Premessa
Non è difficile rimanere affascinati e incuriositi dallo studio dell’adolescenza; età complessa e misteriosa, via “di mezzo”, come la definisce Derek Miller, tra l’innocenza dell’infanzia e l’età adulta, tra la preistoria e l’età moderna (Stanley Hall, 1904 in M. Males,2006 ). Negli ultimi anni l’interesse di molti ricercatori e neuro scienziati, sembra essersi risvegliato, nel tentativo di dare all’adolescenza una precisa definizione, di stabilirne i limiti temporali e, soprattutto, di penetrare nel suo complesso mondo, per cercare di dipanare l’intricata matassa fatta di conflitti, paure e contraddizioni.
Oggi si tende a descrivere l’adolescenza in termini psicosociali, per cui i confini con la fanciullezza ed ancor di più con l’età adulta, finiscono per essere sfumati e soggetti a continue revisioni, a seconda del modello culturale, della società e dell’epoca storica considerata. Sebbene risulti quindi complicato fornire una definizione universalmente valida, mi trovo d’accordo nel ritenere l’adolescenza un adattamento di fronte ai grandi cambiamenti, dovuti alla pubertà, che si manifestano nel corpo ancora bambino, sia a livello fisico che emotivo, un adattamento che ha lo scopo di trovare un “senso nuovo del Sé nel Mondo” (Margot Waddell, 2002). In effetti, se l’aspetto fisico cambia drasticamente, nel giro di relativamente poco tempo, più lenta e graduale appare la maturazione cognitiva, affettiva ed emotiva che raggiungerà un completo sviluppo soltanto con l’età adulta; accade in sostanza quello che viene definita “una discrepanza delle transizioni biologiche con quelle psicologiche” (Gluckman & Hanson in Briggs, 2008). Così, mentre da una parte si assiste all’esplosione puberale, dall’altra si verifica una riattivazione di quelle pulsioni sessuali e aggressive, che erano state tenute nascoste e soffocate durante tutto il periodo della latenza, con conseguenze inevitabili sulla personalità dell’adolescente. In definitiva, per dirla con le parole di Meltzer, gli adolescenti possono essere considerati “una moltitudine felice-infelice compresa tra l’instabilità del periodo di latenza e lo stabilirsi della vita adulta”(Meltzen,1973 trad it.1975, p.81)
Per rispondere alla domanda se l’adolescente abbia una personalità già ben strutturata o al contrario sia ancora in via di formazione, ho scelto 3 diverse prospettive: il punto di vista biologico, la teoria dell’attaccamento e il modello psicoanalitico.
Quando si parla del comportamento degli adolescenti, vengono utilizzati termini come aggressività, impulsività, rabbia accanto ad altri come ansia, insicurezza, depressione e vulnerabilità. Per spiegare questa dicotomia di definizioni, spesso contrastanti tra di loro, ricordo brevemente, che esistono almeno due correnti di pensiero che considerano l’adolescenza sotto ottiche diverse: la prima vede l’adolescenza come un’età turbolenta per definizione (turmoil adolescenziale), caratterizzata appunto da disagio, lotta, incertezza interna, competizione con le figure genitoriali, sino ad arrivare a quell’“esplosione tempestosa degli impulsi puberali” di cui parla M. Klein, 1922. La seconda considera invece l’adolescenza una via di transizione, per lo più tranquilla, verso l’età adulta, senza che sia necessario tirare in causa il break down comunicativo, il disagio psicologico, le difficoltà di relazione con i pari e con gli adulti, se non per una minoranza di giovani devianti o patologici ( Coleman & Hendry, Graham in Briggs, 2008). Riprendendo il primo punto di vista, l’immagine pessimistica degli adolescenti, può essere, in parte, ritenuta retaggio di un’opinione pubblica influenzata e spaventata dai modelli estremi dell’adolescente ribelle. In effetti, a partire dagli anni 60, l’adolescenza è stata considerata da psichiatri, analisti, ricercatori, tra cui ricordiamo la stessa Anna Freud, oltre che dalla maggior parte del mondo adulto, come un momento difficile e negativo, durante il quale lo scontro generazionale era pressoché inevitabile. Mentre, pionieri della seconda linea di pensiero, sono stati, tra gli altri, Erikson e Blos (1968), per i quali l’adolescente attraversa una “crisi d’identità”, per arrivare a ottenere un’individuazione-separazione dai genitori, senza che questo significhi necessariamente conflitto e scontro con i famigliari. Anzi, al contrario, i genitori dovrebbero aiutare e sostenere i figli nella lotta verso l’autonomia, accettandone