Vaso di Pandora

Di cosa parliamo veramente quando ci confrontiamo con la cultura dell’urgenza?

Il termine cultura dell’urgenza è abbastanza recente. Si lega all’uso smodato e pressoché ininterrotto che facciamo dei social e di internet. In seguito alla diffusione di queste tecnologie abbiamo iniziato a provare un bisogno pervasivo di restare costantemente connessi e sempre reattivi. Sociologi e psicologi hanno dato a questo atteggiamento il nome di cultura dell’urgenza. Si tratta di un comportamento che si lega all’altro problema del nostro tempo, la paura di restare fuori e perdersi quanto stia avvenendo nel mondo, la cosiddetta fear of missing out, o FOMO. Di primo acchito, questa infatuazione con le piattaforme sociali potrebbe sembrare del tutto normale. Abbiamo una nuova possibilità, offertaci dalla tecnologia, e vogliamo sfruttarla intensamente. Poco male. In realtà, però, la cultura dell’urgenza causa un aumento dei livelli di stress, una riduzione della produttività, una compromissione del benessere mentale e una lunga serie di comportamenti sconsiderati.

Impatti della cultura dell’urgenza sulla vita quotidiana

Cultura dell'urganza; una ragazza seduta scrolla il suo telefono
La cultura dell’urgenza è legata all’uso continuo che facciamo di social e internet

In un mondo sempre più veloce e iperconnesso, che premia l’immediatezza, la cultura dell’urgenza sfuma il confine tra quel che è importante e quanto non lo è. Essa impatta su numerosi ambiti della nostra vita quotidiana: sul lavoro potrebbe comportare l’accettazione e gestione di frequente richieste dell’ultimo minuto, o addirittura fuori orario. Non di rado leggiamo articoli o sentiamo persone che vengono contattate nel tempo libero, per vedersi assegnare un impegnativo lavoro a scadenza vicina con la solita motivazione: è urgente. Nella vita personale, invece, le manifestazioni della cultura dell’urgenza includono il prolungamento eccessivo di determinate relazioni, il controllo frequente degli aggiornamenti dei social media, causata da un’irrazionale paura di perdersi qualcosa, e la risposta immediata a chiamate e messaggi, anche quando non sarebbe il caso.

La fretta costante e l’aspettativa tacita, ma fino a un certo punto, di essere sempre attivi a livello professionale e personale possono creare uno stato di massima allerta. Questo stato di ipervigilanza aumenta in modo significativo lo stress e l’ansia. Ne è convinto lo psicologo clinico di Los Angeles, Joel Frank. Secondo il rapporto Stress in America 2023, rilasciato dall’American Psychological Association (APA), quasi un quarto degli adulti riferisce di provare alti livelli di stress dopo la pandemia. Si tratta di un aumento considerevole, pari al 19%, rispetto al 2019. I giovani adulti sono i più colpiti, con circa la metà della generazione Z e più di un terzo dei millennial che riferiscono di sentirsi ansiosi, o stressati, per la maggior parte del loro tempo, quando non proprio per tutto.

La situazione italiana

In Italia, una ricerca dell’Osservatorio sanità di Unisalute riporta che il 29% delle persone intervistate si sente stressato spesso e il 9% regolarmente, quasi ogni giorno. Tra le persone ad accusare di più questa condizione ci sono le donne (43%) e gli under 30 (47%). Ansia, stress e cultura dell’urgenza sono profondamente legate secondo Frank, convinto che questi elementi siano tutti parte di un ciclo autorafforzante, all’interno del quale si alimentano l’uno con l’altro. Lo psicologo potrebbe aver ragione. Sono infatti davvero numerose le volte in cui vediamo questi elementi agire in concomitanza. A quanto pare, siamo riusciti a trasformare un’innovazione tecnologica capace di migliorarci la vita, perché agevola tantissime operazioni quotidiane, in una nuova sorgente di stress. Come se non ne avessimo già abbastanza.

Gli effetti dell’iperconnessione

Vivere nella cultura dell’iperconnessione richiede spesso di sapersi dedicare al multitasking. Tuttavia, studi e ricerche dimostrano che il cervello umano non possiede l’architettura neurocognitiva per svolgere due o più compiti contemporaneamente. Di conseguenza, ogni volta che svolgiamo più compiti simultaneamente, rallentiamo il cervello, e possiamo diminuire la sua produttività fino al 40%. Fare multitasking significa aumentare di molto le possibilità di distrazione ed essere attratti da altro, estraneo a quello su cui dovrebbe ricadere il nostro focus. Quando si fanno più cose assieme, è difficilissimo riuscire a concentrarsi a dovere su una. La costante sovrastimolazione, che contribuisce in modo significativo alla cultura dell’urgenza, desensibilizza il sistema della dopamina. In breve, più si è sovrastimolati, meno gioia si prova.

Cultura dell’urgenza e superficialità

Quando il cervello è sopraffatto dalla costante necessità di elaborare informazioni, e prendere decisioni rapidamente, spesso ricorre a un pensiero superficiale. Questo compromette la capacità di impegnarsi in un lavoro approfondito. Dedicarsi in questa maniera richiede lunghi periodi di concentrazione, senza distrazioni, e la cultura dell’urgenza produce esattamente il contrario. Affrontare la vita in questa maniera è dannoso anche per la salute fisica. Se il corpo vive in uno stato di allerta indotto e fasullo, sarà portato a reagire come se si trovasse in una perenne emergenza. In questo stato il respiro è più veloce, la frequenza cardiaca e la pressione sanguigna aumentano, la capacità di regolare le emozioni si perde e si vive in una continua fase di combatti o fuggi, la reazione neurale che si attiva quando percepiamo una minaccia seria alla nostra incolumità.

Una risposta iperattiva del tipo fight or flight, combatti o fuggi, contribuisce all’ipertensione, alla privazione del sonno, al colesterolo alto e ai disturbi infiammatori. Le ramificazioni della cultura dell’urgenza sono svariate, e tutte piuttosto nocive.

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