Vaso di Pandora

“La via del mare”

“Da terra conviene progettare la rotta
se si riesce a farlo destramente
ma quando si è per mare
bisogna correre col vento che c’è”
Alceo VII a.C.

Conosco Alessandro il 1 aprile 2011, il mio primo turno nella comunità terapeutica dove tuttora lavoro, il mio primo ingresso in una struttura che ospita dei minori con disturbi psichiatrici, il mio primo contatto con la malattia mentale degli adolescenti.
Con riserbo e distacco mi pongo in una posizione osservativa cercando di misurare gesti e parole, con quel timore, riservatezza e preoccupazione che caratterizza tutti i nuovi incontri.

Alessandro è un bel ragazzo di 16 anni, alto, robusto, con due grandi occhi che sembrano spenti, annebbiati. Non mi saluta e non mi parla per tutto il pomeriggio, in compenso assisto a numerosi agiti aggressivi nei confronti della mia collega, sua educatrice di riferimento all’epoca, che viene insultata, schiaffeggiata e spintonata per futili motivi e davanti ai quali resto paralizzata.

Dentro di me non provo paura, paura di essere aggredita, ma curiosità di capire da dove provenga tutta quella rabbia, tale da farlo diventare così violento alla minima frustrazione o addirittura senza nessun motivo apparente.
Il turno successivo prendo tra le mani la sua cartella clinica, un faldone pieno di denunce, fax per allontanamenti, ricoveri all’SPDC e inizio a leggere “...comportamento caratterizzato da un crescendo di agiti eteroaggressivi via via più preoccupanti…gravi difficoltà nel contenere la propria impulsività e reattività a stimoli interni e/o esterni anche minimi attuando diverse aggressioni nei confronti di ospiti e operatori…aspetti provocatori e talora bizzarri…marcata tendenza a cercare ad accompagnarsi con elementi devianti, leaders negativi”…atteggiamenti sessualizzati ed esibizionismo…”.

Questo caso mi incuriosisce sempre di più e ciò mi spinge ad informarmi affannosamente con i colleghi che lo conoscono da più tempo, per vedere se Alessandro corrisponde davvero alla descrizione letta in cartella, non so perchè faccio questo è che ciò che mi colpisce di più è il suo sguardo, ed io fin da subito ci ho letto qualcosa di diverso. Mi viene descritto come una sorta di “mostro”, un paziente incontenibile, difficile e “da temere”. Io d’altronde ero quella nuova e in poco tempo passa dal silenzio, dall’ignorarmi, alla svalutazione, apostrofandomi con aggettivi umilianti e poco rispettosi.

Ci stiamo studiando a distanza, io scruto lui e lui mi osserva, mi mette alla prova e ci riesce perchè con lui mi sento sempre sotto esame.
Poi cambia qualcosa: mi “concede” una chiacchierata in giardino, mi domanda se conosco la vita militare perchè lui da grande vorrà fare il soldato come suo padre, mi parla della sua terra, la Sardegna, sottolineando più volte che lui si ritiene un “sardo bastardo”, mi fa sorridere, ridiamo insieme.

Passano i giorni, ci vediamo spesso e mi confida che non gli “facevo” molta simpatia all’inizio, il fatto che parli al passato mi rassicura e gli chiedo il perchè ma non mi sa rispondere. Da questo momento la situazione si sblocca, iniziano le nostre lunghe chiacchierate in giardino, sempre e solo in giardino, grande e accogliente. Capisco che siamo agli albori di una nostra relazione terapeutica perchè inizio a “pensarlo” e nella mia testa queste non sono più semplici chiacchierate ma si sta delineando spontaneamente la cornice di un setting, un setting mentale che permette un’elaborazione, un’interpretazione e una restituzione di contenuti. In un breve episodio in cui tento di fermarlo mentre aggredisce una mia collega mi dà uno schiaffo in volto, forte e sonoro, talmente veloce che non ho neanche avuto il tempo di realizzare. Si allontana, va in camera sua, non vuole pranzare e si chiude in un silenzio che sbloccherò io il turno successivo. Mi chiede con insistenza di far parte della sua mini-equipe, è il primo ad esprimere a parole un qualcosa che in fondo desidero anche io: intraprendere con lui un percorso terapeutico diventando per lui una figura di riferimento. L’equipe è d’accordo e da luglio inizio ad “occuparmi” di lui, a lavorare con lui. Incomincio a capire i suoi silenzi iniziali, è un ragazzo affettuoso consapevole di esserlo e sa bene che non può permettersi di lasciarsi andare affettivamente con persone che non ha ancora inquadrato, un aspetto molto sano e così diverso dall’atteggiamento di alcuni altri ragazzi che non hanno un confine tra il dentro e il fuori, che danno confidenza, abbracciano e baciano chiunque incontrino anche già dalla prima volta.

