Quindici giorni orsono, mi sono recato ad osservare l’allenamento di un gruppo di ragazzi autistici che si allenavano a basket.
Confesso che fossi un po’ dubbioso, prima di trovarmeli di fronte, che corrispondesse al vero quanto mi aveva raccontato una psicoterapeuta e docente di Psicologia, che aveva da poco conseguito il Master in Psicoanalisi Multifamiliare, Valeria Grillo. A conclusione del suo iter formativo, aveva proposto la costituzione di un Gruppo Multifamiliare con un gruppo di pazienti dello spettro autistico e i loro genitori ed io ero andato a farmi un’idea della situazione.
I ragazzi in questione, negli ultimi anni, avevano cominciato ad allenarsi nella pratica di questo difficile sport di gruppo.
Le mie riserve sono ben presto svanite di fronte ad un’organizzazione pressoché perfetta: un gruppo di volontari, costituiti da studenti liceali formati allo scopo nello spirito dell’alternanza scuola-lavoro, affiancano i ragazzi autistici, uno ad uno e il grande gruppo che ne scaturisce inizia ad allenarsi.
Il tutto avviene dopo che la squadra giovanile di pallacanestro di Frascati aveva concluso il suo allenamento ufficiale.
Ogni volontario studente liceale si affianca ad un autistico e iniziano, in tandem, a compiere una serie di movimenti tipici del gioco del basket, per cui io sfido un osservatore, intervenuto, casualmente a metà allenamento, a capire che cosa si stia trovando di fronte. Non credo risulti facile, infatti, distinguere quale tra i due sia lo studente volontario e quale l’autistico e, complessivamente, quanto differiscano il gruppo della squadra ufficiale di pallacanestro giovanile da questo grande gruppo di volontari e autistici.
E’ vero che questi ultimi non giocano una partitella di allenamento, anche se stanno facendo di tutto per raggiungere questo obiettivo, ma si occupano di passarsi l’un l’altro la palla di corsa, mimando una possibile azione, di tirare secondo schemi diversi a canestro, di saltare per recuperare il pallone sotto canestro e così via, quasi nello stesso modo in cui avrebbero fatto i giovani componenti della squadra giovanile ufficiale se si fossero allenati a fare quelle stesse cose, propedeutiche a giocare una partita vera e propria.
Tutto ciò è preceduto da una riunione breve in cui volontari e autistici si incontrano sotto l’occhio vigile di due esperte coordinatrici che, da lì in poi, partecipano alle attività del gruppo, per coordinare l’effettuazione di tutti i movimenti previsti e “parare” tutte le possibili sbavature, peraltro quasi inesistenti, per lo meno ai miei occhi.
Man a mano che tutto ciò si verificava, mi è stato raccontato, di alcuni ragazzi oggi molto più sciolti in relazione agli incredibili progressi effettuati rispetto alle condizioni in cui erano all’inizio dell’esperienza.
Come a dire che oggi sembrano quasi tutti sullo stesso piano ma che, all’inizio, parecchi di loro, ognuno a modo suo, erano alle prese con le difficoltà tipiche che questo tipo di patologia propone e che solo lo sforzo inesauribile in primo luogo di loro stessi, nonché dei volontari e dei coordinatori che li accompagnano nell’esperienza, ha reso possibile il “miracolo” che mi sono trovato di fronte.
Nel corso dell’azione appena descritta, si è anche verificato un episodio direi emblematico del tipo di problemi che si verificano in queste situazioni. Il ragazzo autistico meno in grado di eseguire i movimenti coordinati con il suo partner al pari degli altri, ad un certo punto ha ulteriormente rallentato i suoi già difficili movimenti.
Una delle due coordinatrici si è prontamente affiancata a lui e al padre che aveva già raggiunto il figlio; ha cercato di rincuorare il ragazzo e gli ha chiesto che cosa preferiva fare: se seguitare a restare e fare quello che si sentiva oppure se preferiva interrompere l’allenamento e tornare a casa. A quel punto il ragazzo ha risposto che preferiva restare ma il padre ha deciso che il figlio si stava stancando troppo e che era meglio se tornavano a casa.
A conferma che le preoccupazioni dei genitori a proposito dei pericoli che possa correre un figlio autistico che si sforzi di seguitare a far parte del gruppo dei pari, anche se non con poche difficoltà, possono facilmente aver ragione dello sforzo del figlio a cui non resta che la possibilità di accettare la decisione conservativa del genitore, anche se a malincuore.
Ora il proposito è quello di arrivare ad ipotizzare l’apertura di un gruppo di riflessione che comprenda i pazienti, i familiari e gli operatori, proprio allo scopo di avviare una verifica sulla definizione di quale sia il limite a cui un ragazzo con difficoltà autistiche possa avvicinarsi o meno. In particolare, se la misura del limite vada presa tenendo conto delle esigenze di entrambi: genitore e figlio o se, viceversa, sia sempre meglio avere come unico punto di riferimento l’ansia del genitore rispetto ai pericoli che può correre il figlio.