo sempre più di frequente sulla stampa divulgativa articoli che fanno riferimento a comportamenti della vita quotidiana che possono avere effetti “terapeutici”. Di fatto la ricerca, in particolare quella genetica e molecolare, sta fornendo la chiave per aprire le porte della comprensione della complessa interazione tra gli organismi e l’ambiente e, di conseguenza, anche sulle potenzialità di interventi non solo farmacologici ma anche comportamentali per prevenire e curare le malattie. I medici del passato, soprattutto quello più remoto (pensiamo alla Scuola Salernitana ma anche alle prescrizioni delle cosiddette medicine tradizionali), utilizzavano questo metodo e le prescrizioni non si limitavano alle “droghe” ma includevano l’alimentazione, l’attività fisica e l’ambiente. La medicina allopatica super-specialistica, pur acquisendo un corposo gruppo di utilissime conoscenze, ha assunto un deviante aspetto meccanicistico e perduto la visione d’insieme necessaria alla cura del malato e non della malattia, categoria arbitraria necessaria a fare ordine nel caos.
Per venire al contenuto dell’articolo, già da diversi anni le neurotrofine, di cui il BDNF, la proteina citata e su cui ha effetto l’attività fisica, fa parte, sono studiate nei meccanismi dello stress e dell’invecchiamento cerebrale, nella neurogenesi e per il loro ruolo in patologie quali la depressione e l’ansia.
L’attività fisica, oltre a effetti diretti sull’apparato circolatorio, osteoarticolare e muscolare, provoca generalmente un miglioramento della memoria, dell’attenzione, della concentrazione, della tolleranza al dolore e dell’umore. I meccanismi coinvolti sono molteplici e si vanno progressivamente chiarendo nei loro aspetti neurochimici ma anche molecolari e di regolazione genica. Il nostro DNA non solo definisce la nostra caratteristica comune e la nostra unicità al tempo stesso ma soprattutto ci permette l’adattamento all’ambiente in cui viviamo, esprimendo in modo adattivo le proteine necessarie. L’attività fisica ha mostrato di regolare l’espressione del BDNF in aree cerebrali coinvolte nei circuiti dello stress e della memoria, sia in modelli animali che negli studi sull’uomo, e un suo aumento in alcune aree cerebrali è correlato al contenimento dei sintomi depressivi e ansiosi. L’attività fisica è stata studiata anche in donne incinte ed è stato rilevato, su un campione corposo, che i neonati delle donne che la praticavano mostravano precocità e migliori prestazioni di apprendimento, rispetto a donne sedentarie. Il limite di questi studi, compreso quello di cui si parla nell’articolo, può essere quello di interpretare correttamente le molteplici variabili coinvolte.
Molti lavori interessanti stanno comparendo su aspetti particolari dell’alimentazione e anche sull’interazione fra supplementi dietetici e terapia farmacologica per il controllo di alcuni sintomi psichiatrici. Le stesse terapie farmacologiche in uso potranno probabilmente presto essere prescritte in modo differente, personalizzato e integrato con prescrizioni dietetiche e comportamentali e nuove frontiere di intervento sono attese proprio dalla regolazione dell’espressione genica. Area di grande interesse sarà poi quella preventiva, nel senso di una consapevolezza delle conseguenze delle proprie abitudini e dei propri stili di vita su aspetti biochimici patogenetici peculiari . La possibilità di comprendere come tutto ciò che facciamo e l’interazione con quanto ci circonda abbia conseguenze sul nostro stato psico-fisico è la base di questa consapevolezza e “riabilita” in ambito psichiatrico quello che viene talvolta definito in modo sprezzante “riduzionismo” biologico , prospettiva che si propone di capire i meccanismi che sottendono al nostro essere persone nel mondo.
Anna Bonfanti
Cara Anna, solo una piccola obiezione. Nessuno potrebbe negare i riflessi e le correlazioni fra dati somatici – alimentazione, attività fisica, salute fisica, farmaci – e stato mentale, patologico o “normale”; questo non è riduzionismo. Riduzionismo è invece una posizione epistemologica che ritiene possibile e comunque sempre augurabile esprimere i dati mentali in formulazioni fisiche, chimiche, biologiche, in quanto dotate di maggior certezza e ripetibilità. E’ questo che non mi pare accettabile: la mente ha una propria dignità ontologica, che per principio credo non consenta di ridurla al sistema nervoso, anche se è legittimo e utile perseguire correlazioni e corrispondenze fra i due ordini di fenomeni. Ciao: sai che entrambi amiamo il movimento…