la ribellione come del tutto naturale e fornendo il supporto e l’aiuto necessario alla loro crescita. Analogamente, anche per Laurance Steinberg, l’adolescenza, pur essendo un periodo importante in cui viene negoziata con i genitori l’autonomia e viene ridefinito il rapporto reciproco, non può essere considerata un’età particolarmente difficile, per almeno la maggior parte dei giovani, a patto che non subentrino fattori esterni fonti di disagio e stress (divorzio dei genitori, malattie, povertà, maltrattamenti ecc) e che i genitori riescano ad essere autorevoli nei confronti dei figli, ossia sensibili, fermi, contenitivi, in grado quindi di fornire sia dei limiti che un appoggio sicuro. E’ di certo vero che alcune caratteristiche e qualità dell’adolescente citate sopra, compresi i frequenti acting-out tipici dell’età, possono, almeno in parte, essere ricondotti ai mutamenti fisiologici che si stanno verificando nel corpo ancora bambino; cambiamenti determinati dalle grandi tempeste ormonali, in particolare dall’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-gonadi e dagli importanti riaggiustamenti del cervello in via di maturazione, come l’aumento o al contrario, la diminuzione del rilascio di alcuni neurotrasmettitori cerebrali o l’utilizzo di specifiche aree cerebrali (amidgala e circuiti sottocorticali) a scapito di altre aree superiori (lobi frontali), tanto che, per alcuni autori, si può arrivare a giustificare e spiegare i comportamenti dei giovani sotto ai 25 anni di età, ricorrendo “semplicemente” all’anatomia cerebrale (Dr. Jay Giedd in M. Males, 2006 ). La rapida e sorprendente trasformazione fisica determinata dall’avvio puberale, può quindi essere responsabile d’inevitabili ripercussioni anche sul versante emotivo, affettivo e cognitivo, sino a indurre un senso di disagio, malessere e inferiorità, che possono essere manifestati sia attraverso agiti spericolati e imprevedibili sia attraverso comportamenti etero e auto aggressivi (G. Music, 2010). Indubbiamente, pur essendo la biologia importante, il problema è ben più complesso. Per lo psichiatra Daniel Offer, gli effetti degli ormoni non giocano un ruolo così pervasivo e potente sulle emozioni e di certo i fattori biologici non vanno mai disgiunti dall’influenza che l’ambiente sociale e culturale è in grado di esercitare sullo sviluppo cerebrale, processo definito da Dahl “interazione dinamica persona-ambiente”. In accordo con quest’opinione, Elizabeth Shirtcliff (2005) sostiene l’esistenza di uno stretto legame tra il contesto sociale, il rilascio di ormoni e il comportamento dell’adolescente: l’attivazione endocrinologica, pur essendo in effetti determinante nel predisporre a specifici disturbi nel corso dell’adolescenza, nello stesso tempo risulterebbe sottoposta all’influenza esercitata dall’ambiente esterno, che finisce quindi per influenzare il comportamento stesso. Ancora una volta viene sottolineata l’esistenza di una concatenazione di diversi fattori: intrapersonali o psicologici, interpersonali o sociali, socioculturali o attitudinali, tutti in grado di incidere profondamente sul comportamento e sulla maturazione dell’adolescente (modello di Brian Flay, in Board on children, youth and families, A study of interactions, 2006 ). In definitiva, dalla prospettiva biologica traspare come il comportamento e la personalità dell’adolescente siano aspetti profondamente influenzati dalle fluttuazioni ormonali e dalla maturazione cerebrale ancora in corso (determinismo biologico) e come la crescita cognitiva ed emotiva risulti, per tanto, in via di evoluzione, giungendo a compimento solo dopo molti anni, con l’età adulta. Prenderò ora in considerazioni altre argomentazioni, basate sulla teoria dell’attaccamento e sugli studi psicoanalitici, al fine di evidenziare l’impatto delle prime esperienze di vita sulla futura personalità dei giovani adolescenti, ripercorrendo, brevemente, le diverse tappe dello sviluppo dalla nascita sino alla conquista di una propria identità. Durante l’adolescenza risultano apparentemente abbandonati i desideri di dipendenza verso gli adulti e allontanate le figure di attaccamento primarie, anche se queste, in realtà, continuano a rivestire un ruolo fondamentale, più di quanto un adolescente possa ammettere. Come già detto, si verificano dei cambiamenti cognitivi, affettivi, emotivi, sociali che permettono al giovane di rivolgersi al mondo esterno e in particolare