Vaso di Pandora

Psicoterapia di gruppo e riabilitazione: la formazione di gruppo nella terapia residenziale

L’esperienza di lavoro permeata dall’insegnamento di Maestri come Ciompi, Jervis, Napolitani, Racamier, Resnik, mi ha chiarito come nel nostro lavoro, con i pazienti affetti da patologie complesse, psicosi e gravi forme dei D.C.A. soprattutto, la cura si sviluppi sempre in una dimensione intersoggettiva anche perché la vita psichica è comunque frutto – frutto a volte purtroppo anche velenoso – di un lavoro umano multidimensionale continuamente auto ed etero poietico.
Vedo allora il “gruppo” come forma espressiva naturale dell’uomo, come un luogo dove possono sorgere patologie ma anche luogo privilegiato dove analizzarle e curarle, recuperando una funzione intersoggettiva di tipo riflessivo.

D’altronde i pazienti psicotici, o comunque i pazienti che usano frequentemente nel loro funzionamento mentale meccanismi di tipo proiettivo, hanno bisogno di spazi istituzionali, logistici come i centri diurni e le comunità terapeutiche, e dialogici come l’organizzazione della cura in momenti di gruppo: penso quindi a spazi fisici e mentali che rendano più agevole e meno angoscioso – per loro e per noi – il lavorare insieme. Il gruppo permette infatti ai pazienti più gravi di realizzare, non di rado per la prima volta, un’esperienza basica di appartenenza, di condivisione, di “essere con”.

Racamier mi aveva fatto comprendere, mentre lavoravo a Besançon alla Velotte, come gradualmente fosse andato ad enfatizzare tutti i momenti di intervento di gruppo piuttosto che la relazione duale che veniva vista soprattutto come un punto d’arrivo e non iniziale; anche gli incontri individuali con i pazienti erano realizzati da una mini équipe formata solitamente da almeno due o tre operatori.

Lavorare in gruppo – mi diceva Racamier – permette di interagire su relazioni complesse e diversificate senza rischiare di rimanere pietrificati, operatori e pazienti, da “la medusa della psicosi”.

Va ricordato come i pazienti più gravi, e soprattutto quelli affetti da schizofrenia, considerati “individualmente” possano rappresentare un essere parziale perché, a causa dei meccanismi psicopatologici messi in atto, trasmettono e proiettano parti e funzioni di sé sugli altri. Il mondo intorno è anche un loro mondo interno lì proiettato: è il luogo dove essi si occultano, dove fanno parlare parti di sè attraverso gli altri, soprattutto le persone più vicine emotivamente. E’ lì, nel loro mondo intorno, che deve nascere il nostro intervento per ridare alla diversità temporo-spaziale del vivere psicotico, coordinate spaziali e temporali condivisibili.

Scrive a proposito Kaes: “nel lavoro istituzionale vi è un lavoro psichico che richiede formazione e trasformazione dei legami istituzionali”; infatti il nostro lavoro è anche quello di dare significato e forme di rappresentazione al non-detto ed agito nelle relazioni istituzionali, per evitare che questo materiale preconscio “ritorni” – come scrive anche Correale – in modo confuso nell’istituzione, mescolando livelli psichici ed altri ordini di realtà senza consapevolezza. Se noi lavoreremo bene nel ridare rappresentatività ai “blocchi” dei legami intersoggettivi, ai “giochi della follia” (individuali, gruppali ma anche istituzionali), sarà più agevole la nostra pratica del curare (sempre di concerto con un’adeguata psicofarmacoterapia).

Quindi io non posso immaginare una terapia in psichiatria che non sia espressa anche attraverso gli spazi fisici e mentali dei gruppi: gruppi di pazienti, gruppi di lavoro, gruppi di discussione, di supervisione ed intrecci di queste situazioni.

L’attenzione ai movimenti relazionali che si animano nell’istituzione tra i pazienti, i gruppi di pazienti e operatori, i gruppi degli operatori, è quindi fondamentale per muoverci nel nostro lavoro di terapia comunitaria.

