Tragico il bilancio della riunione condominiale a Roma, nella zona di Fregene. Sono state assassinate quattro persone e come nel caso del triplice omicidio di Prati, ci troviamo di fronte alla lucida e razionale follia di chi, questa volta, spara colpi di pistola freddando, prima, tre vittime che poi son salite a quattro e ferendone molte altre, con lucida follia.
Anche per questo omicidio le cause vanno rintracciate in un pesante trauma rimasto irrisolto. L’assassino Claudio Campiti, di cinquantasette anni, aveva perso suo figlio, di soli quattordici anni, in una tragica circostanza: un fatale incidente con lo slittino sulle piste da sci di Sesto Pusteria, dieci anni fa.
L’accusa per il killer, originario di Ladispoli, è stata confermata come omicidio volontario plurimo aggravato dalla premeditazione. Sorge spontaneo chiedersi se questa ennesima tragedia poteva essere evitata.
Probabilmente sì. Il suo profilo era ormai da anni quello di un uomo evidentemente instabile mentalmente a cui era stata rifiutata, in passato, la richiesta del porto d’armi. Il fatto che abbia sottratto la pistola al poligono e sia stato trovato in possesso di molti proiettili, oltre che di sei mila euro e il suo passaporto, non lascia scampo all’ipotesi che fosse stato tutto minuziosamente architettato.
Quello che, però, resta ancora da chiarire, è come mai le forze dell’ordine non abbiano preso in considerazione le pregresse denunce, giunte più volte dagli inquilini del Consorzio Valleverde, verso un uomo che dopo la morte del figlio si era ridotto a vivere nello scantinato di un villino – sarebbe dovuto essere la residenza estiva sua e della sua famiglia – che non è mai stato terminato e che sui suoi social inneggiava a Mussolini e Hitler, paragonando il consorzio ad un’associazione di stampo mafioso, con i cui componenti era sempre in lite.
Ma soprattutto perché il killer di Fregene è rimasto solo dopo la morte figlio e non ha ricevuto il giusto aiuto e supporto psicologico che sarebbe dovuto seguire a un simile trauma? Sicuramente a pagarne lo scotto di queste minacce inascoltate sono state le vittime e i loro parenti. Ma fornire il giusto supporto psicologico a chi subisce traumi di una così grave entità, come la perdita di un figlio, dovrebbe essere un obbligo e dovere morale della nostra società.
Un bonus psicologo non è sufficiente, bisognerebbe affrontare una grossa campagna di sensibilizzazione dei cittadini anche per sfatare quei tabù purtroppo ancora legati al benessere psicologico che dovrebbe invece essere naturale tanto quanto la normale prevenzione che si fa per qualsiasi tipo di patologia.