Il cosiddetto neuromarketing, crasi delle parole neurologia e marketing, studia la risposta emotiva. I suoi soggetti privilegiati sono spot pubblicitari, promozioni o brand, ma esiste anche un neuromarketing politico. La sua ricerca analizza a fondo le immagini proiettate dal cervello in reazione all’esposizione a determinati stimoli e lo fa utilizzando tecniche sofisticate, come la risonanza magnetica. Un corretto utilizzo di questa disciplina può portare risultati che valgono oro, perché permette a chi fornisce i prodotti di capire che cosa desideri la sua clientela o, comunque, le persone nel suo target. Il neuromarketing ha limiti etici, naturalmente, ma è assimilabile a una ricerca di mercato particolarmente avanzata, se restiamo nell’ambito commerciale. Quando però ci spostiamo a quello politico, molto cambia.
Comprendere il neuromarketing
Il neuromarketing è un potente strumento, a disposizione dei marketer e delle aziende, poiché permette loro di entrare nella mente dei consumatori. Questo al fine di scoprire quali emozioni guidino le scelte d’acquisto. Per definizione, il neuromarketing può anche essere considerato come un luogo dove le neuroscienze, i cui elementi privilegiati di studio sono i meccanismi di funzionamento del nostro cervello, incontrano il marketing. Ormai da diversi anni, questo modo di interpretare il marketing viene utilizzato dai brand. Tutti infatti desiderano cercare di aumentare l’effetto della pubblicità, creare prodotti di successo e costruire i brand del futuro. In quanto arte della persuasione per antonomasia, il marketing è sempre stato legato alle scienze che si occupano di meccanismi mentali, quali psicologia e neurologia.
Il neuromarketing trova principale applicazione nei campi legati alla comunicazione. Pensiamo al branding e alla sua necessità di imprimere un concetto nel cervello dei consumatori. Al packaging che deve indurre all’acquisto. O alla pubblicità, la quale deve trasmettere realmente ciò che il marchio propone. Il neuromarketing trova però oggi applicazione anche in settori diversi da quelli più strettamente inerenti alla comunicazione. Principi di neuromarketing stanno alla base della creazione di un sito web, per migliorarne usabilità e user experience. Si utilizzano nello studio degli spazi dedicati al lavoro, al fine di migliorare le performance di chi quegli spazi li vive quotidianamente. Si mettono in pratica nei luoghi di intrattenimento, con lo scopo di lasciare un più forte segno emotivo nei musei o in giochi e attività che sfruttino la realtà aumentata. Sono all’ordine del giorno nella politica, quando serve capire come rendere un candidato più avvicinabile.
Il neuromarketing politico
La comunicazione politica, le decisioni e i comportamenti degli elettori non sono tematiche inesplorate per le neuroscienze. L’avanzamento delle scoperte e il potenziamento degli strumenti di testing aprono nuove e interessanti prospettive. Vi sono svariate ricerche e teorie, tutte fondate su un presupposto neuroscientifico, in merito al neuromarketing politico. Quella cui ci si riferisce più spesso, data la sua impostazione figlia della classica applicazione delle neuroscienze al marketing, è quella del modello dell’elettore razionalizzante, proposto da Milton Lodge e Charles Taber nel 2007. Nella loro analisi, i due autori hanno proposto uno schema che spieghi le credenze e opinioni politiche degli elettori a due differenti processi: uno automatico e involontario e il secondo cosciente e volontario. Il processo non volontario si collega alla risposta affettiva, che viene prima di quella cognitiva, mentre l’attivazione automatica avviene anche quando l’elettore non è cosciente dell’innesco.
La non consapevolezza del processo automatico porta l’elettore a credere che le sue scelte siano razionali e volute. Non è però così. In realtà, le decisioni e le opinioni politiche sarebbero guidate da meccanismi non consci, di cui peraltro l’elettore non è consapevole. Una conseguenza di questo assunto è che le opinioni espresse dall’elettore nei vari sondaggi, interventi ed interviste sono poco affidabili. Di fatto, si tratta più di razionalizzazioni che di reali spiegazioni. In conclusione, non siamo consapevoli del perché si sia formata una certa impressione, o emozione, associata a un partito o a un candidato. Possiamo però crearci delle narrazioni che razionalizzano a posteriori comportamenti e decisioni. Le scelte si compiono cercando di ottimizzare l’emozione di felicità. Votiamo chi, a pelle, ci farà più felici. Il neuromarketing politico è in grado di dirci come un candidato possa far percepire che ci renderà più felici.
Condizionamenti inconsci e neuromarketing politico
Non sottovalutiamo l’effetto del contagio affettivo. I suggerimenti provenienti dall’ambiente, come, ad esempio, i sorrisi dei canditati, incoraggiano risposte positive o negative. Secondo il neuromarketing politico, il biglietto da visita del candidato è importantissimo. Diciamo pure fondamentale. Le implicazioni del modello dell’elettore razionalizzante sono evidenti per chi si occupi di comunicazione. E altrettanto per chi sia impegnato in politica. Non a caso, da sempre, i politici, nelle loro campagne elettorali, fanno leva su aspetti irrazionali. Anche se oggi parliamo di neuromarketing politico, termine piuttosto recente, non vi è infatti nulla di nuovo. Già Macchiavelli, nel suo Principe, scriveva:
“A uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e l’uomo”.
Il modello dell’elettore razionalizzante non dice granché di nuovo. Si limita ad aggiungere il sigillo della scienza moderna, che 500 anni fa non esisteva di certo, a quel che da sempre i pratici sanno e fanno. L’impatto della teoria di Lodge e Taber è importante, perché ufficializza in qualche modo questo sottobosco. Sfortunatamente, non ci dice come possiamo tenercene fuori. Un limite del modello è forse proprio questo. Al giorno d’oggi, grazie ai mezzi che possiamo sfruttare, le diagnosi abbondano. Non si può però affermare altrettanto riguardo alla terapia.
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