1. Quando il razzismo divenne “scienza”
Sul Giornale d’Italia del 14-15 luglio 1938 compariva in forma anonima un Manifesto degli scienziati razzisti con il quale si intendevano fissare le caratteristiche del razzismo fascista. Dieci giorni dopo, il 25 luglio, venivano precisate le circostanze nelle quali il documento era maturato. Dieci docenti dell’Università italiana – i più noti tra essi il clinico medico dell’Università di Roma, Nicola Pende, e il professore di neuropsichiatria di Modena e presidente della Società Italiana di Psichiatria, Arturo Donaggio – erano stati convocati presso il Ministero della Cultura Popolare al fine della sua redazione.
Altrove ho visitato, come ha fatto recentemente anche l’antropologo Guido Babujanni, il Manifesto degli scienziati, per dimostrare come esso sia zeppo di affermazioni storicamentre false e di contraddizioni. Del resto, pare che gli scienziati, scelti solo perché fedeli al regime, che venivano presentati come gli autori, il manifesto non lo avessero neppure letto, e lo stesso fosse stato scritto dal solo Mussolini, forse con la consulenza del giovane antropologo Guido Landra. Gli altri firmatari avevano accettato di passare come gli autori per opportunismo.
Compreso Donaggio, il quale nell’introdurre i lavori del XXII congresso del 1940 diceva ai colleghi: «Così, chi vi parla ebbe l’onore di rappresentare la nostra Società in quel gruppo di universitari che, convocato nel luglio del 1938 in Roma, raccolse sul problema razziale il pensiero del Duce».
Tutta l’adesione di Donaggio al razzismo fascista, del resto, è giocata sul filo dell’equivoco; è fatta di esaltazione della “stirpe italica”, ma senza mai denigrare le altre.
Così, nelle sue parole certo sottoscrivere le baggianate contenute nel Manifesto è stato un onore per lui e per la SIP, ma per chi sa leggere in controluce dice anche che quelle non sono idee sue o degli altri firmatari, ma appunto del Duce.
Donaggio firmava a nome della Società Italiana di Psichiatria, unica società scientifica a firmare il documento. Fino a pochi anni fa, ci se n’era quasi del tutto dimenticati: solo qualche storico dell’ebraismo cercava di inchiodare il noto professor Pende a questa imbarazzante adesione. Quanto a Donaggio, che era morto nel 1942, era ricordato solo come uomo di scienza per le sue ricerche nel campo dell’istopatologia del sistema nervoso già in occasione del XXIII congresso SIP del 1946, senza fare riferimento a questo episodio; il suo nome fu poi ricordato con tutti gli onori sul Dizionario Biografico degli Italiani, omettendo di nuovo la questione; a Roma una strada e un largo portavano il suo nome.
Poi, pur se tardivamente, la Società Italiana di Psichiatria si è accorta che dell’onore di essere firmataria del manifesto poteva fare volentieri a meno, e ha preso pubblicamente le distanze da quella firma in occasione dell’edizione italiana della mostra “Schedati perseguitati, sterminati. Malati psichici e disabili durante il nazionalsocialismo” dei colleghi tedeschi, organizzata a Roma nel marzo 2017. E quanto alla toponomastica della capitale, il sindaco Virginia Raggi ha deciso che fosse meglio rivederla, insieme ad altre dedicate a cofirmatari del documento, e così via Donaggio è ora intitolata a Mario Carrara (1866-1937), antropologo genero di Lombroso e uno dei 12 docenti universitari che nell’autunno del 1931 si rifiutarono di prestare giuramento di fedeltà al fascismo, perdendo la cattedra e il lavoro e finendo, nel suo caso, la vita in carcere; e Largo Donaggio è intitolato a Nella Mortara (1893-1988), illustre fisica che faceva parte del celebre gruppo di via Panisperna con Enrico Fermi e fu radiata dall’Università nel 1939 per ragioni razziali, riparò in Brasile e ritornò clandestinamente a Roma nel 1941 per essere vicina alla famiglia, vivendo nascosta in un istituto religioso fino alla Liberazione.
Il tema degli ebrei, nel “Manifesto” è affrontato al punto 9, dove si sostiene che “non si sono mai assimilati”, il che è una delle tante falsità storiche che il documento contiene.