Per questo la percezione gruppale dovrebbe far parte del bagaglio di ogni psichiatra e psicologo, e non soltanto di un terapeuta di gruppo, sviluppando così una sufficiente capacità nel muoversi tra le “costellazioni dei gruppi” ed agevolando la possibilità che il pensiero di gruppo offra una sorta di “supporto spaziale” ai pensieri dell’individuo.

Claudio Neri in “Gruppo” (1995) auspica la possibilità della coesistenza tra pensiero individuale e pensiero di gruppo senza paralizzanti contrapposizioni. Tuttavia l’accettazione di una prevalente dimensione intersoggettiva nel nostro lavoro non è sempre facile da accettare perché, non di rado, abbiamo scelto questa professione anche per difenderci dalla nostra sofferenza psichica, mettendo fuori e a distanza da noi il problema del suo riconoscimento.

Invece possiamo così riconoscere come il lavoro con i pazienti psicotici sia un confronto inevitabile con il nostro narcisismo professionale: questo confronto ci sottopone alle vicissitudini tra piacere e dispiacere pulsionale, tra principio di realtà e investimento narcisistico difensivo, inevitabili in una professione “dura” e difficile come la nostra.

LA PERCEZIONE GRUPPALE E IL LAVORO IN EQUIPE

Nel capitolo “Condizioni per il pensiero di gruppo” del libro “Il Gruppo”, Claudio Neri evoca, dal romanzo di Virginia Woolf “Al faro”, la persona della signora Ramsey quando invita nella casa di compagna un gruppo di persone – amici e conoscenti – per un pranzo
dove verrà conosciuto e mangiato un piatto molto importante, il “Boeuf en daube”, per il quale ella aveva lavorato con le donne di casa per ben tre giorni. Il lavoro della signora Ramsey evoca non poche delle funzioni di un responsabile di un gruppo di lavoro con questi pazienti.

Il Responsabile di un’équipe non di rado si può trovare in una situazione in cui non c’è ancora, o non c’è più, la presenza del gruppo di lavoro: le persone sono riunite in una fantomatica équipe, ma in realtà ognuna è per conto suo, niente è legato e collegato.
Un conduttore quindi, o meglio un co-pensatore, dovrebbe essere in grado di accompagnare l’équipe, e forse anche un po’ di tutelarla, lungo i percorsi dell’organizzazione dell’assistenza psichiatrica.

Egli deve essere in grado di capire quando vi è nel gruppo una prevalenza di meccanismi difensivi di tipo schizoide o paranoicale, o la presenza di assunti di base che,inevitabilmente, vengono a strutturarsi nella pratica istituzionale contrastando la dimensione del ben lavorare in gruppo.

Il problema in realtà non è tanto che questi meccanismi insorgano – direi che questo è inevitabile in un gruppo vivo che partecipa emotivamente alla terapia – quanto non essere in grado di riconoscerli: infatti, riconoscendoli insieme si può passare da una dimensione di pseudo-équipe ad una dimensione di équipe, agevolando così la dimensione di gruppo in movimento e di gruppo di lavoro.

Scrive Claudio Neri “Essere in un gruppo è così la possibilità per ogni membro di un’équipe di utilizzare la struttura poliedrica del gruppo come uno “spazio particolare” per il suo pensiero e la sua specificità professionale, camminando di pari passo con il pensiero del gruppo”.

(*) Neri scrive come nella Comunità dei Fratelli, possano esistere degli individui nella reciprocità delle relazioni; è una funzione importante questa, occorre tempo perché si possa strutturare e occorre ancora più tempo per permettere anche una dimensione
dialettica rispetto a questa fase della Comunità dei Fratelli, una dimensione in cui si possano sviluppare quelle che Bion chiama conoscenze di tipo K, di tipo insight comprensivo, in cui di nuovo emerge la dimensione individuale. Ritengo però che la dimensione della Comunità di Fratelli rappresenti una fase che non dirado abbiamo vissuto nel nostro lavoro ed è quella che permette, a mio avviso, l’introduzione di momenti di cambiamento in un’équipe che deve avere una sufficiente forza di questo tipo: importante è saperla riconoscere.

