La Comunità Terapeutica, tra il pensare ed il fare
Come ogni prassi umana, la psichiatria sente la necessità di principi ordinatori organizzati ln una teoria; esistono teorie che fin dall’inizio si pongono come il fondamento di una prassi, e altre che cercano di chiarirlo a posteriori, come nel tipico caso della terapia psicofarmacologica, dapprima introdotta su basi empiriche e attualmente impegnata nella elaborazione di una teoria esplicativa.
Ormai da tempo si è abbandonata l’ingenua pretesa di trovare una teoria egemone e totipotente, capace di spiegare tutto e di fornire indiscussi e indiscutibili orientamenti alla prassi; è accettata la legittimità di posizioni teoriche diverse, costituenti differenti approcci ad una realtà unica ma poliedrica.
Ma ciò non esenta da un’esigenza di chiarezza: ogni terapeuta psichiatrico dovrebbe sentire la necessità di chiarire a sé stesso, e all’occasione ad altri, su quali basi teoriche si sta muovendo e in quale misura eventualmente l’apprendere dall’esperienza lo porta a mettere in discussione la teoria.
Questo non significa che sia illegittimo cercare integrazioni fra diversi approcci: è avvenuto ed avviene sul piano teorico, come per gli incontri dell’approccio psicoanalitico con quello fenomenologico – esistenziale con quello cognitivistico, con quello sistemico, con quello biologico; e non è illegittimo per il terapeuta adottare visuali provenienti da orientamenti diversi che si rivelino volta in volta efficaci a comprendere ciò che accade, purché gli sia chiaro ciò che sta facendo e il suo rapporto con la teoria o le teorie.
La prassi psichiatrica si muove oggi più che mai su un doppio binario: ma si tratta di binari che, a differenza di quelli del treno, non sempre corrono a tratti paralleli e anzi a volte si intersecano. Infatti, la ricerca di base e in parte anche la verifica del funzionamento dei farmaci corrono necessariamente sul binario del rapporto soggetto-oggetto che è fondamento del discorso scientifico classico; nel rapporto di cura invece è fondamentale la dimensione intersoggettiva che però si intreccia con operazioni oggettivanti intese a identificare il target dell’intervento farmacologico e i suoi effetti, ma sempre senza dimenticare che questi sono anche funzione del rapporto.
Particolarmente impegnativo si rivela il compito per chi opera in Comunità Terapeutica. Questo modello infatti è soggetto ad un incessante lavoro di ridefinizione che consenta di allargare le indicazioni, piuttosto ristrette, del classico modello delle origini senza perderne l’anima, cioè quello che essenzialmente e irrinunciabilmente la caratterizza.
Questa esigenza si avverte molto nel nostro paese dove l’abolizione degli Ospedali Psichiatrici impone un particolare e stimolante contesto operativo.
Il background teorico di questo lavoro è molto complesso ed articolato, poiché non può ignorare i contributi provenienti da scuole e indirizzi diversi. Questa molteplicità, se non è oggetto di regolare revisione e riflessione, può anche comportare un rischio di confusione: ma forse maggiore sarebbe il rischio di staticità insito nell’irrigidirsi in schemi teorici prefissati cui adattare i dati di realtà, ciò che potrebbe far perdere di vista la necessità di una comprensione non conclusiva e definitoria, ma aperta e insatura.
E’ evidente, nel lavoro di comunità terapeutica, la funzione ispiratrice della psicoanalisi, soprattutto se si considera che essa ha informato la nascita stessa delle prime Comunità, create da autori di formazione schiettamente psicoanalitica. Ovviamente, sappiamo che l’applicazione di una terapia psicoanalitica classica all’interno di un ambiente comunitario, pur non impossibile, costituisce l’eccezione; e comunque non avrebbe a che fare con lo specifico della Comunità Terapeutica poiché quest’ultima ne costituirebbe solo un generico supporto.
