Pericolo dal dizionario Treccani: circostanza o complesso di circostanze da cui si pensa possa derivare grave danno.
Da qui Pericoloso è colui o colei che può generarlo.
Ieri sera su Pol.it abbiamo registrato la terza puntata del viaggio nella psichiatria di comunità e si è parlato di Rems e quindi anche di imputabilità e pericolosità sociale.
Mi sono annoiato.
Forse per l’orario serale, ma soprattutto perché poco spazio alla curiosità e all’ascolto di esperienze vissute direttamente e perché abbiamo, perlomeno questa è la mia impressione, avuto l’ennesima dimostrazione della distanza degli intellettuali dalle emozioni e dall’arte del comprendere e condividere.
Ho sostenuto che l’elemento pericolosità associato alla persona sofferente di disturbi psichiatrici esiste limitatamente alla nostra capacità o meno di intercettare i bisogni e i segnali di crisi in tempo utile e trattarli senza perdere tempo e dedicando il gruppo (sottolineo il valore dello stessso) di lavoro alla prevenzione. Naturalmente bisogna conoscere i fattori di rischio come opportunamente ci ha ricordato Enrico Di Croce.
Poi, naturalmente, bisogna accettare i nostri limiti che derivano da quanto il nostro strumento principale di lavoro che è quello emotivo e in grado di rilevare il pericolo, appunto.
Per fare un esempio è come se un ecografo non fosse capace di individuare per motivi di non adeguatezza tecnologica un tumore pancreatico o peggio se un ecografista poco esperto non fosse capace di leggere il risultato di un’indagine fine.
Da quarant’anni mi occupo di pazienti psichiatrici gravi, di situazioni al limite della sopravvivenza fisica ed emotiva e l’ho fatto in prevalenza creando delle piccole strutture organizzate secondo i principi della comunità terapeutica, ovvero quelli di condivisone, di democrazia , di possibilità di partecipare alla vita del gruppo attraverso una circolarità della comunicazione che favorisca incontri e si apra all’esterno sulla società definita civile.
Me lo sento ricordare a volte come un ritornello fastidioso, utile forse a studenti in formazione; andiamo oltre, cerchiamo di parlare di risultati ed andiamo ad indagare quali sono stati i risultati dei trattamenti.
È semplice, vediamo quanti pazienti sono stati dimessi in un anno dalla Rems, dove sono andati, che cosa è successo, dopo studiamo il follow up; noi abbiamo dati a 10 anni per i pazienti dimessi dalla comunità terapeutica; a volte i risultati non sono esaltanti ma almeno possiamo ragionare su dati certi e non su impressioni che derivano dal nostro riferimento ideologico, seppur condivisibile.
Ecco, quando ho pensato al Redancia System mi riferivo alla possibilità di verificare i progetti terapeutici in base agli esiti valutando la significatività statistica di essi in relazione ad esempio al tempo dedicato agli interventi specifici (quelli farmacologici e psicoterapici) e quelli a specifici (di intrattenimento. Fare insieme e stare insieme) senza perdere tempo o sprecarlo.
Domanda cruciale è: quanto tempo, ad esempio, il direttore di una Rems passa con i propri ospiti?
Riflettiamo!
Ci sarebbe da riflettere a lungo. Tanti sono gli stimoli proposti nell’articolo del Prof. Giusto. Sento che sussiste un collegamento ideale fra i temi affrontati qui e la riflessione precedente su San Patrignano. Secondo me qui si ripropone il nodo più generale (forse mai sciolto) del confronto tra “standardizzazione” e “comprensione”. A volte mi chiedo se siano davvero così incompatibili visto il “capitale umano” con cui ci confrontiamo quotidianamente. È vero secondo me che il campo della “riabilitazione” psicosocio-sanitaria soffre di una carenza di “standardizzazione”. I metodi, gli approcci, anche in ambito comunitario sono diversificati (ma questo dovrebbe essere un bene dopotutto) Non c’è il pensiero unico. Ma questo comporta anche che non c’è “uniformità” di trattamento. La situazione è dunque bella e terribile allo stesso tempo perché in questa situazione si rischia di non avere uno “standard” adeguato ed efficiente che ci dia una misura della “bontà” dei “trattamenti” che proponiamo all’utenza. Si rischia così di procedere in ordine sparso. Molte volte ci si affida all’insight, alla lungimiranza, alla buona volontà del singolo, alla sua creatività. E alla visione del mondo di certi coraggiosi che all’indomani della chiusura dei manicomi cercarono di dare un significato più vasto alle idee e alle azioni di Basaglia. Questo non vuol dire che siamo in balia del caso, ovviamente, per fortuna. Questa incertezza ontologica per così dire cui si sottopone la “materia umana” bella e terribile è quella però in cui più facilmente possono instaurarsi i fenomeni del “messianismo” della cura. È facile che in un contesto così aleatorio come quello della salute mentale/psicologica possano attecchire i personaggi “carismatici”, i salvatori della patria che ti propongono la ricetta miracolosa. Ed eccoli qui: Profeti, guaritori, santoni, guru, maestri e guide spirituali assortiti si avvicendano periodicamente (fanno “epoca”) nell’ambito della “cura” alla persona.