UN’ESPERIENZA DI FORMAZIONE: I DIALOGHI SULLA PSICOSI CON S. RESNIK

Si tratta di un gruppo di operatori (una decina) che si sono riuniti per alcuni anni con S.Resnik (Psicoanalista argentino noto soprattutto per la sua ricerca nel campo della psicosi) a “dialogare” delle cure possibili, degli incontri affascinanti e delle frequenti angosce e sconfitte nella terapia relazionale con pazienti così difficili.

Il “gruppo” quindi nasce finalizzato alla discussione di situazioni cliniche, soprattutto di terapia di pazienti psicotici: nel gruppo il materiale clinico è fatto oggetto di un’osservazione che permette di cogliere la storia del paziente attraverso il contatto emotivo evocato dalla narrazione.

Appare così centrale la funzione dell’evocazione: infatti la situazione clinica presentata stimola negli appartenenti al gruppo un ciclo di empatia, evocando l’esperienza dei vissuti e consentendo così un originale apprendimento affettivo.

In questa visione delle cose, attraverso il libero scambio di esperienze e di idee tra i partecipanti, è possibile cogliere le relazioni tra le varie parti del contesto-scena e fra questo e la persona che osserva, giungendo così a individuare un senso, spesso nuovo,
attraverso il pensiero collettivo.

La complessità e la difficoltà di comprensione della situazione clinica non vengono solo sistematicamente analizzate, bensì drammatizzate nel gruppo in un libero gioco di ipotesi: così di fronte all’impasse il lavoro del gruppo, tramite l’evocazione di una propria esperienza clinica, stimola nuovi riferimenti e una ripresa del tono affettivo della comunicazione.

Scrive Resnik: “E’ possibile un lavoro nel gruppo se c’è simpatia, antipatia, empatia; cioè vita, pathos, esperienza, possibilità. Se c’è indifferenza o apatia l’esperienza si blocca, si congela”.

L’esperienza con Resnik mi ha insegnato che si può capire il collega che porta la propria esperienza clinica, se immaginiamo noi stessi nella situazione in cui egli incontra il paziente; questa esperienza mi ha insegnato anche che non si può capire un paziente se non possiamo immaginare noi stessi come pazienti.

Il paziente nasce dalla confluenza di un’accurata descrizione della sua corporeità (come si veste, come cammina o si siede e dunque in quale modo vive lo spazio: pesante, leggero, etereo) e di una descrizione del suo mondo interno (quali personaggi lo abitano, chi di essi ha voce in quel momento e come questi ci parlano direttamente o attraverso il sistema delirante).

Nel gruppo si sviluppano allora un apprendimento conscio, che è maggiormente legato alla disamina della situazione clinica, e un apprendimento inconscio che è patrimonio più duraturo e riguarda l’arricchimento delle nostre condizioni mentali per poter pensare e sentire in modo nuovo.

Così nel gruppo la funzione di apprendimento non avviene attraverso un atto diretto, pedagogico, ma attraverso modalità evocative che producono una situazione analoga a quella in cui il bambino utilizza gli strumenti di apprendimento attraverso lo sviluppo della funzione creativa del gioco. Il maestro-conduttore del gruppo aiuta a giocare, evocare, immaginare giocando, immaginando egli stesso: ciò che verrà creato è il paziente immaginato, costruito tramite le fantasie, i pensieri, le associazioni di tutto il gruppo, aiutando se stessi a fare nascere questo nuovo e transitorio membro del gruppo che è il paziente immaginato.

In questa situazione è possibile sperimentare la dipendenza e tollerare, senza ferite troppo laceranti, anche il non capire tutto e sempre: le difficoltà non verranno vissute come un fallimento, ma come possibilità per rivisitare situazioni cliniche difficili con maggiore creatività.