Rimane tuttavia fondamentale la percezione psicoanalitica di ciò che accade al paziente e a noi terapeuti nella relazione che ci unisce. Tale percezione rimane in linea di massima patrimonio del terapeuta, da utilizzare nei giusti tempi e modi. Il problema del timing in questo senso non è diverso da quello che si pone in una classica terapia duale; ciò che distingue il lavoro con psicotici gravi in comunità terapeutica è piuttosto la poca utilità di una verbalizzazione offerta a pazienti così poco attrezzati a muoversi nella dimensione simbolica e a superare quella concreta.
Resta quindi aperto il problema di come utilizzare la comprensione acquisita nell’ambito del rapporto. Racamier aveva cercato di superare l’empasse col suo concetto di “azioni parlanti”, azioni del terapeuta che fornivano comunque un messaggio interpretativo; se ne può trovare un lontano ascendente nella proposta intuitiva di realizzazione simbolica della Sechehaye.
La percezione psicoanalitica è comunque fondamentale non solo per dare un senso a vissuti e comportamenti del paziente, ma anche per aumentare l’insight del terapeuta riducendo il rischio di acting iatrogeni.
Del patrimonio culturale del terapeuta di comunità fa parte anche l’orientamento fenomenologico-esistenziale. Sappiamo come questo, a differenza di quello psicoanalitico, non sia nato nell’ambito di una prassi terapeutica e non abbia dato vita a specifiche tecniche d’intervento: il suo ruolo è comunque centrale nell’offrire una chiave per la comprensione del vissuto psicopatologico in un rapporto conoscitivo non da soggetto (lo psichiatra) a oggetto (il paziente), ma da soggetto a soggetto, nell’ambito di un decisivo ruolo dell’empatia. Esso aiuta a scongiurare quelle derive scientistico – oggettivanti dal cui rischio la stessa psicoanalisi non è sempre stata esente con il rischio di un immobilismo operativo determinato da una visione statica e non evolutiva, non consapevolmente situata nel divenire storico-sociale.
La dimensione dell’intersoggettività acquista grande rilievo nella Comunità Terapeutica, che per definizione è globalmente terapeutica o non è, e dove il terapeuta condivide ampiamente con il paziente spazi e tempi della quotidianità anche al di fuori delle ore dedicate all’eventuale psicoterapia sistematica. Diviene più che mai evidente, in questo contesto, che il terapeuta è una persona fatta di carne e sangue, con i suoi bisogni e anche con le sue debolezze. Questa forte atipia del setting costituisce certo una complicazione tecnica qualora si voglia attuare una psicoterapia sistematica individuale, però aiuta a mantenersi in una dimensione intersoggettiva, nell’ambito di un’interazione diversa da quella che si verifica in un rapporto psicoterapico duale o anche di gruppo. Quindi nel nostro contesto anche quando si applica una psicoterapia sistematica è giocoforza smettere di concepirla come intervento tecnico isolato, considerandola invece come uno degli elementi utili ad una ricerca e costruzione di senso nella relazione fra paziente e terapeuti.
Il trattamento di Comunità Terapeutica si propone, è evidente, un cambiamento. Questo, di fatto, si verifica in un discreto numero di casi, come mostra la mia personale esperienza. Nel gruppo di Comunità che coordino, il turn over inteso come rapporto fra dimissioni e posti disponibili- sempre tutti occupati- si aggira intorno al40%; al follow up ad un anno risulta che il 68% dei dimessi è in condizioni cliniche stabilizzate o migliorate rispetto al momento della dimissione; che il 26 % ha una collocazione extraistituzionale; che l’’8% lavora, mentre il 13% ha un credibile e concreto progetto di lavoro. Al follow up a due anni la percentuale di dimessi impegnati in un lavoro sale al 12%, segno a posteriori della concretezza di parte almeno dei progetti, mentre gli altri indici rimangono stabili.
