Vaso di Pandora

Strana storia quella della psichiatria.

Strana storia  quella della psichiatria: senz’altro è una specialità della medicina, chi scrive è un medico specialista in psichiatria,ma è anche crocevia con discipline umanistiche come la letteratura, la filosofia e la politica.Esiste anche un filone di pensiero che forse ora è poco rappresentato,ma che si definiva antipsichiatria. Non mi risulta esista ,che ne so, l’antiortopedia o l’antiginecologia.

D’altronde che organo ci proponiamo di curare? Forse il cervello (anatomico)? L’anima (letterale)? La mente (allargato)?

Quale è il nostro compito e quali sono le attese dei nostri clienti (pazienti)?

Tutti si sono confrontati con emozioni (di breve durata ed intense) e sentimenti (duraturi e profondi).

Tutti hanno superato momenti emotivamente difficili e tutti hanno avuto la loro soluzione al problema momentaneo che non necessariamente è diventato malattia.

Quindi ciascuno di noi si sente legittimato ad esprimere il proprio pensiero sul trattamento psichiatrico e a proporre soluzioni.

Fin qui tutto legittimo, ma che succede quando lo psichiatra abdica ,più o meno consapevolmente o più o meno convenientemente al proprio ruolo di specialista?

Si verificano trattamenti inadatti, indefiniti oltremodo prolungati ed una situazione di dipendenza del paziente che non trova risposte concrete, efficaci ed efficienti al proprio malessere che si cronicizza soprattutto nei casi gravi.

La storia ci insegna che le istituzioni di cura psichiatriche sono state molte volte, dannose in una sorta di inconcludente lotta frontale tra norma e follia senza che l’intimo bisogno del paziente venisse scoperto e preso in considerazione per promuovere un processo di cura ambulatoriale domiciliare o residenziale.

Ci si è accaniti e si continua  a farlo , proponendo soluzioni di intervento che vedono il paziente adattato alla teoria piuttosto che la teoria al servizio del paziente ed allora si assistono a migrazioni da uno specialista all’altro da una struttura all’altra senza un razionale. Si diventa esperti nel giustificare i fallimenti, nello spiegare gli insuccessi, nell’individuare un colpevole comunque al di fuori di noi.

La lotta ai manicomi prima ed ora a quelli giudiziari è segno di civiltà e attenzione alla dignità della persona, ma per quanto gratificante umanamente ed utile, non rappresenta da sola una cura e non individua il bisogno del singolo paziente.

La tanto discussa legge di riforma psichiatrica 180 definisce il contorno di un intervento, ma non i contenuti ; non lo poteva e non lo doveva fare.

Viene celebrata come icona ogni dieci anni: ne sono passati più di trenta. La storia insegna, previene nuovi errori, è necessario ricordare, ma non si deve essere schiavi dei ricordi anche belli e gratificanti (rapide carriere al merito di guerra).

Ed allora dobbiamo trovare un modo per intenderci in psichiatria  per confrontarci con le reali possibilità di cura e con i nostri limiti : il confine tra onnipotenza e masochismo è sempre labile. Bisogna anche dar credito alle persone che ci si rivolgono di essere in grado di esprimersi e pensare autonomamente ed anche di scegliere purché adeguatamente informati: la libera scelta del luogo di cura e del curante è fondamentale.

Così come è fondamentale che lo specialista che informa conosca bene le realtà che descrive, possibilmente le abbia praticate e si astenga da pregiudizi (ovvero giudizi dati prima di vedere e conoscere).

Rinunciare ad esibizioni narcisistiche autocentrate non è sempre facile soprattutto quando abilmente sollecitate dai mezzi di comunicazionee che tendono a prometterci di diventare un” opinion leader”.

Amo dire che tra il detto ed il fatto la discriminante è il dato.

Cosa intendo: dobbiamo essere in grado di dimostrare con i fatti testimoniati dai dati che esibiamo, il risultato del nostro essere terapeutici.

Chi voglia e debba subire un intervento chirurgico si informa sul chirurgo che lo opererà confrontando il numero di interventi con i risultati ovvero gli esiti.

Lo stesso è possibile in psichiatria sempre che si sia disciplinati ed adeguatamente organizzati.