Alessandro prima di essere domiciliato a “Tuga 1” è stato per alcuni mesi a “Tuga” in cui ha sempre desiderato far ritorno, ribadendo questa sua volontà con insistenza.
Gli propongo dei colloqui strutturati che si svolgono nella stanza predisposta, lui accetta, entra ma non parla. È ermetico, provo a fargli qualche domanda, lui risponde con dei “boh!”, sta seduto qualche minuto per poi alzarsi: sta semplicemente prendendo confidenza con quella stanza che col tempo è diventata, ed è tuttora, il suo rifugio sicuro, uno spazio chiuso e piccolo in cui liberare le sue angosce. Come ha fatto con me!

Da un punto di vista comportamentale Alessandro fa degli enormi passi in avanti, scivolando alle volte, ma togliendo piano piano quella maschera di ragazzo da “temere”  per arrivare a viversi ed accettarsi per quello che è: un ragazzo da nutrire emotivamente (prima il suo nutrimento era il cibo, è significativo come il raggiungimento di un benessere soggettivo l’abbia fatto dimagrire), accompagnare, guidare e sostenere nel suo percorso di crescita, con tutte le difficoltà e insicurezze del caso (comprese le mie).
In vista di questo miglioramento inizia a richiedere di poter fare un permesso in Sardegna (non dice per quanto tempo, non detta legge sulle modalità di organizzazione, vuole semplicemente vedere che effetto gli fa tornare a casa dopo circa due anni in comunità).
Con fatica e determinazione io e il mio collega (i due psicologi di riferimento di Alessandro) insieme al suo psichiatra, cerchiamo di realizzare questo progetto, senza l’appoggio totale dell’equipe. Avverrà a dicembre, durerà sei giorni, lo accompagneremo io e il mio collega che vivremo ventiquattr’ore su ventiquattro con lui e la madre a Guasila, piccolo paesino in provincia di Cagliari.

Ci immergiamo in questa avventura insolita per il nostro lavoro anche con un pizzico di incoscienza, non essendo consapevoli dell’impegno mentale ed emotivo che potrebbe comportare una situazione simile.
Alessandro è eccitato da questo evento, smette di dire che vuole ritornare nella vecchia comunità, non fa altro che ringraziarci e manifestarci il suo affetto, difficile distogliersi da quel ruolo umano, un po’ narcisista, che tende a ricercare gratificazione nel paziente, per ritornare a un “ruolo terapeutico” che mantiene un distacco e permette di essere soddisfatti non di noi stessi ma del paziente.

Partiamo il 1 dicembre, arriviamo a Cagliari, viene a prenderci all’aeroporto la madre, figura ambivalente e con evidenti disturbi psicopatologici che né io né il mio collega conoscevamo, soltanto vista brevemente quando veniva a far visita al figlio in struttura. Ci accompagna in questa villetta costruita e curata nei minimi dettagli da lei, una casa ricca di oggettistica, di cultura, di arredi, ma povera di vita: è la prima volta che quella casa, quei letti ospitano qualcuno (Alessandro compreso).
Alessandro è il terzogenito di una famiglia composta dal padre, militare impegnato all’estero, figura assente fisicamente e affettivamente come marito e come genitore, dalla madre, impiegata alle poste al mattino e proprietaria di una pescheria ad Alghero in cui va a lavorare al pomeriggio, dal fratello di 21 anni, studente in medicina, riservato e solitario e dalla sorella di 19 anni, ragazza ribelle col volto di una bambina.