Il valore di questi dati va valutato considerando che ora i pazienti mentali affluiscono alla Comunità Terapeutica come ultima risorsa, in condizioni cliniche e socioambientali tanto compromesse da rendere al momento insostenibile una forma di vita autonoma; questo incoraggia a sostenere che in una percentuale di casi non maggioritaria ma neanche piccola, e sostanzialmente indipendente dalla diagnosi, la Comunità Terapeutica ha un effetto mutativo.
Ciò suona ulteriore conferma alle attuali concezioni in materia di schizofrenia: disturbo che, malgrado il crescere del numero di gravi disturbi di personalità, caratterizza ancora di gran lunga la maggior parte degli ospiti di Comunità. Infatti, non solo il decorso del disturbo è assai meno inesorabile di quanto un tempo si ritenesse, ma non costituisce la manifestazione di una sua storia naturale iscritta una volta per tutte: è invece funzione, oltre che di fattori costituzionali e genetici, anche dei life events e del tipo di risposta ambientale. Ciò è implicito nel concetto di vulnerabilità, poiché è evidente che un “vulnus” è un evento con forti caratteri di aleatorietà e accidentalità, che può verificarsi o meno e con effetti a sua volta variabili a seconda del momento e delle condizioni del terreno su cui agisce.
Questa visione del disturbo mentale si inserisce in quella più aggiornata e realistica concezione della realtà che è l’ottica della complessità, e ne costituisce un limpido esempio. Infatti, un tempo pensavamo la realtà come un tutto fondamentalmente statico, animato sì da movimenti ma tutti reversibili e ciclici, e quindi in qualche modo illusori; movimenti, inoltre, regolati in ogni dettaglio da leggi rigide e immutabili. In quest’ottica, la ricerca scientifica e in generale la conoscenza aveva il compito di disvelare progressivamente il reale fino ad acquisirne una padronanza augurabilmente totale; la rete di rapporti causa-effetto poteva restare temporaneamente e parzialmente occulta, ma prima o poi poteva, e forse doveva, essere scoperta nella sua interezza.
Questo obbiettivo massimo ipotizzato da Laplace poteva essere raggiunto in un futuro più o meno lontano, o non esserlo mai causa insuperabili difficoltà pratiche, ma concettualmente nulla lo faceva ritenere non perseguibile.
Questa sorta di contrapposizione fra i dati dell’esperienza sensibile, evidentemente mutevoli, e un’immutabile struttura normativa che li regge trova un suo primievo ascendente nella dottrina eleatica di Parmenide: “perciò saranno tutte soltanto parole quante i mortali hanno posto, credendo che fossero vere: nascere e pensare, essere e non essere, e cambiare di luogo e mutare lo splendente colore”. Per Parmenide il sensibile e il mutevole erano fallaci apparenze: l’essere, colto dal pensiero e non dai sensi, era immutabile, poiché mai poteva divenire “non essere”.
Molti secoli dopo, il nascente pensiero protoscientifico del Rinascimento intravedeva poi la concreta possibilità di un disvelamento pieno della razionalità che sottendeva i fatti, con un entusiasmo espresso da Giordano Bruno nel suo inno alla “mirabile necessità” esclamava: “questi son li miracoli!”, poiché miracolo non era ai suoi occhi la sorprendente eccezione alla regolarità, ma questa regolarità stessa, la infallibile corrispondenza fra causa ed effetto, fra previsione e accadimento.
