di A.M. Ferro e G. Rodriguez
Perché associare i D.C.A, soprattutto l’Anoressia Nervosa restrittiva grave, ed il decadimento cognitivo negli anziani, soprattutto la Demenza ?
Da un lato osserviamo una drammatica “eclissi” del corpo, dell’affettività, della dimensione relazionale condivisa, soprattutto con i famigliari,vediamo comparire talvolta forti tratti autistici mentre sembra che questi pazienti cerchino di fermare il tempo in una dimensione spazio-temporale “bloccata” dove il corpo, appunto, è negato , alienato tanto da divenire “Altro da sè”.
Dall’altro osserviamo ” l’ eclisse ” della mente, del pensare, mentre l’affettività diviene via, via più caotica, confusa e il paziente si va negando, anche qui, ad una dimensione relazionale condivisa; più o meno tumultuosamente viene a scemare quella dimensione relazionale iscritta in un flusso di passato, presente e futuro condivisibili, soprattutto con i famigliari. I famigliari rischiano di assumere per questi pazienti, queste persone così sofferenti, forme e riconoscimenti “altri” da quelli che potevano avere caratterizzato, magari per molti anni, reciproci riconoscimenti, relazioni, esperienze affettive.
Per i famigliari di pazienti dementi sembrano esservi alcune caratteristiche comuni, un “sentire comune “, che trova radici nelle caratteristiche stesse del disturbo e su come sono e siamo portati a rappresentarcelo.
La regressione è segno e sintomo costante che modificherà inevitabilmente, e per le demenze per sempre, i ruoli che i soggetti avevano “prima” nelle consuetudini relazionali. Per i DCA questo cambiamento, talvolta lungo, molto lungo, si pone come transitorio ma anch’esso modificherà sostanzialmente, e noi crediamo per sempre, le consuetudini relazionali:in questo caso spesso il cambiamento sarà portatore di vite migliori, e non solo per le pazienti.
Nei DCA transitoriamente -si spera-, nelle demenze finché il paziente vivrà, le famiglie si trovano a dover farsi carico di una domanda di CURA e di ASSISTENZA che il congiunto ammalato non pone per sé stesso.
Le anoressiche perché negano il loro soffrire proiettandolo fuori di sé, i dementi perché perdono la possibilità neuro psicologica di riconoscerlo.
Le famiglie sono quindi, in tutte e due queste situazioni psicopatologiche, lo scenario primo dove si vanno sviluppando queste tragiche narrazioni a partire dalle storie pregresse… buone… non buone… affettuose .. fredde.. empatiche o distanzianti..comunque del tutto altre rispetto alla drammaticità di quelle attuali.
Soprattutto per quanto riguarda le malattie degenerative cerebrali, la famiglia ha, volente o nolente, un ruolo centrale nell’assistenza ma, non di rado, si confronta con l’abbandono o il disimpegno o, quando esse funzionano bene, con le difficoltà economiche ed organizzative delle istituzioni .
In queste patologie il “volontariato diffuso”, ben più che nei DCA, è presente ma impotente per quanto attiene i sostegni economici (un’assistenza completa ivi compresa la notte costa circa 40-50 mila euro all’anno).
Qui noi ci soffermiamo sul “costo” psicofisico per chi, come famigliare e/o caregiver, è ingaggiato in relazioni d’aiuto così faticose e dolenti, appunto sia sul piano sociale, economico, che fisico e psichico.
Nasce così una profonda rabbia, talvolta un vero odio, per quello che il malato costringe a sopportare : costringe a confrontarsi, ahimè, con l’impotenza, con l’isolamento, con un futuro che i famigliari non riescono più a vedere positivamente… mentre subentrano rabbia… disperazione, anche perché si sentono inadeguati senza buone risposte a tanta sofferenza.
I famigliari si sentono via, via “spaesati”, smarriti, non di rado impotenti : in realtà l’altro, il congiunto, più o meno amato, che era stato nel tempo “memorizzato” dentro di sé, conosciuto dal punto di vista cognitivo ed affettivo , ora è come non ci fosse più .
Non c’è più il figliolo, non c’è più il padre, la madre, il coniuge che per anni si sono conosciuti, non ci sono più : c’è un altro, con il quale ogni percorso relazionale, ogni relazione d’aiuto, divengono sempre più difficili e sempre più pesanti e/o dolorosi . L’Anoressica/o, il demente non si danno più nelle relazioni parentali secondo quei modi -ottimi, buoni o meno buoni fino a pessimi- che sono comunque conosciuti e che si sono strutturati nel tempo attraverso i “giochi relazionali ” di quel particolare sistema famigliare .
Una risposta iniziale, umanamente comprensibile ma non utile, è la negazione di fronte ad un futuro che si percepisce catastrofico, una difesa per cercare di tutelare il proprio equilibrio, per evitare di confrontarsi con inevitabili, dolorosi, cambiamenti, legati ad un lavoro pratico, cognitivo ed emotivo di una lunga ristrutturazione di se stessi .
Ecco allora la ricerca iniziale di una risposta “salvifica” e miracolosa……il luminare, il centro più famoso, la medicina che non c’è . È interessante ricordare come nè per l’ anoressia restrittiva grave nè per le demenze esistano, per ora, medicine efficaci, ma solo medicine che possono agire invece come blandi aiuti per le patologie correlate, ma non per il disturbo di fondo.
In questa fase, con un atteggiamento che noi chiameremo “morale”, si chiede al congiunto di tornare ad essere quello che era una volta, di essere consapevole, giudizioso, di usare la volontà, di non “fare sciocchezze”.