Non che gli italiani non fossero stati razzisti prima del manifesto, certo. Tutta la politica coloniale italiana è stata caratterizzata, ben prima del fascismo, da razzismo nei confronti delle popolazioni arabe e di quelle di colore, al pari di quella delle altre nazioni europee, alternando fasi di razzismo più apparentemente bonario e improntato a paternalismo, ad altre di razzismo discriminatorio e francamente feroce. Ma antisemiti gli italiani non erano e gli ebrei in Italia non avevano avuto problemi di assimilazione. Molti di essi, anzi, avevano occupato e occupavano posti importanti nel mondo della politica, dell’economia e della cultura. E persino del partito fascista: Margherita Sarfatti era tra gli intellettuali di punta del regime, era stata la prima biografa di Mussolini e pare che ne fosse stata per un periodo anche l’amante.
Tra gli psichiatri, Cesare Lombroso, che era stato il più onorato degli psichiatri italiani nel secolo precedente, era ebreo; ebreo era anche, nel momento in cui la SIP firmava il “Manifesto”, il suo vicepresidente Gustavo Modena, che a seguito delle leggi razziali avrebbe perso la vicepresidenza stessa insieme alla direzione dell’ospedale psichiatrico di Ancona; Marco Levi Bianchini, direttore dell’ospedale psichiatrico di Nocera Inferiore e direttore di una delle principali riviste del settore, era contemporaneamente appassionato aderente al sionismo e al fascismo, ma neppure questa sua fedeltà al regime fin dalla primissima ora gli valse a nulla, quando l’epurazione antisemita divenne implacabile..
2. Le leggi per la difesa della razza del 1938
Le farneticazioni del “Manifesto degli scienziati razzisti” non erano destinate a rimanere sulla carta. Piuttosto, erano destinate a mettere il vestito della scienza alle Leggi per la difesa della razza, volute dal fascismo e firmate dalla monarchia, emanate nel successivo autunno.
Prevedevano tra l’altro che la razza di appartenenza fosse indicata sui documenti e per gli ebrei, italiani o rifugiati in Italia da altri Paesi, una serie di limitazioni, le più odiose delle quali riguardavano i bambini. Tra di esse l’impossibilità di ricoprire incarichi pubblici, come l’insegnamento o il lavoro negli ospedali, il che determinò l’emigrazione di coloro che potevano verso luoghi più ospitali dove poter vivere e continuare studio e lavoro.
Fu una ferita aperta per ragioni del tutto artificiose nella comunità nazionale che ne seguiva altre – la “guerra dentro” dichiarata dal governo fascista, complice la monarchia, agli antifascisti per prima cosa – attraverso leggi emanate sulla base di un manifesto “ideologico” del quale più ancora che la ferocia evidente, offendono la superficialità, l’ignoranza, la confusione.
Nel 1997 due storicihanno ricostruito i primi elenchi non definitivi sul personale cacciato dalle università italiane, sede per sede: 96 professori ordinari espulsi e circa 140 aiuti e assistenti di vario grado, inclusi i volontari.
È una storia che, a distanza di anni, fatica ad essere ricomposta. Una delle nostre più importanti storiche della psichiatria, Patrizia Guarnieri, ha concepito per questo in occasione dell’ottantesimo anniversario dalla promulgazione delle leggi razziali nel 2018 il portale open access Intellettuali in fuga dall’Italia fascista, promosso dall’Università di Firenze, con il quale intende ricostruire l’emigrazione di studiosi e studenti ebrei che espatriarono dopo l’allontamento dalle cattedre e dalle aule scolastiche. È open access, e vale senz’altro la pena di visitarlo.