Non sto discutendo del metodo San Patrignano sul quale tuttavia nutro qualche perplessità. Non avendo io al momento dati sulla strategia dell’ intervento adottato, né disponendo di una “diagnosi” della situazione dell’organizzazione di Sanpa. Tuttavia, leggo, mi informo. E non sto dicendo nemmeno che Muccioli rientrasse necessariamente nella categoria dei “santoni” di turno che non è questa la sede per approfondire oltretutto. Tuttavia per ricollegarmi all’articolo del Prof. stavo ripensando che il “metodo Muccioli” (lo introduco come riflessione) in qualche modo attiene all’antica diatriba tra standardizzazione e comprensione. E al di là del bene e del male del suo approccio mi chiedevo “cos’è che faceva Muccioli veramente?” Cosa rappresentava per i tanti che volenti o nolenti si affidavano alle sue cure? Il successo o l’insuccesso della sua “cura” (che ha resistito oltre la morte del suo “leader”) sono determinati dal tipo di personalità degli individui che si affidano al suo metodo? Ma quest’ultimo aspetto non vale forse per qualsiasi tipo di cura? Domande retoriche ovviamente, ma che presuppongono una discussione più generale sul fenomeno della “personalità carismatica” e dei suoi effetti sul “gruppo”. Discussione che si potrebbe provare ad approfondire ad esempio alla luce del concetto di “Socialità sincretica” di J. Bleger o della figura del Genius Loci. Ma questa è un’altra storia.
Ma per tornare alla questione standard-uniformità/differenziazione-comprensione. Tra il guru di turno e la “burocratizzazione” della cura ci sarà una via di mezzo spero. E in effetti c’è come dimostrano quotidianamente la generosità e l’afflato idealistico di certi operatori in turno (che fatalmente non può e non deve bastare però). Il guaio è che l’uniformità del metodo o la sua standardizzazione equivale ad – organizzare i livelli di interazione in maniera fissa e stabile -. La formalizzazione burocratica delle nostre terapie, delle nostre teorie e delle nostre tecniche è qualcosa che bisognerebbe sfuggire come il covid. Ma non è la sede questa per approfondire i rischi intrinseci di certa tendenza all’organizzazione ed alla burocratizzazione. Cose che conosciamo già, oltretutto.
Altro passaggio interessante e l’appello del prof. Giusto al “follow-up”, mi pare. Operazione abbastanza semplice se si tratta di applicare un modello medicalistico tout court. Ma quando sono in ballo soprattutto questioni psicologiche, mentali, etiche e sociali i parametri di giudizio da utilizzare diventano un tantino più complicati. Ma tutto si può discutere ovviamente. Ma quello che volevo sottolineare è che il follow-up tradizionale si concentra sugli individui all’esterno quando “le persone sono già scappate dall’istituzione”. E non sarà già troppo tardi? Voglio dire che non sarebbe il caso di fare una verifica già all’interno dell’istituzione?
Fate finta per un momento che sono ritornato sulla terra dopo un lungo periodo in giro per la galassia o che sono semplicemente caduto dal pero. Ma si fa tanto per parlare. Allora, qui parliamo sostanzialmente di dinamiche di gruppo. E con questo non sto citando il grado di affetto o di stima che gli operatori provano gli uni per altri (sebbene affetto e stima reciproci siano importanti anche in ambito lavorativo, si capisce). In realtà stiamo discutendo della carenza tutt’ora, secondo me, di una concreta apertura verso l’impegno al confronto (operativo e di ricerca) tra tutti i profili chiamati al “mandato di cura”: stiamo parlando di quel fertile percorso della multidisciplinarietà del lavoro e del reciproco scambio, ovviamente. Perché alla fine di questo si tratta: La cura e la cura in comunità più modestamente dovrebbero rivelarci – la magia che persone spesso diverse tra loro per competenze, per carattere-personalità insieme ad individui diversi per storia vissuta e sofferenza patita riescono a realizzare quando operano in sincronia -. Mi viene da pensare al modello di Badaracco la cui importanza risiede soprattutto secondo me nell’idea “rivoluzionaria” che la cura efficace consiste nel mettere in un rapporto di stretta reciprocità operatori pazienti e famiglie. È nella loro relazione che si annida la cura più che nelle parti prese singolarmente. È molto sistemico come approccio.