Quando finalmente si comprende che non è più o non è mai stato un problema legato alla volontà, al libero arbitrio, allora sorge il sentimento della colpa…” Avremmo dovuto essere diversi, educare in altro modo- questo vale per i famigliari di pazienti anoressiche/ci-
Avremmo dovuto stare di più con loro in passato, avremmo dovuto comprenderli, amarli di più ..avremmo dovuto, avemmo dovuto ….non dovevamo ricoverarli, non eravamo presenti quando sono mancati…perché non c’eravamo? questo vale soprattutto per i famigliari di pazienti dementi.
Rabbia, frustrazione, inevitabili errori di gestione soprattutto se sono stati soli nell’affrontare queste catastrofiche emergenze, intolleranza per questi famigliari così resistenti ad ogni sperato cambiamento, portano alla nascita del sentimento di colpa…
“Io ho sbagliato e tu, con il tuo stato, me lo ricordi continuamente… sono rabbioso anche con te, non ti sopporto”.. è così più essi precipitano in sentimenti di colpa inutili e paralizzanti, che li fanno sentire impotenti, e più, inconsapevolmente il più delle volte, diventano rabbiosi.
Va ricordato come “l’eclissi dell’altro” sia peraltro agli occhi, al pensiero, agli affetti di questi pazienti, anche” l’ eclissi dei famigliari”…sia per le giovani gravi anoressiche restrittive che per questi anziani, vecchi che vanno perdendo la coscienza ed il sentimento di sé.
I famigliari si confrontano quindi, con il dolore, lo smarrimento, il senso ingravescente di impotenza che quasi sempre diviene “colpevole”, si confrontano anche, ancor più quando vogliono bene, con il dolore disperante di non percepire più di essere amati, riconosciuti con amore, con affetto.
Rabbia allora, smarrimento, sentimenti di colpa, di estraniazione, fantasie anche terribili legate al desiderio, più o meno inconscio, che l’altro, il malato che diviene così poco “gustoso”, non sia più… se ha da essere così !
C ‘è un lutto grande, difficile da elaborare, perché un mondo consolidato, magari anche buono …(anche se non sempre sappiamo se sia stato così), sfuma, si impoverisce fino a scomparire drammaticamente.
Ma allora proprio da tanta disperazione può nascere la comprensione, comprensione che le azioni del malato non sono capriccio, volontà avversa, ma una malattia, per le demenze iniziata molto prima e prevedibile solo a posteriori, per le ragazze anche iniziata molto prima ed altrettanto imprevedibile ai loro occhi. Noi, a posteriori possiamo vedere le possibilità di prevedibilità, ma noi siamo esterni e non siamo stati coinvolti emotivamente come lo sono stati loro, i famigliari.
Su questi forti stati d’animo, su questi “lutti” si lavora, si dialoga così nei nostri incontri dove cerchiamo di accompagnare questi famigliari nell'”elaborazione del lutto”, elaborazione sempre necessaria per continuare comunque a vivere, per potere trovare, provare, ancora soluzioni, aiuti che non si intravedono più .Il nostro aiuto consiste anche nello sperimentare insieme una dimensione di solidarietà, una dimensione reciprocamente empatica che aiuti quindi a tornare al mondo delle relazioni.
Possiamo noi aiutare allora ad elaborare, ed a trovare il tempo per farlo, il “lutto” della perdita dei loro mondi precedenti, dei loro cari così come li portavamo dentro di loro.
Possiamo aiutarli a chiedere aiuto, senza sentirsi impotenti o colpevoli per questo, chiedere al medico di famiglia, all’Ass.sociale, allo specialista, al volontariato, a chiunque se può un po’ aiutarli.. ecco allora i sevizi, non di rado piuttosto buoni e disponibili se interpellati.
Parlare con persone che hanno problemi simili, chiedere finalmente aiuto, confrontarsi con altre persone che stanno vivendo situazioni simili .
Così la malattia può non essere il solo riferimento, il centro della vita e si può ricominciare a pensare un futuro e, addirittura a progettarlo, non più così soli.
La guarigione per le gravi anoressiche, La morte per i pazienti dementi, pongono fine all’angoscia, ad un periodo di incredibili sforzi e fatiche … soprattutto emotive… ed ora?
Per i famigliari delle anoressiche la gioia, la fine della disperazione, il ritorno di una vita migliore -noi pensiamo- la soddisfazione di “avere compiuto l’impresa” ma anche talvolta un grande vuoto, il non rendersi conto di come possa essere successo proprio a loro, il dovere affrontare cambiamenti ormai inevitabili.
Per i famigliari dei “dementi” un senso di liberazione che può essere sentito colpevole, una nostalgia fortissima che può inquinarsi con i rimorsi, ed infine anche qui un grande vuoto : così può tornare la disperazione nell’incapacità a traguardare il futuro.
Per l’accettazione di questa rottura con il passato si potrà, ad es., cercare conforto nel confronto con altri che questa esperienza hanno già vissuto ed infine accettata. Si potrà pensare addirittura un impegno verso chi soffre, che permetterà di scoprire quanto la malattia di un congiunto ci abbia reso diversi, non di rado addirittura migliori, più tolleranti prima di tutto con noi stessi.
Le narrazioni, i frammenti di narrazioni, che vi proponiamo raccontano di questo.
La tecnica utilizzata nella conduzione dei gruppi dei famigliari è -vedrete- simile nei due tipi di sottogruppi ed afferisce alla percezione gruppoanalitica .
Noi impariamo oggi giorno molto dai nostri pazienti e dai loro famigliari e, anche questo, può renderci migliori, non solo come terapeuti ma come persone.