Dopo lo straordinario successo di “Perfetti sconosciuti”, Paolo Genovese torna sul grande schermo presentando un film ispirato all’omonimo libro “Il primo giorno della mia vita”. Nelle sale dal 26 Gennaio, il nuovo film ti entra dentro, sotto la pelle, ancor di più di “The place” e “Perfetti sconosciuti”. La pellicola è ambientata in una Roma per niente da cartolina, anzi, perennemente colpita dalla pioggia, quasi volesse lavare via il dolore dei protagonisti o forse solo per accentuare il dramma che ognuno dei personaggi vive interiormente.
“Perché vale la pena vivere?” “Ci si può salvare da soli?” “Cos’è la felicità?”, queste alcune delle domande esistenziali su cui Genovese ci invita a riflettere.
Valerio Mastandrea, Margherita Buy, Sara Serraiocco e il piccolo Gabriele Cristini sono i quattro volti che interpretano le diverse forme in cui può manifestarsi il dolore nel corso della vita. Quattro storie diverse, quattro sofferenze distinte, tutte accomunate dallo stesso desiderio: il suicidio.
La storia è un viaggio introspettivo tra drammi e speranze, tra il buio indomabile dell’anima e la nuova luce che possiamo accendere dentro di noi, tra l’abisso del vuoto interiore e la possibilità di avere una seconda possibilità di vivere il primo giorno della nostra nuova vita.
Conclude il cast d’eccezione, un fantastico Tony Servillo, nei panni dell’“Uomo”, del “Coso”: un personaggio misterioso che simboleggia a tratti un angelo, a tratti la parte più profonda dell’animo umano, quella che non viene mai a galla.
“Non ho voluto dare ricette o facili soluzioni, semmai ho mostrato che il gruppo e le relazioni sociali possono fare la differenza: insieme il dolore si divide e diventa meno insopportabile” afferma Genoveseper giustificare il finale “aperto” che si presta sicuramente a diverse letture.
I personaggi decidono di suicidarsi tutti nello stesso giorno, il loro ultimo giorno, o il primo giorno della nuova vita? Il dissidio esistenziale che vivono i protagonisti, indecisi se restare o mollare, tra le nostalgie della gioie che può offrire la vita, ai potenziali rimorsi per un futuro che potrebbe non esserci mai, è il fulcro del film; che riesce senz’altro a scavarti dentro, a emozionare e commuovere per i più svariati motivi, e mostra bene i differenti volti del male di vivere. Paolo Genovese ci regala il suo titolo più maturo, più ricco, più introspettivo e pieno di dolore, senza mai cedere alla retorica o scivolare nella banalità. Un’abilità che pochi registi possiedono.