Nell’elenco, che attualmente consta di oltre 350 nomi, tra i più noti riconosciamo lo psicologo Enzo Bonaventura (1891-1948), il cui profilo informa che, incaricato dell’insegnamento di psicologia sperimentale dell’Università di Firenze e attivo nel movimento sionista, dopo aver pubblicato nel 1938 il volume La psicoanalisi con Mondadori si trovò privato del lavoro e nel 1939 fu costretto a riparare all’estero, approdando alla Hebrew University di Gerusalemme. Poi troviamo il neurofisiologo Giuseppe Levi (1872-1965), padre di Natalia Ginsburg, che presso il suo laboratorio a Torino formò tre futuri premi Nobel: Salvador Luria, Renato Dulbecco e Rita Levi-Montalcini. Firmatario del manifesto di Benedetto Croce sull’autonomia della cultura dalla politica e noto per le convinzioni antifasciste, subì una carcerazione nel 1934; dopo il 1938 riparò in Belgio da dove, a seguito dell’invasione tedesca, rientrò in Italia da clandestino. Dopo la Liberazione ebbe la soddisfazione di un pieno reintegro e si candidò nel Fronte Popolare alle elezioni del ’48. Una delle figure più note è Rita Levi Montalcini (1909-2012), che si era laureata a Torino nel 1936 e l’emanazione delle leggi razziali la colse assistente volontaria presso la Clinica delle malattie nervose e mentali, allora diretta da Ernesto Lugaro. Dispensata dal servizio, nel 1939 andò in Belgio per un breve periodo; rientrò, cercò di rifugiarsi in Svizzera ma non riuscì a passare il confine. Si fermò a Firenze sotto falso nome e tornò infine a Torino nell’estate del ’45. Due anni dopo, le venne offerta la possibilità di lavorare alle sue ricerche alla Washington University, e partì dunque per Saint Louis come “logica conseguenza” – leggiamo nel profilo – della politiche razziali, visto che in Italia a 38 anni non aveva un posto. Altro talento emigrato in relazione con la politica razziale del regime fu Silvano Arieti (1914-1981), che ebbe straordinario successo dopo che lasciò Pisa per gli Stati Uniti ed è oggetto nel portale del profilo di Roberta Passione, che gli ha dedicato nel 2020 una completa biografia pubblicata da Mimesis.
3. L’occupazione tedesca e la Shoah
Se l’antisemitismo costituì per Mussolini un approdo tardivo, lo stesso non si può dire per Hitler, ossessionato dalla questione ebraica già prima della presa del potere nel 1933. I provvedimenti contro gli ebrei furono tra i primi adottati dal nazismo e andarono appesantendosi per tutti gli anni ’30. Un altro dei primi provvedimenti adottati dal nazismo obbligava alla sterilizzazione i malati di mente e di altre categorie considerate disgeniche.
Allo scoppio della guerra Hitler emanò un “provvedimento del Fuhrer”, e quindi non un vero e proprio provvedimento legislativo ma una sorta di richiesta privata e riservata, denominata piano Aktion T4. Affidata principalmente a medici, portò allo sterminio di oltre 70.000 pazienti, meticolosamente registrati nome per nome. Bisognava risparmiare, e mantenere i disabili era un lusso, per il regime, che la Germania impegnata nello sforzo bellico non poteva permettersi.
Si trattava di un’operazione segreta, e il fatto fosse stata risaputa e avesse dato adito a proteste – la più nota delle quali furono le tre coraggiose omelie pronunciate nel duomo di Munster dal vescovo Clemens von Galen, che costituiscono a mio parere uno dei documenti più importanti della storia della psichiatria – portarono alla cessazione del programma e alla sua prosecuzione sotto altre forme, che si stima abbia portato a circa 270.000 morti complessivi.
Il metodo dello sterminio su scala industriale però intanto era stato sperimentato: camere a gas e forni crematori. Quello che era stato utilizzato per primi sui malati di mente, poteva ora essere utilizzato per la “soluzione finale” del “problema” costituito dagli ebrei residenti nel territorio del Reich che, con l’espansione di quest’ultimo verso oriente, erano aumentati considerevolmente di numero. Scartata l’ipotesi di poterli trasferire in territori distanti come l’Etiopia o il Madagascar, nel corso del 1941 il regime nazista optò per lo sterminio.
Con l’occupazione dell’Italia dopo l’8 settembre 1943, la politica tedesca di deportazione nei lager e di sterminio degli ebrei investì come è ben noto anche il nostro Paese. La ricerca degli ebrei da parte delle forze di occupazione naziste supportate in molti casi dalla polizia fascista, agevolata dalla schedatura su base razziale realizzata dal fascismo negli anni precedenti, non risparmiò gli ospedali psichiatrici, in particolare nella zona del nord est che si trovava sotto diretta amministrazione tedesca, e sono stati documentati via via negli ultimi anni casi di deportazione di malati dagli ospedali psichiatrici di Trieste, Gorizia, Venezia, Treviso.
Tra gli psichiatri ebrei italiani Giuseppe Muggia, che era stato direttore dell’ospedale psichiatrico a Sondrio, fu deportato ad Auschwitz con la moglie e la figlia, e tanto lui che la moglie furono eliminati all’arrivo.
In moltissimi casi, solo alcuni dei quali sono noti, ebrei e antifascisti trovarono provvidenziale rifugio nei reparti e negli ospedali psichiatrici grazie al coraggio e alla solidarietà del personale.