al mondo dei coetanei, distaccandosi, così gradualmente, dall’ambiente conosciuto e famigliare. Alla luce della teoria dell’attaccamento, vediamo come l’originaria relazione madre-bambino sia in grado di influenzare e determinare il comportamento di un individuo, dall’infanzia sino all’età adulta e, in particolare, come l’antico rapporto diadico sia fondamentale durante l’adolescenza, età di “tempesta e di stress” (Stanley Hall in Music, 2010), in cui i traumi antichi infantili possono essere riattivati e rivissuti. Se la teoria biologica riportava e giustificava parte delle caratteristiche adolescenziali sulla base dei livelli ormonali e della maturazione cerebrale ancora in corso, secondo la teoria dell’attaccamento, invece, la personalità e il comportamento dell’adolescente sono da ricondurre a quei modelli operativi interni che si sono già formati e strutturati durante l’infanzia, pur risentendo della pressione esercitata dall’ambiente esterno e dei così detti life-events, che si susseguono nel tempo. Bowlby, per primo, si rese conto dell’importanza della precoce relazione di attaccamento tra la madre e il suo bambino e di come la qualità della stessa risulti fondamentale per lo sviluppo successivo del neonato, tanto da riuscire a condizionare le aspettative e l’immagine di sé, degli altri e del modo esterno. Secondo questo filone di pensiero un attaccamento “sicuro” o al contrario “insicuro”, sarebbe in grado di incidere inevitabilmente sulla crescita emotiva e affettiva, sulle scelte, sugli obiettivi da raggiungere e sui rapporti con le altre persone, a partire dall’infanzia, per continuare poi per tutto il corso della vita. In particolare le esperienze precoci, sperimentate durante i primi anni, siano esse di comprensione, di contenimento o al contrario di rifiuto e scarsa empatia, rispettivamente, rafforzano o limitano, la capacità di affrontare le situazioni stressanti che si dovranno affrontare, così come la qualità dei legami affettivi che s’instaureranno nelle diverse età (Klaus, E. Grossmann, K. Grossmann, E. Waters, 2005). Molti ricercatori, seguendo le idee di Mary Ainsworth, sostengono, infatti, che, sia un attaccamento sicuro sia di conseguenza, un’esplorazione sicura, siano i due requisiti indispensabili per poter fronteggiare in modo costruttivo le nuove esperienze, che richiedono per essere superate, l’utilizzo di quei modelli operativi interni appresi in precedenza, proprio dall’interazione tra bambino e genitori. Di certo, come già lo stesso Bowlby, sostenne, non ci si può basare esclusivamente sul tipo di attaccamento evidenziato dalla “Strange Situation”, alla fine del primo anno di vita, per predire lo sviluppo successivo del bambino e tanto meno per ipotizzare il futuro comportamento e personalità dell’adolescente e dell’adulto. La qualità dell’interazione madre-bambino, che si forma durante il primo anno di vita, è si fondamentale, ma di sicuro non rappresenta l’unica variabile che si deve tenere in considerazione. Al di là dei casi patologici, prendendo in considerazione lo sviluppo del bambino attraverso le diverse età, vediamo come l’attaccamento cambi e si evolva nel tempo, in modo da favorire il naturale distacco dalle figure di riferimento primarie e da permettere, di conseguenza, il consolidarsi di nuovi legami significativi con altre persone, legami che assumeranno primaria importanza durante adolescenza e l’età adulta. Ripercorrendo brevemente l’ontogenesi dell’attaccamento, dalla nascita e durante la prima infanzia, inizia a strutturarsi e a consolidarsi una modalità di attaccamento sicuro, insicuro o disorganizzato, a seconda delle esperienze di vita precoci del neonato e a seconda della disponibilità o meno, delle figure di accudimento primario. Se la madre non è “troppo buona” così come “non abbastanza buona” (Hopkins in Steele, 2003), riesce ad offrire al bambino quel contenimento necessario, che Bion definisce “rêverie”materna , al contrario, se questo non avviene, non si crea nella mente del bambino lo spazio necessario che consente speranza e fiducia di essere capito e di comunicare agli altri le proprie emozioni. In seguito, nella seconda infanzia, età spesso trascurata dai ricercatori, che si colloca tra la fine dell’Edipo e l’avvio dell’adolescenza, il sistema di attaccamento subisce delle importanti modificazioni, che sono indispensabili per la crescita del bambino. Le capacità cognitive-affettive, ora più