“La persona che mi sta davanti con il suo comportamento “diverso” induce in primo luogo un movimento di fascinazione, ove si intrecciano curiosità e simpatia, bisogno di testimoniare in una qualche maniera significativa il mio desiderio di avvicinamento, di comprensione e di aiuto, anche se so che chiederà molto di più di quanto non sia disponibile a dargli.
Desidererei comunque che si rendesse conto che è possibile avere, sul piano dell’incontro, nei confronti di un altro essere umano, sentimenti di spontaneità e di solidarietà tali da rompere la stereotipia asimmetrica del rapporto paziente-esperto. Vorrei garantirgli che sono dalla parte sua, non da quella degli altri. Sono però respinto, inchiodato al mio ruolo. Intuisco che la paura e la diffidenza del soggetto lo inducono a vivermi come nemico, anche se per avventura mi dice «per carità dottore mi aiuti!». Sento che al di là di ogni mia intenzione cosciente una parte di me risponde con una paura e una diffidenza simmetrica.
Proprio mentre cerco di registrarmi sull’onda dei suoi bisogni di appoggio e di protezione, sento che mi sta giudicando spietatamente, sta studiando l’avversario.
Da questa contraddizione si ingenera in me confusione, imbarazzo. In questa vicenda avverto con maggiore intensità il carattere provocatorio dell’esperienza schizofrenica.
Come questa nella sua fondamentale non consensualità laceri il tessuto convenzionale su cui riposa il sentimento di realtà e metta in crisi quell’insieme di misure cautelative rituali e pacificatorie che la società ha sancito nel rapporto interindividuale.
Tutto ciò è scandaloso. Ed una parte della mia identità sociale si ribella e si mobilita contro questo attentato, tanto più radicale in quanto si dà talvolta tutto in uno sguardo, in una espressione mimica.
Ed allora da questa cesura vissuta non tanto a livello cognitivo, ma patita come un’esperienza sensoriale stridente, si animano fantasie di riduzione al silenzio dell’altro. Mi ritrovo così ad un certo momento nella posizione tradizionale nei confronti della follia Cerco di tranquillizzarmi dicendomi che è lui che mi costringe, che non accetta la mia mano tesa, il mio sincero interesse, che mi spinge dall’altra parte vicino ai suoi persecutori.
Ma subito dopo mi domando se in realtà non abbia proprio ragione il mio interlocutore, che è stato capace attraverso un lungo viaggio, di arrivare al fondo delle cose, di smascherare le ipocrisie e le false apparenze in cui ci avvolgiamo tutti, per mettere impietosamente a nudo il fondo di angoscia e di vuoto distruttivo che sta al cuore della natura umana. È una esperienza di cui lui è stato capace, io no. Quindi un abisso ci separa e al di là di ogni dichiarazione d’intenti, io sono proprio nella mia natura di tecnico la controparte, in base ad una antinomia insuperabile. Mio è il potere mutuato dalla famiglia, dall’organizzazione sociale, sua è l’impotenza, sua la rivolta e la sfida, anche se questa si esprime prevalentemente in forma autodistruttiva.
Sarà possibile colmare questo vallo? Potrò gettare magari un esile ponte fra le due sponde? Ma perché proprio io dovrei assumermi un compito che nella sua gravità posso sentire megalomane? E a un certo punto tutto ciò mi rassicura lui è il malato e io malgrado tutto sono sano! I ruoli sono salvi!
Molte volte il discorso finisce qui, inghiottito dalla routine degli atti professionali. Ma in altre circostanze o per la particolare capacità di empatia del soggetto o per una mia peculiare disponibilità, questa situazione di stallo evolve, in quanto riesco a vivere la straordinaria qualità della solitudine e della sofferenza che il “mio” paziente esprime, riesco ad immaginare la densità temporale di violenze e di fraintendimenti che ha subito e me ne sento responsabile in quanto esponente di quel mondo di “sani” che mi ha conferito una delega professionale.
Si crea a questo punto un’intenzione accrescitiva; quanto più riesco a vivere il peso di un’esperienza infelice ed il credito che egli ha accumulato verso gli altri, tanto più avverto che gli strumenti di cui dispongo sono assolutamente inadeguati alla gravità del compito, all’intensità dei bisogni e dei desideri a cui sarei tentato di rispondere. Sono invaso da un profondo sentimento di disperazione. In questa dimensione di dolore depressivo ho però l’impressione di aver fatto un piccolo, ma importante passo verso chi mi si rivolge.
Ho cercato una premessa minima per un accomunamento relazionale. Devo però andare fino in fondo ed esperire il sentimento di scacco che contrasta con le mie velleità terapeutiche. Ma è proprio dalla percezione di totale inadeguatezza al compito che può nascere una sfida, che può prendere origine un progetto terapeutico.
Ho tentato di esprimere in modo sicuramente inappropriato alcuni dei vissuti provati verso soggetti psicotici, compiendo uno sforzo di sincerità, convinto che solo se ci lasciamo uno spazio aperto, non totalmente soffocato dal cinismo tecnico, possiamo pensare di compiere atti psicoterapici”.
Grazie è molto bello e vero.
Sulla tragica e inevitabile, per lui, natura rivoluzionaria dello psicotico avevo discusso molto tempo fa con Guerini.
Fa piacere leggere cose che esprimono il senso della condivisione empatica come elemento potenzialmente terapeutico in quanto riparativo.
In poche righe De Martis indica forse l’unica strada percorribile.
[b][i]Paziente e operatore l’antinomia insuperabile di due classi socioeconomiche? [/i][/b]
Il setting “analitico” descritto dal Prof. De Martis mi fa pensare a due persone non isolate dalla situazione sociale (ed istituzionale eventualmente) in cui si relazionano.