Spesso assisto esterrefatto a descrizioni di oasi felici di psichiatria in cui il malessere non si manifesta drammaticamente, le soluzioni sono semplici e lineari e allora entro in crisi e mi chiedo come mai io faccia fatica e spesso soffra con i miei pazienti per le difficoltà di operare in situazioni di estremo malessere, ma poi quando vado a vedere i dati mi accorgo che queste realtà sono caratterizzate da una (inconsapevole?) selezione del campione che viene trattato e che si adatta a pennello alle esigenze dei terapeuti che poco si confrontano con quei casi che poi gli altri ereditano o ancor peggio da un malcelato ricorso ad una ideologia che non occupandosi del singolo preferisce discutere di modelli ideali.

Uno dei principali problemi etici dell’intervento psichiatrico è il ritardo con cui avviene. Se paragoniamo le patologie psichiatriche di ogni tipo con quelle tumorali e cardiovascolari il quadro è desolante.

Il ritardo dell’intervento, tra le altre cose, indebolisce pazienti e famiglie nella contrattualità con le agenzie di cura e ostacola l’affermazione dei diritti.

Quello dei trattamenti organizzati ed erogati intorno a una ideologia o a una “scuola di pensiero” è stato sicuramente un grave difetto della psichiatria italiana del dopo riforma. In alcuni casi si è assistito a una vera e propria deriva autoreferenziale. Il processo di aziendalizzazione poteva essere un’occasione per cambiare, ma, spesso, ha visto da parte degli psichiatri reazioni manichee (iperadattamento vs persecutorietà). Nonostante ciò si è lentamente sviluppata la consapevolezza che occorra conoscere meglio quello che si fa e che i servizi debbano rispondere a terzi delle loro scelte (rendersi conto per rendere conto).

La valutazione degli esiti dei trattamenti è, pertanto, un importante obiettivo etico e tecnico. Presenta, indubbiamente, molte difficoltà e specificità, ma va perseguito con tenacia e metodo.

Credo che abbia molta importanza, accanto alla valutazione dell’esito, anche quella del processo (nel nostro caso i trattamenti). Rispetto a questo mi sembra che la gerarchia proposta da Tansella (etica, evidenze, esperienze) mantenga tutto il suo valore.

L’eticità del trattamento deriva da un presupposto (non occorre fare uno studio clinico controllato per stabilire che gli OPG vanno chiusi).

Sul tema delle evidenze (sarebbe meglio chiamarle prove di efficacia) convivono posizioni di piatta adesione e ostilità preconcetta. Voglio solo ricordare che le preferenze del paziente e della famiglia sono una tappa fondamentale del processo di ribaltamento delle conoscenze scientifiche sulla pratica clinica quotidiana.

Per esperienze non si intende tanto l’intuito del clinico esperto, ma lo studio sistematico dei trattamenti nel mondo reale, dove i pazienti non sono gli stessi degli studi clinici controllati. Si tratta di un tipo di ricerca che può essere svolta soltanto da chi sta in “trincea”.

La comunicazione in rete ha fortunatamente migliorato la coscienza individuale permettendo una conoscenza dei fatti ed una valutazione dei dati attraverso una partecipazione diretta che rimodula le offerte in funzioni delle esigenze reali del paziente e che ridisegna finalmente un modello di intervento pubblico non più autoreferenziale e definito da livelli di potere e prepotenza, ma di servizio effettivamente svolto.

Il tal senso la legge 02 definisce bene i diritti del cittadino paziente e supera anche se ciò dopo tanti anni non è ancora diventato patrimonio di tutti(ma gli ultimi eventi di forte ribellione ci dovrebbero indirizzare)il rigido steccato tra prestazioni direttamente erogate dallo stato o erogate in regime di convenzione con soggetti privati.Infatti, il D. Lgs 502/92, ha confermato i principi costituzionali presenti nella legge istitutiva del Servizio Nazionale (L. 833/78), affermando che “la tutela della salute come diritto fondamentale dell’individuo ed interesse della collettività è garantita, nel rispetto della dignità e della libertà della persona umana…”, ed ha introdotto (art. 8 e ss.) il principio stabilendo che “I cittadini esercitino la libera scelta del luogo di cura e dei professionisti nell’ambito dei soggetti accreditati con cui siano stati definiti appositi accordi contrattuali.

Il servizio è pubblico quando è universale facilmente fruibile, sono chiari offerta ed obbiettivi e si possono verificare i risultati con la dignità del cittadino cliente.

Devono essere garantite la libera scelta del curante , del luogo di cura e la pari dignità tra soggetti erogatori

il diritto alla salute e all’autodeterminazione personale, si attua non solo prestando cure, ma soprattutto attraverso una scelta libera e consapevole del cittadino (e quindi anche la scelta del medico e del luogo), che, ai sensi dell’art. 32 Cost. può addirittura spingersi fino al rifiuto della cure, mentre l’art. 41 dice che l’iniziativa privata economica è libera, ma non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana. (elaborazione mia, nano sulle spalle dei giganti costituenti….)