I suoi genitori si sposano molto giovani, si trasferiscono a vivere a Sassari (nonostante entrambi siano di Cagliari), la madre cresce i suoi tre figli come può fare una donna che non si riconosce nel ruolo genitoriale (essendo lei ancora una “figlia”, forse deprivata con marcati tratti infantili). Alessandro è un bellissimo bambino iperattivo, nel periodo della pubertà si trasferisce in America col padre un anno (deve andare a Miami per lavoro e decide di portare con sé solo il figlio più piccolo, l’unico forse sul quale investire e proiettare i suoi ideali di forza e potenza, non poteva farlo con la figlia femmina né col figlio più grande, dedito alla musica e alla danza classica, “roba da femminucce”). Tornando da scuola Alessandro trova il padre a letto con una soldatessa rumena, da lì l’inferno. Non sa come comunicarlo alla madre e infatti non lo fa: lo dice al fratello, la madre lo va a prendere e lo riporta in Italia.

Alessandro diventa chiuso, aggressivo, a scuola e fuori, si getta dal balcone ma rimane illeso. Diventa incontenibile e ingestibile, la madre chiede aiuto perchè si rende conto di non riuscire “a stargli dietro” a quanto riferisce. Il padre rientra in Italia per avviare le pratiche della separazione, si ritrovano a Cagliari in casa dei nonni materni tutti insieme, si accende una violenta discussione e la vittima di questa è proprio Alessandro che quando tenta di “vomitare” tutta la rabbia al padre riceve dallo stesso un calcio al testicolo, si chiude nel dolore (fisico ed emotivo) per una settimana, sta male ma il padre gli urla in faccia “Non fare finta!”, viene operato d’urgenza perdendo l’utilità di un testicolo: ecco quello che si suol dire un padre castrante, affettivamente e purtroppo anche fisicamente (e mai denunciato dalla moglie).
Alessandro inizia a girovagare, a frequentare compagnie poco raccomandabili, fa uso di droga, ogni giorno cerca e provoca un pestaggio fuori casa, la madre non vede (o fa finta di non vedere i lividi e il sangue sul corpo del figlio quando rientra a casa).
Diventa aggressivo anche in famiglia, la zia materna fa intervenire il 118 per predisporre un TSO. All’uscita dell’ospedale, sempre più astioso, persevera in atteggiamenti aggressivi, violenti e oppositivi che arrivano al culmine quando sferza con forza un piccone in testa a un ragazzo: questo gli ha comportato una denuncia penale e un processo tuttora in corso.

Da lì inizia il suo percorso comunitario.

È poco più di due anni che Alessandro non fa ritorno a casa, nel frattempo la madre si è creata una sorta di mondo parallelo rappresentato da questa casa in cui ci ospita e in cui lei si “ritira” quasi tutti i fine settimana, piena di orologi antichi (“perchè qui il tempo si è fermato”), scrive poesie, dipinge, scrive un libro in cui la protagonista è lei, ha un nome diverso ma io che conosco la sua storia capisco quanto sia autobiografico, una vita fatta di abbandoni, di solitudine, di apparenza e di violenza. Alessandro lì prende contatto con la realtà, la vera realtà, non quella rarefatta che uno percepisce quando vive in un contesto comunitario, si sente protetto e tutelato dalla nostra presenza (che ricerca costantemente), si sente libero di pensare, di ricordare, di affrontare parti del suo passato che ancora ora sono ferite aperte che stanno pian piano cicatrizzando. Vuole rivedere i nonni, la zia che l’ha fatto ricoverare e verso la quale ha provato rancore fino a quel momento, vuole vedere il filmino del matrimonio dei suoi genitori per poi allontanarsi, forse per piangere, da solo. Vuole incontrare i fratelli, vuole rivedere Sassari, la città della sua perdizione, i luoghi in cui ha trascorso anni infernali di botte, date e subìte, vuole rivedere il suo cavallo. Noi semplicemente gli stiamo accanto, anzi un passo indietro, pronti a “raccoglierlo” qualora dovesse vacillare o cadere, lui questo lo sa ed è per questo che si permette di addentrarsi nei meandri più oscuri della sua vita passata.