Oggi la prospettiva è cambiata: si tende a vedere la realtà come immersa in un divenire fondamentalmente irreversibile, un divenire inoltre che non segue rigidi determinismi. Le leggi di natura hanno cessato ai nostri occhi di normare in ogni dettaglio ciò che accade, per divenire invece nei limiti che gli accadimenti reali, di massima, non possono varcare; ma entro tali limiti ampio spazio è lasciato all’indeterminato, all’imprevisto, al dispiegarsi di possibilità opposte. Questa visione mette a proprio agio lo psicopatologo che studia fenomenologia e decorso del disturbo mentale e contribuisce a dar senso, ad esempio, a esperienze cliniche come quella che qualcuno in passato ha definito “schizofrenia schivata”. Ogni psichiatra ha avuto prima o poi a che fare con certe intense crisi adolescenziali che ponevano delicate diagnosi differenziali con un esordio schizofrenico; ma oggi non tendiamo tanto a porci la domanda “si tratta di un esordio schizofrenico o di un disturbo dell’adolescenza NAS, o ancora di una fase evolutiva difficile ma ancora sostanzialmente nella norma?”; ma piuttosto riteniamo di trovarci in prossimità di uno di quei punti di divaricazione da cui il ragazzo potrebbe avviarsi in una direzione o nell’altra; in questa fase, l’intervento terapeutico può rivelarsi decisivo, mentre potrebbe essere del tutto inutile in momenti diversi.
Analoghi punti di divaricazione si possono incontrare in tempi successivi del decorso del disturbo, con cui abbiamo a che fare nei rapporti terapeutici e in particolare nella terapia di Comunità: ma è chiaro che questa possibilità tende a ridursi in fasi molto avanzate, e ciò renderebbe augurabile un più precoce ricorso a tale terapia.
Abbiamo visto che l’approccio di Comunità Terapeutica, debitamente modificato rispetto a quello delle origini, pare fortemente indicato nelle condizioni psicotiche gravi, e ciò al di là della sua capacità di rispondere agli elementari bisogni di base di persone che hanno perso l’autosufficienza, nonché di garantire una regolarità delle terapie psicofarmacologiche. Infatti, il paziente psicotico grave si caratterizza per la compromissione di quel fondamentale iter dell’elaborazione depressiva che risponde alla perdita dell’oggetto con la costruzione del simbolo, in particolare di quello verbale. Nel trattamento, la dimensione del rapporto verbale perde quindi parte della sua rilevanza, e diviene terapeutica una presenza fisica il più possibile costante quale può essere garantita in sede residenziale e che evidentemente non può essere carico del singolo operatore ma della C.T. nel suo complesso; questa deve essere vissuta dal paziente come un’entità omogenea e coerente. Quando Hinshelwood parla della comunità come analista, implica in qualche modo una personificazione della stessa.
Il trattamento cerca di rimodellarsi di volta in volta utilizzando un modello dinamico nel senso fisico del termine: cioè che produce cambiamento da uno stato all’altro. La possibilità di cambiare presuppone, con apparente paradosso, un’acquisita esperienza di stabilità , poiché la rigidità delle posizioni psicotiche nasce forse dalla consapevolezza che abbandonarle può significare perdersi in un panico senza nome. La comunità terapeutica può fornire il background che è necessario presupposto del cambiamento offrendo:
– un aggregato protettivo dove i bisogni di base – cibo, un tetto – sono garantiti;
– il recupero di una riconoscibilità personale, con uscita dall’anonimato imposto dagli aggregati macrosociali;
– una regolare, ma non rigida, successione degli eventi quotidiani;
– la familiarizzazione con l’ambiente, a partire da quello edilizio, per giungere alla rete di rapporti personali.
Nel compito di fornire un rapporto in larga parte non verbale diviene fondamentale il rapporto con la fisicità. Il tutto, in una percezione della globalità dell’ambiente in cui l’ottica sistemica può dare dei contributi.
“Sarebbe molto più agevole se potessimo prescindere dal paziente quando esploriamo i meandri della psicopatologia, sarebbe molto più semplice se potessimo limitarci a esaminare la chimica e la fisiologia del cervello, e a trattare gli eventi mentali come se fossero mere variabili di impersonali formule statistiche. Per quanto questi approcci siano importanti per la comprensione del comportamento umano, da soli non possono scoprire o spiegare tutti i fatti di rilievo. Per vedere nella mente di un’ altro dobbiamo ripetutamente immergerci nel profluvio delle sue associazioni e dei suoi sentimenti, dobbiamo noi stessi essere lo strumento che lo scandaglia.” ( John Nemiah)