Finisco riportando integralmente uno  scritto sul Sole Sanità nel 2007 si rileva attuale e indica la lentezza nell’adeguarsi a nuovi bisogni:

La politica sanitaria influenza in modo deciso l’intervento stesso e la sua qualità: questo in relazione sia agli spazi disponibili, alle tecnologie fruibili e alla possibilità che viene data al progredire delle idee.
In psichiatria ancora di più questo accade: basti pensare all’accanimento nei confronti della famosa (al di là anche dei meriti) legge 180 del 1978.
Oggi la psichiatria come la politica si trova davanti alla necessità di definirsi chiaramente nell’ambito di una scelta: rimanere ancorati a vecchi schemi con le conseguenti divisioni tra psichiatri sedicenti democratici, a indirizzo psicodinamico, che si ispirano alla psicobiologia, o progredire verso un approccio pragmatico che cali la realtà dell’intervento nel tempo in cui si svolge (non anacronistica dunque) e metta realmente il bisogno del cittadino-utente-paziente al centro dell’interesse, realizzando servizi rapidamente fruibili e valutabili (da terzi) nell’efficacia ed efficienza. Servizi pubblici nell’accezione che noi diamo a questo termine e cioè facilmente fruibili da tutti coloro che ne necessitano, realizzati dallo Stato direttamente o dai privati (imprenditoriale o sociale) per delega. Incentivare la concorrenza (nel senso del correre insieme verso mete di qualità) anziché la competizione intesa come lavoro finalizzato a dimostrare l’incapacità altrui piuttosto che la propria competenza (qualcosa che ha a che vedere con l’invidia e quindi con la distruttività).
Nell’ambito della residenzialità psichiatrica (come viene definita con un brutto termine), a esempio, mi pare necessario realizzare una fotografia dell’esistente nelle varie Regioni inserendo organicamente le comunità terapeutiche all’interno del modello organizzativo (il Dipartimento di salute mentale) dell’azienda sanitaria locale. È uno spreco di soldi pubblici ed è miope dal punto di vista manageriale, a esempio, costruire nuove residenze là dove già ne esistono solo perché le une appartengono al sistema a gestione diretta e le altre a quello “delegato”: eppure succede in Piemonte come in Lombardia, in Sicilia come nel Lazio. È quindi un problema a un tempo di onestà intellettuale, di visione allargata dei problemi e di capacità programmatorie che richiedono una notevole capacità di comunicare a vari livelli: politico-amministrativi, burocratici, tecnico-operativi.
Le norme che regolano la costruzione delle residenze psichiatriche e i parametri funzionali (il personale) paiono spesso realizzati da persone che poco conoscono della realtà operativa, per cui si arriva al paradosso che la legge che dovrebbe sancire la cornice di un intervento per renderlo il più virtuoso possibile, diventa spesso un impedimento da aggirare o da contrastare al fine di non realizzare disfunzioni. A esempio, spazi disegnati per esigenze ospedaliere piuttosto che comunitarie (corridoi di 2 metri di larghezza… e poi si afferma che la comunità dovrebbe in sé riproporre la naturalità dell’abitare in casa!) oppure parametri di personale che definiscono un’eccessiva “medicalizzazione” delle comunità.
Ancora, l’eccessiva burocratizzazione con sforzi titanici per definire modalità di intervento: a bassa, media, alta attività riabilitativa; a bassa, media, alta attività assistenziale; di tipo intensivo o estensivo, di tipo A o di tipo B; e ancora sigle più o meno comprensibili e sensate (Raa, Rab, Raf, Rsa, Caup, Ctr, Ct tipo A e B ecc.).
Sforzi encomiabili, alcuni rigorosi, ma forse si rischia di cozzare contro noi stessi e soprattutto contro la complessa e drammatica natura della malattia mentale: non sarebbe più opportuno dotarci di una legge quadro che definisca princìpi generali e quindi un “setting” entro il quale permettere la crescita e il confronto di modelli operativi anche diversi facendo della diversità un valore dialogabile?
Ritengo che tutto ciò dovrebbe consentire un progredire verso un modo di intendere l’intervento sanitario in psichiatria come moderno e quindi modificabile opportunamente secondo un modello che fa riferimento alla dinamica (capacità di adattare il modello ai bisogni) piuttosto che alla statica (necessità di far rientrare i bisogni nel modello).
Giovanni Giusto
Presidente nazionale FENASCOP

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