Allora come si fa, ad esempio, a misurare il grado e l’efficacia della tanto anelata multidisciplinarietà? Un concetto quest’ultimo e una pratica insieme contraddistinti da uno sforzo immane e da un enorme lavoro di confronto quotidiano tra diversità professionali e culturali e istituzionali. Proviamo ad operazionalizzare la variabile “Multidisciplinarietà”. Ci baseremo ad esempio sul confronto caratterizzato esclusivamente dalle regolari riunioni nelle quali le discipline ragionano intorno ai casi o ai protocolli? Ma quanto è reale questo confronto? O ci baseremo sul famigerato “passaggio di consegne” ? O prenderemo a pretesto i periodici incontri-scontri tra Comunità (alias SPR) e csm di competenza? La multidisciplinarietà, interdisciplinarietà, transdisciplinarietà, o come le si voglia chiamare è costituita da un lavoro di gruppo che si basa in primo luogo sulla “pari autorevolezza delle varie discipline” coinvolte nell’impegno assunto e da un vero dibattito democratico tra diversità professionali e culturali finanche. Si dice che il dispositivo della multidisciplinarietà coinvolge tutti nella progettazione, nella costruzione dei protocolli, delle procedure e delle complesse azioni intorno alle attività di diagnosi e cura. Ma come si fa a valutare realisticamente la variabile “pari autorevolezza delle varie discipline”? Come si può adottare un criterio di processo e/o di risultato che ci faccia da guida nel giudizio sulla bontà o meno delle azioni agite nei confronti del paziente? Non può esserci un criterio unico, immagino. Il criterio dovrebbe dipendere dall’obiettivo che l’istituzione curante si prefigge per quel determinato paziente, forse.
Ma si può parlare realmente di confronto reale e democratico in tal senso? O l’organizzazione della cura rimane fortemente gerarchica comunque? Ma senza voler scadere per forza nell’utopia dell’uguaglianza, ma un “coordinatore” che operi una sintesi alla fine e che alla fine prenda una decisione è pur sempre necessario e auspicabile, eventualmente. Semmai potremmo discutere sulla figura di questo coordinatore che chiunque sia dovrebbe “coordinare” non prendere le decisioni finali. È anche vero che non ci si può confrontare su tutto. Insomma, si potrebbe discutere della forma con cui il coordinatore esercita la sua “autorità”, semmai, forse. Ok sono tutte questioni che non si possono dibattere in questa sede.
Dico soltanto che le questioni “condivisone, democrazia, possibilità di partecipare alla vita del gruppo” rimangono questioni fondamentali – nell’esercizio della buona cura -. Questioni però ancora aperte e sempre degne di riflessione. Poi possiamo fare il follow-up all’esterno, ma secondo me bisogna agire “a monte” della cura. Forse. Non so ditemi voi. Mi scuso per la lungaggine
anche io mi sono annoiata…. perché il tema della pericolosità , della prevedibilità, della paura, della responsabilità e mi riferisco a quella responsabilità morale che è oltre e ben più pesante del criterio per altro spesso variabile e variato dal giudizio di giudici diversi, quel senso di colpa che porta a cambiamenti a interrogativi a rivalutazioni del modo di operare, poteva veramente essere di stimolo per un confronto diverso , coinvolgente e di informazione. Non non mi accontento e non credo gli ascoltatori si possano accontentare della descrizione di pratiche ‘buone’. Di limiti. Acquista valore la valutazione di risultati perché ridimensiona la nostra ‘bontà’ indica sottolinea il tempo sprecato, il tempo da prendere, guida. E ciò si deve accompagnare ad un reale interesse allo scambio di esperienze ed emozioni di persone responsabili, curanti responsabili: rispondiamo alle persone che curiamo. Analisi e confronto non passerelle.
Ad un’altra occasione