evolute, garantiscono il passaggio da un sistema “monotropico” a un sistema elaborato e sofisticato, che consente al bambino di rivolgersi a una più larga cerchia di persone da cui trarre protezione e sicurezza. Le nuove relazioni con figure di riferimento definite”relazioni dinamiche correlate all’attaccamento”, possono sostituire, in alcune circostanze, gli stessi genitori, specialmente quando questi non sono stati in grado di fornire il nutrimento affettivo di cui il bambino aveva bisogno. Così il gruppo, gli amici, la scuola, la maestra possono diventare “figure di attaccamento secondarie-subordinate”, con cui confrontarsi e a cui rivolgersi come base-sicura (O. Mayseless, 2005). Nella maggioranza dei casi, durante la seconda infanzia, mentre si consolidano gli antichi legami con i caregivers primari, il bambino inizia, contemporaneamente, ad allargare i propri orizzonti e le proprie conoscenze, incomincia a compiere nuove esperienze, impara a distaccarsi dalle figure genitoriali, segnando quel passaggio necessario che permetterà l’investimento affettivo anche su altri oggetti esterni. Secondo Bowlby, la riduzione fisiologica dell’intensità dell’attaccamento, che si registra durante questa fase, può essere considerata la diretta conseguenza di una serie di fattori tra cui la crescente capacità di apprendimento, i cambiamenti cognitivi, biologici e ormonali, che stanno iniziando a verificarsi. In termini psicoanalitici freudiani, il processo di disinvestimento dall’oggetto primario, che inizia proprio nella seconda infanzia, è indispensabile e necessario per permettere l’investimento libidico su altri oggetti esterni, in modo da rendere possibile la formazione di nuovi legami. Passando poi dalla seconda infanzia all’adolescenza, vediamo come lo sviluppo della personalità subisca una serie di riaggiustamenti, attraverso le diverse fasi definite prima-media-tarda adolescenza, sino ad arrivare a completamento soltanto nell’età adulta, in cui, si presuppone, venga raggiunta la capacità di introiettare le figure di attaccamento e di rielaborare il lutto per ciò che si lascia andare definitivamente. Molti studi hanno evidenziato che i giovani così detti “sicuri”, dimostrano un maggior grado di autonomia rispetto alle figure di attaccamento primarie, anche se, d’altra parte, continuano a rivolgersi a loro in caso di difficoltà, vanno meno in contro a disturbi di ansia e di depressione, hanno minor problemi di abuso di sostanze, contrariamente, invece, a quanto accade per i loro coetanei considerati “insicuri” (Allen & Hauser in Music 2010). Secondo il modello psicoanalitico, durante quest’età, i vecchi conflitti soprattutto quelli della prima infanzia e delle battaglie edipiche, vengono rielaborati, mettendo a dura prova la qualità del contenimento e dell’interiorizzazione. Per Ernest Jones ha luogo una regressione verso l’infanzia, come se, nel secondo decennio di vita, “l’individuo riepiloga ed espande lo sviluppo dei primi cinque anni”(1922, in Waddell, 2002). Proprio la natura dell’impatto delle esperienze precoci diventa, in questo momento, particolarmente evidente. L’adolescente deve attingere alle esperienze della prima e seconda infanzia, per riuscire a contenere l’ansia, l’ambiguità e l’incertezza dei cambiamenti interni; deve in definitiva poter utilizzare l’esperienza di essere stato contenuto durante l’infanzia, per poter quindi affermare la propria individuabilità (S. Briggs, 2008). I meccanismi protettivi della latenza, che avevano temporaneamente soffocato gli elementi più molesti della personalità, non sono ora più sufficienti. Molti adolescenti riscoprono in ritardo la sicurezza che la scuola e la famiglia offrivano durante il periodo di latenza, ma che ora non sentono più come tali, per cui si rivolgono al gruppo dei pari che così inizia ad esercitare una funzione contenitiva estremamente importante (Waddell, 2002). In effetti si è portati a sottolineare quanto i coetanei e il gruppo in generale, siano importanti nel determinare il comportamento e le scelte dell’adolescente, in particolare durante la media adolescenza, sino al caso estremo di attribuire ai genitori soltanto un’importanza “genetica” (J. Harris in L. Steinberg, 2001). Questo è di certo vero; il gruppo sembra notevolmente influenzare le aspirazioni sociali e il senso di identità dell’adolescente, prendendo, a volte, il posto delle antiche figure di attaccamento, ma è anche altrettanto