É difficile rientrare nel ruolo una volta tornati a lavoro. Ma ci proviamo senza renderci conto che è Alessandro che ci riporta inconsapevolmente ad assumerlo.
Stavolta è lui a richiedere i colloqui con me, ogni giovedì mattina, nella stanza. Sta ore a parlare di sé, del rapporto col padre, dei suoi sensi di colpa, delle violenze, agite e subìte, del rapporto con la madre, con i fratelli, con la sua sessualità, del futuro. Ad Alessandro viene dimezzata due volte la terapia farmacologica, riprende la scuola per acquisire la licenza media ove si reca in autonomia, intraprende attività sportive (nuoto e arti marziali), non ha più agito aggressività verso qualcuno, il suo sguardo è diventato dolce, vivo e comunicativo. Questo benessere ritrovato lo fa vacillare, non sempre riesce a gestirlo, ogni tanto cade ma si fa aiutare a rialzarsi. Il futuro lo spaventa e lo riconosce, ne è consapevole, decaduto il senso di onnipotenza passato ora si culla in un misto di fragilità e insicurezza. Si decide in equipe e insieme ai servizi invianti di predisporre la dimissione il 1 gennaio 2013. Sarà mai pronto? Ed io sarò mai pronta a lasciarlo andare?

La relazione tra me e Alessandro è ormai forte e inossidabile, è difficile in alcuni momenti distaccarmi dall’essere per lui una figura autorevole e autoritaria (perché talvolta è così che mi percepisce) a cui deve dimostrare qualcosa, rischio di diventare come suo padre e questo non lo voglio, gliene parlo, lavoro su me stessa e ci lavoriamo insieme. Mi chiama “Nana” o “Castagnoma” storpiando simpaticamente il mio cognome e questo mi fa pensare alla sua percezione non visiva, bensì emotiva. La prima volta che mi ha descritto suo padre l’ha delineato come un omone forte grosso e imponente: nella realtà è un uomo minuto di un metro e settanta al massimo. Questo mi fa riflettere: lui uomo piccolo, caricato di aggressività al punto di percepirlo come un “gigante” ingombrante, io piccola donna dentro cui però può permettersi di riversarmi addosso tutti i suoi impulsi emotivi, tutti i vissuti aggressivi, tutta la sua rabbia, tutta la sua insicurezza e destabilizzazione, tutte le sue paure senza il timore di sovrastarmi ma certo che quella “robetta così piccola” possa contenere il tutto. Mi abbraccia dopo ogni colloquio, forse per proteggermi, forse per proteggere se stesso.

E ogni tanto mi dice mi dice “Castagnoma sei una grande!” (ossimoro che ricordo e ricorderò con affetto sempre)
Gli porto un cd di De Andrè e ascolta ripetutamente la canzone “Un Giudice” (cantando a gran voce “cosa vuol dire avere un metro e mezzo di statura….una nano è una carogna di sicuro perché al cuore troppo troppo vicino al buco del culo!”)
Alessandro fa altri permessi in Sardegna, sempre accompagnato da me e dall’altro psicologo referente, ma via via acquisisce maggiori autonomie permanendo pochi giorni in nostra compagnia e trascorrendo il restante tempo con la madre e i fratelli.

Il giorno della dimissione si avvicina e in me sale la paura, non tanto per lui quanto per il contesto che lo accoglierà.
Ha avuto modo di crescere, maturare e “riabilitarsi terapeuticamente” all’interno di una cornice affettiva, contenitiva e talora normativa che gli abbiamo costruito attorno nell’ambito comunitario (quella “cornice per la crescita” di cui parla Codignola): sarà in grado di progredire e stabilizzarsi a casa sua? Con una madre fatua ed evanescente, una figura femminile fragile e talvolta assente?!

A 18 anni torna a casa, ci saluta ringraziandoci e con gli occhi lucidi si reca con la madre a prendere l’ennesimo traghetto per la Sardegna, questa volta da solo!
Mi chiama spesso nei giorni e mesi successivi, gli “manca la comunità” a quanto dice, provo a dirgli quanto sia importante per lui ora riappropriarsi della sua vita, della sua libertà, in maniera genuina e spontanea (come il protagonista del “Piccolo Principe”, libro che gli ho regalato alla partenza).
Solo ora, col senno di poi, capisco quanto l’espressione “mi manca la comunità” racchiudesse molto di più: non era solo la quotidianità, la struttura, l’abitudine o le persone a lui più care, ma piuttosto le regole, le attenzioni, i rimproveri e le gratificazioni.
Rifletto. La libertà per lui è ed era in comunità! Sembra paradossale ma è così!