Abituandoci a “ricercare” con il paziente, così come si ricerca col gruppo di formazione, sarà possibile liberare il nostro discorso clinico da certezze a priori e pseudoscientificoscientifiche, non di rado simmetriche con le certezze deliranti del paziente. Si sostituisce il pensiero lineare, che sembra dare certezze maggiori, con il pensiero labirintico che crea così possibilità di apprendere creando fantasie ed immagini calleidoscopiche.

Aiutare il paziente a sviluppare le proprie capacità simboliche significa allora aiutarsi vicendevolmente, nel gruppo, a “pensare la psicosi” per consentirle di essere accolta nella dimensione dialogica dell’incontro.

Il gruppo di formazione può così sostenere il terapeuta e il suo gruppo istituzionale in questo nostro lavoro difficile, fornendo loro un adeguato sostegno.

A questo proposito Resnik mi ricordava che “per poter pensare si richiedono uno spazio mentale e dell’aria, al fine di lasciar respirare le idee”. Tra maestro e allievi si crea così un sistema di reciprocità come tra paziente e psicoterapeuta, in modo tale che ognuno diventi contemporaneamente oggetto, motivo, e fonte di conoscenza.

L’idea di gruppalità, nella molteplicità prospettica, introduce così la possibilità di un arricchimento se lo spirito di gruppo si sviluppa creativamente.

La funzione di un conduttore consiste allora nell’offrire modelli che mettano in gioco nell’altro la possibilità di trovare i propri modelli e di sviluppare un proprio stile. Ancora Resnik ricorda che “lo stile si sviluppa attraverso l’esperienza se il clima di apprendimento permette il movimento, il gioco delle parti, l’espressività dell’homo ludens, costitutivo di ogni essere”.

Lo spirito di gruppo, nell’insegnamento e nell’atto di imparare attraverso l’esperienza, introduce così l’idea di uno “spazio potenziale” (Winnicott, 1953) che si svilupperà, se lo permetteranno la disponibilità ludica e quella ricreativa dell’insieme.

CONCLUSIONE

L’aspetto collettivo della cura caratterizza quindi la visione mia, e del gruppo Redancia del quale faccio parte, dell’assistenza e terapia comunitaria perché la realtà psichica di un malato psicotico (o con nuclei psicotici significativi) è più facilmente percepibile e conoscibile attraverso il lavoro di un gruppo curante.

Il carattere collettivo della cura non investe poi solo questo o quel malato in particolare ma gruppi di malati: ciascuno di questi gruppi sviluppa una forma di Io collettivo che sarà peculiare oggetto della nostra assistenza. Ne consegue che la nostra assistenza migliorerà nella misura in cui verrà tutelato e rafforzato l’Io curante, sia individuale che collettivo, e peggiorerà per qualsiasi indebolimento dello stesso (P.C. Racamier,1970).

Quando l’Io curante è sufficientemente curato e tutelato, l’équipe si dimostrerà un po’ più capace di sentire, sia come sta il malato, sia ciò che egli è capace di fare o diventare.

Quando tra curanti e curati nasce in modo condiviso una nuova narrazione (a volte addirittura come l’evocazione del genio della lampada di Aladino), allora è veramente cosa “piacevole” e il lavoro diviene più gradito ed è possibile con i nostri pazienti costruire
oggetti di “buona fattura” con sufficiente curiosità e piacere nel farlo: sono le nostre terapie riuscite.

BIBLIOGRAFIA

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Correale A.:L’ipertrofia della memoria come forma delle patologie istituzionali. In sofferenza e psicopatologia dei legami istituzionali.Ed.Borla, Roma 1998.
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Resnik S.: Dialoghi sulla psicosi. Torino. Bollati Boringhieri 1989.
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Winnicott D.: Oggetti transizionali e fenomeni transizionali (1953), in: Gioco e Realtà, Roma, Armando, 1974, 23-70.

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