vero che lo stile di attaccamento e di relazione con cui l’adolescente si confronta con gli altri deriva, inesorabilmente, da quegli stessi modelli che il neonato ha potuto interiorizzare sin dalla nascita e che hanno continuato a rafforzarsi e a strutturarsi durante le età successive, pur tenendo sempre presente le circostanze ambientali che si sono susseguite nel tempo. E’quindi giusto soffermarsi sull’importanza rivestita, durante l’adolescenza dal gruppo, ma nello stesso tempo va sottolineato l’impatto che i genitori hanno esercitato e che continuano ad esercitare, sui valori, sulle attitudini, sulla personalità dei figli (L. Steinberg, 2001). Il giovane inizia a rivolgersi ai coetanei nel momento in cui si allentano i legami con i famigliari, s’intensificano i sentimenti d’incertezza e di confusione, nel tentativo di sostenere e integrare i diversi aspetti della propria identità in un unico Sè. Sotto un certo punto di vista i membri del gruppo possono, infatti, impersonare sfaccettature diverse della personalità l’uno dell’altro; nel gruppo l’adolescente può ritrovare se stesso, può comprendere e accettare le sue distinte caratteristiche e qualità. In questo senso il gruppo può aiutare l’adolescente a scoprire il proprio Sé e la propria personalità, ancora immatura, rivelando anche quegli aspetti meno evidenti e conosciuti. S’instaurano tra i diversi appartenenti, dei legami forti e intensi, talvolta fluttuanti e incostanti, che possono andare a sostituire l’intimità famigliare, quasi come se si trattasse di un tentativo di fuga dal proprio nido e dal mondo conosciuto dell’infanzia. Un gruppo sufficientemente fluido e ben strutturato può fornire, in effetti, un valido aiuto, durante gli anni turbolenti dell’adolescenza, sino al momento in cui il giovane diverrà finalmente in grado di camminare da solo. Al contrario un gruppo con caratteristiche negative, può riuscire a mostrare gli aspetti più distruttivi della personalità, che non possono essere tenuti sotto controllo individualmente. In questi gruppi l’agito può quindi facilmente prendere il posto del pensiero, soprattutto se si considerano le reazioni emotive violente, favorite dall’avvio puberale (M. Waddell, 2002). In definitiva, secondo L. Steinberg, il gruppo dei coetanei e le persone esterne alla famiglia, possono riuscire a rinforzare o, al contrario, minare l’influenza che i genitori continuano ad esercitare sui figli per tutta l’adolescenza. In seguito, con il passaggio all’età adulta, il giovane inizierà a distaccarsi dal gruppo per riuscire finalmente a formare una coppia e, in seguito, una famiglia. Uno dei compiti dell’adolescente è quello di crearsi una mente propria, una propria identità, che pur affondando le radici nelle proprie origini e nei propri modelli di identificazione primaria riconoscibili all’interno della famiglia o talvolta nel contesto della comunità o nella scuola, riesca tuttavia a rimanerne ben distinta, in maniera unica e originale. Il successo o al contrario il fallimento, dipenderà da come le esperienze di amore e di perdita sono state gestite in passato e da come i genitori hanno, a loro volta, saputo accettare il processo d’individuazione-separazione dei propri figli. Lo sforzo a cui è sottoposto l’adolescente è notevole e implica l’utilizzo di quei processi introiettivi, una volta accantonate la proiezione e la scissione caratteristiche della prima e media adolescenza, che permettono di abbandonare le figure esterne di dipendenza e di attaccamento e di ricrearne una loro versione interna, che renda possibile lo sviluppo e l’autonomia della personalità. Quindi tutti i punti di vista analizzati, a cominciare da quello biologico per arrivare alla teoria dell’attaccamento e al modello psicoanalitico, sembrano dimostrare che la personalità dell’adolescente sia ancora in via di formazione, pur affondando le radici in un antico passato, patrimonio o fardello che ogni adolescente si porta dietro e che continuerà a esercitare la sua influenza per tutto il corso della vita. Concludo con le parole di Freud, che ben sintetizzano l’essenza della mia discussione: “Se gettiamo a terra un cristallo, questo si frantuma, ma non in modo arbitrario; si spacca secondo le sue linee di sfaldatura in pezzi i cui contorni, benché invisibili, erano tuttavia determinati in precedenza dalla struttura del cristallo” (1933, pp.466-467).
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