Luci ed ombre della nuova versione del manuale diagnostico, ovvero la bibbia psichiatrica
Il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, noto anche con la sigla DSM derivante dall’originario titolo dell’edizione statunitense Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, è uno dei sistemi nosografici per i disturbi mentali più utilizzato da medici, psichiatri e psicologi di tutto il mondo, sia nella clinica che nella ricerca.
di Pasquale Pisseri
Nell’ultima edizione DSM appare qualche novità interessante. Anche perché dà l’occasione per ricordarne importanza e limiti.
Questo manuale, nato per fornire criteri classificatori condivisi dei fatti osservati, ha finito per imporsi – credo al di là della intenzioni stesse dei suoi creatori e successivi compilatori – poiché fornisce risposte “certe” ed “esatte” risparmiando la fatica di pensare: è impropriamente divenuto “la Bibbia”, un po’ come in passato quella kraepeliniana per il fascino esercitato da una sistematicità che aiuta ad avvicinare – con effetto rassicurante – la nostra disciplina a quelle della medicina somatica. Non si vuole certo così rifiutare uno strumento comunque utile; solo non bisognerebbe chiedergli più di quel che può dare.
Certo in questa nuova edizione si fa ampio riferimento ai collegamenti con i dati di ordine neurofisiologico, neurochimico, di neuroimaging e quant’altro, che potrebbero fornire una base più solida alle diagnosi; tuttavia credo che siamo ancora lontani dal mettere a punto una vera e propria nosografia, poichè per gran parte dei disturbi psichici siamo tuttora in fase di definizioni sindromiche fra le quali si vanno scegliendo quelle euristicamente più utili.
Questa scelta non è mai definitiva, e ciò giustifica pienamente il succedersi di edizioni diverse.
Elenco rapidamente i cambiamenti.
Una novità è la definizione come malattia dell’accumulo patologico di oggetti inutili o deteriorati. E’ in realtà un fenomeno ben noto ma finora l’orientamento era considerarlo soltanto un sintomo, che aveva anche un nome: disposofobia, dall’inglese disposal; si tendeva, con qualche esitazione, a inserirlo in ambito ossessivo – compulsivo. Ma in realtà ha una sua specificità. Ricordo un paziente che accumula oggetti di ogni tipo per arginare forti angosce persecutorie, costruendosi una sorta di autosufficienza e coartando gli scambi col mondo esterno. Se osservazioni come questa alimentano i dubbi sulla pertinenza del sintomo all’area ossessivo – compulsiva, non per questo dovrebbero necessariamente indurre a farne uno specifico disturbo o addirittura malattia: ma è chiaro che queste scelte comportano sempre un certo grado di arbitrarietà.
Il gioco d’azzardo patologico viene spostato dal capitolo “disturbi del controllo degli impulsi” a quello delle dipendenze; ciò sulla base di dati neurobiologici e sugli effetti della terapia di gruppo e della graduale disassuefazione, analoghi a quelli riscontrati per le dipendenze da sostanze. Tale spostamento ha quindi un indubbio senso operativo.
Viene introdotta una nuova categoria riguardante i minori di 18 anni: la “disregolazione distruttiva dell’umore”. La finalità sarebbe porre limiti alla diagnosi di disturbo bipolare che un po’ troppo spesso, almeno negli USA, viene applicata ai minori; ma al di là di questa buona intenzione questa nuova diagnosi finisce con lo psichiatrizzare ulteriormente problemi di tipo relazionale.
Analoga tendenza sembra informare un altro cambiamento nel campo dei disturbi dell’umore, in quanto i confini, sempre difficilmente definibili, fra depressione e lutto “normale” vengono spostati estendendo il campo della prima.
Il capitolo dei disturbi di personalità è stato sottoposto a prolungato esame critico, ma fra i membri del gruppo non si è formato un consenso su possibili cambiamenti.
Un ampio ventaglio di disturbi a inizio precoce – disturbo autistico, Asperger, disturbo disintegrativo dell’infanzia, disturbo pervasivo dello sviluppo – viene unificato in una sola categoria: disturbo dello spettro autistico.
Infine, il cambiamento più interessante: la task force ha cercato una risposta al problema complesso e ricco di implicazioni costituito dal non rarissimo riscontro, in persone sostanzialmente ben inserite e non particolarmente sofferenti, di fenomeni che abitualmente colleghiamo a una condizione psicotica, come allucinazioni e fantasie magiche (forse val la pena di ricordare personaggi addirittura di grande rilievo, come Maometto o Giovanna d’Arco). Tali riscontri mettono in discussione una volta di più il rapporto fra stati psicotici e psicologia “normale”, i loro confini, le loro interazioni. La task force ha dato la risposta categoriale che caratterizza tutto il suo lavoro: ha introdotto la “sindrome psicotica attenuata”, ma prudentemente l’ha collocata non fra i veri disturbi bensì fra le condizioni meritevoli di attenzione e di ulteriori ricerche.
Questo approccio ha chiaramente i suoi limiti: ma credo vada ribadito che da criticare non è il DSM in sè – strumento utilissimo per la ricerca epidemiologico – statistica – ma l’uso che di solito se ne fa, spinti da una illusoria promessa di sicurezza definitoria che tranquillizza il terapeuta più di quanto sia utile al paziente. Va aggiunto che a suo tempo nella task force si è svolta una discussione critica sulla scelta fra l’approccio categoriale e quello dimensionale, che come è noto non si avvale di distinte caselle classificatorie ma della valutazione quantitativa delle varie dimensioni esperienziali e comportamentali. E’ stato scelto il primo approccio forse perché di applicazione meno complessa e perché si muoveva nel solco nosografista già tracciato dalla psichiatria classica. Ma va dato atto che la scelta è avvenuta in un ambito di adeguata consapevolezza metodologica.