Si calcola che le persone sterminate nel complesso di campi e sottocampi della cittadina polacca di Oswiecim (Aushwitz in tedesco), che era stato inaugurato il 14 giugno 1940 e fu il più grande realizzato dal Reich, siano state oltre un milione, in maggioranza ebrei ma anche russi, polacchi, zingari, oppositori politici, prigionieri di guerra ecc.
Quando il 27 gennaio 1945 l’esercito sovietico liberò il lager di Auschwitz, lo spettacolo che i soldati dell’Armata Rossa si trovarono davanti fu agghiacciante e scioccò il mondo: mai lo sterminio di massa era stato pianificato e realizzato in modo così tecnologico, industriale, efficiente.
Per questa ragione, il 1º novembre 2005, durante la 42ª riunione plenaria, con la risoluzione 60/7 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite individuò quella data per commemorare ogni anno le vittime dell’olocausto.
E a questo ricordo spero di avere, con questa breve sintesi, contribuito.
La colpa non deve essere negata neppure giustificata
Il ricordo è una garanzia
Da domani sarò triste, da domani.
Ma oggi sarò contento,
a che serve essere tristi, a che serve?
Perché soffia un vento cattivo?
Perché dovrei dolermi oggi del domani?
Forse il domani è buono,
forse il domani è chiaro.
Forse domani splenderà ancora il sole
e non vi sarà ragione di tristezza.
Da domani sarò triste, da domani.
Ma oggi, oggi sarò contento,
e ad ogni amaro giorno dirò,
da domani, sarò triste,
Oggi no.
(Poesia ritrovata in un lager nazista – 1941)
Per non dimenticare…
Non solo in questa giornata della memoria, ma ogni giorno contro le discriminazioni di ogni tipo.
Un antisemitismo italiano esiste, anche se ha avuto aspetti meno truci che altrove: forse anche perchè, essendo stati a lungo non-nazione, siamo stati relativamente esenti da angusto nazionalismo -razzismo (il fascismo ha cercato di imporcelo, ma con limitato successo).
Non abbiamo avuto, che io sappia, gran che pogrom, ma è anche vero che abbiamo donato al mondo la parola “ghetto” (dal quartiere “getto” di Venezia).
Oggi vedo due punti critici, fonti di possibili rigurgiti razzisti: uno è la confusione, già verificatasi, fra la legittima critica ad alcuni atti dello Stato di Israele (va ricordato che, insegna Foucault, “ogni potere è criminale”) e l’attacco alla supernazionale comunità ebraica in quanto tale.
Oggi proviene da questa la perplessità sui matrimoni misti (a suo tempo follemente vietati dal Regime). Autorevoli rabbini hanno trattato il problema, dibattuti fra l’esigenza di inserirsi nella comunità nazionale e quella, concorrenziale, di mantenere la propria identità di gruppo, non certo razziale ma culturale, religiosa, di costume.
Nella prima metà del XX secolo, la schizofrenia è stata considerata una malattia esclusivamente ereditaria. Negli Stati Uniti all’inizio del ‘900 la sterilizzazione dei pazienti psichiatrici si diffuse in oltre 20 stati (Fuller Torrey e Yolken, 2010). Durante la seconda guerra mondiale i nazisti, nella loro politica eugenetica, sostenevano che sarebbe stato possibile sradicare questa malattia per eliminare le alte spese sanitarie ad essa associate e per rinforzare la razza ariana. Tra il 1939 e il 1945, l’Aktion T-4, una delle più brutali azioni criminali commesse contro pazienti psichiatrici, portò alla morte o alla sterilizzazione tra il 73% ed il 100% delle persone etichettate come schizofreniche che vivevano nella Germania del Terzo Reich.
Tradotto in termini di vite umane, tra 220.000 e 270.000 persone con diagnosi di schizofrenia furono eliminate o castrate (Fuller Torrey e Yolken, 2010). Nemmeno l’infanzia fu rispettata: si stima che tra 5.000 e 10.000 bambini con problemi psichiatrici siano stati uccisi (Friedlander, 1995). Il genocidio nazista si basava su teorie genetiche errate e, in effetti, dopo la guerra l’incidenza della schizofrenia in Germania non è cambiata.
Riferimenti bibliografici.
Friedlander H (1997). The origins of Nazi genocide: From euthanasia to the final solution. Univ of North Carolina Press.
Fuller Torrey E, Yolken RH (2010) Psychiatric Genocide: Nazi Attempts to Eradicate Schizophrenia, Schizophrenia Bulletin, Volume 36, Issue 1, January 2010, Pages 26–32, https://doi.org/10.1093/schbul/sbp097