La libertà, per gli adolescenti ospiti nelle strutture psichiatriche, rappresenta (a parole) uscire, scappare, pretendere autonomie, stare sempre e comunque al di fuori di quelle mura. Non si rendono conto  che la vera libertà per loro, in questa delicata età, è stare protetti tra quelle mura, l’istituzione li rassicura (intesa come edificio e come le persone che vi lavorano), solo “dentro” sono liberi di esprimere la loro emotività (senza il bisogno di costruirvi attorno una rigida e inossidabile struttura difensiva), la loro “intelligente follia”, il loro “terrore senza nome” bioniano, i loro bisogni, le loro incertezze e timori, perché dentro c’è qualcuno che li ascolta e li accoglie. Fuori ci sono coloro che li fanno sentire inadeguati, a cui si paragonanao costantemente e rispetto a cui si riconoscono diversi, che li discriminano e che non sanno contenere la loro aggressività, bensì provocarla.

Qualche mese dopo la dimissione si è ritrovato nuovamente su quel traghetto, che per lui ha rappresentato un turbine di emozioni negli anni (paura, delusione, tristezza, felicità, serenità), ha avuto una crisi e dopo aver spinto una ragazza ( una ex nostra paziente ormai dimessa) col rischio che potesse cadere dalla nave (per fortuna invano), si è gettato lui.

Impotenza, senso di fallimento e senso di colpa hanno invaso per un po’ le menti di noi curanti, che lo abbiamo seguito con coinvolgimento e passione per lungo tempo.
Il nostro ruolo asimmetrico, educativo e psicoterapeutico spesso ci pone in uno stato di forte frustrazione, la paura di fallire tiene alto il livello di pensiero e attenzione.
Dopo aver pensato “Ce l’ha fatta! Ce l’abbiamo fatta insieme!” l’impotenza, il fallimento e la colpa di cui parlavo prima forse sono le sensazioni di Alessandro, essendo ancora presente nelle nostre menti ce le fa vivere a livello controtransferale, una sorte di “identificazione proiettiva a distanza”.
È sempre stato bravo in questo! Non solo lui, questo è il mestiere degli adolescenti!
Fa al caso mio ciò che dice Melville, ovvero che l’adolescente quando avverte dentro di sé il pericolo di agire in modo sconsiderato (ma anche quando ha acquisito sufficiente fiducia nelle proprie risorse) si distanzia e prende “la via del mare” alludendo poeticamente alla tradizione ottocentesca dei giovani che si imbarcavano per diventare “veri uomini”.
Ma quale via può prendere un adolescente che non si trova a dover abbandonare un porto scomodo ma sicuro (come la Comunità in questo caso), che non può più contrattare perché di nuovo nessuno gli pone delle regole o dei limiti, che non può contrapporsi fuggendo perché non c’è più nessuno che lo trattiene (il genitore in questo caso), ma, da una parte, c’è stato qualcuno che lo ha lasciato, per così dire, andare?
Dopo aver trascorso alcuni mesi agli arresti domiciliari il Giudice ha predisposto l’inserimento in una struttura in Sardegna (simile ad un OPG).
Stavolta non c’è un mare di mezzo, Alessandro rimane a terra.
Io non posso che augurargli di programmare da lì la sua prossima rotta al meglio, veleggiando verso la vera libertà ed evitando di naufragare, ancora una volta!

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Commenti su "“La via del mare”"

  1. La Legge, che è uguale per tutti, impone che si diventi maggiorenni a 18 anni, o, in casi soeciali, a 21. Ma come si può pretendere che chi ha avuto un’infanzia costellata di deprivazioni o di gravi traumi debba lasciare la propria “famiglia” (in questo caso, la Comunità), mentre i figli normoaccuditi rimangono con i genitori ancora per molti anni?
    Dice Balint che se il trattamento terapeutico ha successo come luogo di accudimento “materno”, da luogo a un “nuovo inizio”: ma come si può pretendere che esso sia anche il momento della separazione? Voi non avete fallito il compito, che anzi è stato ricco e notevolmente efficace; esso si è soltanto interrotto troppo presto. Voi siete diventati i “veri” genitori di Alessandro, e perciò avreste dovuto condurlo all’autonomia, non al ritorno in una famiglia trascurante e traumatogena. So bene che ciò che la legge prescrive risponde a un’esigenza irrinunciabile, sia sociale che economica: ma forse pensare a questa incongruenza può aiutare a trovare soluzioni meno abbandoniche. Dovremo riprogettare il follow-up?

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