In data 23, 24 e 25 novembre scorso, si è tenuto il Congresso della Società Italiana di Epidemiologia Psichiatrica, a Bologna. Nel corso di esso, è stato proposto un quadro di luci e ombre a proposito della residenzialità in Italia.
Da un lato è stata riproposta la grande difficoltà di identificare forme di lavoro confrontabili, nel senso che il modo in cui ogni regione si muove e i conseguenti dati raccolti, sempre che lo siano, non permettono di arrivare alla definizione di un quadro chiaro della situazione complessiva, in particolare per quanto riguarda le Residenze.
Nonostante ciò, bisogna dare atto che il numero di posti letto presenti in Italia, sia per pazienti acuti che per quelli meno acuti e per quelli cronici, si aggira intorno ad un terzo del numero che, mediamente, è tutt’ora presente nei paesi europei.
Come a dire che, tutto sommato, in Italia, dopo la chiusura degli Ospedali Psichiatrici, si è messo in moto un movimento che è riuscito, con molta creatività e con pochi mezzi, a fronteggiare la malattia mentale grave senza le mura protettive del Manicomio.
Non possiamo certo dimenticare, al proposito, che la situazione attuale in cui le “risorse” sono sempre più scarse, stia diventando sempre più drammatica. Ormai si comincia a verificare il fenomeno che un CSM non abbia la disponibilità di uno psichiatra se non per poche ore la settimana e che ciò non ha portato alla chiusura del Servizio ma alla sua attuazione in condizioni disagiate.
Vorrei, però, tornare alle Residenze e alle sue varie forme, il cui modello di intervento è legato, principalmente, allo stato del paziente: se sono per pazienti che hanno avuto una crisi e sono in fase di recupero, magari stabilizzati farmacologicamente oppure se appartengono al gruppo dei cronici. Nel primo caso, le Residenze sono per pazienti giovani e sub-acuti. Perciò dovranno avere un’impronta marcatamente psicoterapeutica. Per quanto riguarda i pazienti per i quali si prevede con più difficoltà una capacità evolutiva o addirittura per cronici, l’impronta della residenza sarà prevalentemente se non unicamente riabilitativa.
In realtà, questo tipo di orientamento, tendenzialmente rivolto a pensare l’intervento come qualcosa che si effettua nei confronti del paziente, a cui si chiede di fare quello che viene ritenuto “giusto” dagli operatori pervadeva prevalentemente le relazioni che si sono succedute, lasciando tutto sommato poco spazio alla descrizione di una impostazione alternativa, in cui si punta a capire da che cosa dipendano i problemi del paziente e a trasformarlo nell’attore principale della sua cura.
Io ho avuto la sensazione che prevalesse un’impostazione psichiatrica classica piuttosto che una psicoterapeutica. E ciò mi ha lasciato molto perplesso. Anche perché il Congresso si è concluso su una considerazione che io ho trovato centrale: che una delle cose importanti è costituita dal poter disporre di operatori orientati alla “recovery”.
Ma, allora il punto è: come si fa a rendere gli operatori orientati alla “recovery” del paziente.
Attraverso quale tipo di formazione ciò può risultare possibile?
Possiamo seguitare a pensare al paziente come a qualcuno di cui si registrano i sintomi, si formula una diagnosi, si stabilisce una terapia farmacologica e si imposta un programma riabilitativo sulla base delle considerazioni che si vengono formando nella mente degli operatori oppure alla base del futuro intervento, da parte degli operatori, non può non essere preso in considerazione il modo in cui i pazienti soni invischiati in relazioni simbiotiche con uno o entrambi i genitori e che potrebbe essere utile impostare un intervento che renda identificabile il quadro della situazione relazionale nella quale il paziente è inserito a casa, che tenderà a portare con sé al momento dell’ingresso nella residenza e con il quale non si potrà non fare i conti durante la sua permanenza presso la struttura stessa?
In altre parole: l’unica strada dell’intervento è quella prevalentemente psichiatrica oppure quella che prevede un’impostazione psicoterapeutica di tutta la residenza, che uniformi, nel suo complesso, la sua attività al suo interno, in questo senso, da parte d i tutti gli operatori?
Nel primo caso, è sufficiente la preparazione psichiatrica, purtroppo con i risultati abbastanza insoddisfacenti che emergevano generalmente dalle situazioni. Nel secondo, è necessario formulare un intervento che, da un lato permetta la presa in considerazione dei fenomeni patologici che si sono costituiti tra i pazienti e i genitori e che sono alla base dell’insorgenza dei problemi di salute mentale, dall’altro che permetta a tutti i tipi di operatori presenti nella residenza di partecipare ad un lavoro di elaborazione delle tematiche patologiche, che contribuisca altresì alla individuazione delle linee di intervento nella residenza stessa.
Sto parlando della necessità di dare luogo ad un sistema di formazione sul campo che permetta il raggiungimento di entrambi questi obiettivi: da un lato, la chiarificazione della situazioni delle relazioni patologiche presenti nella famiglia di origine e che, inevitabilmente, il paziente riproporrà nel rapporto con gli operatori, dall’altro un processo di rielaborazione continua dei modi di interagire tra pazienti, genitori e operatori che conduca ad una operatività condivisa tra tutti gli operatori, in cui i pazienti e i familiari non siano più identificati come controparte ma come attori dei processi trasformativi altrettanto se non più attivi degli operatori stessi.
Commento di Giovanni Giusto
Concordo con l’analisi di Andrea Narracci.
Un intervento di cura per pazienti psichiatrici gravi non può prescindere da una formazione psicoterapica che permetta di:
Instaurare una relazione autentica.
Dare un senso indirizzandola al fine di ridurre la sofferenza del paziente.
Permettere che abbia un significato, ovvero, che consenta alla persona di farla propria come punto di riferimento futuro.
Tutto ciò prescinde dal dove e quindi la smetterei di enfatizzare la residenzialità perché penso che il farlo dimostri il limite di un intervento che ha nel “posto letto” il suo focus principale.
Lungi da me sostenere che il luogo dove si svolge l’intervento non abbia una sua importanza, anzi, sarebbe come sostenere che un chirurgo può prescindere dalla sala operatoria, ma tale luogo deve essere armonizzato con il progetto terapeutico individuale dichiarato prima e verificato durante.
Il detto dal fatto è discriminato dal dato: ho avuto più volte occasione di sostenere e concordo con Andrea che i dati mancano clamorosamente per cui non mi stupisco che via via i centri di salute mentale si sono svuotati ma non solo di psichiatri; prevalentemente di senso.
Il nostro gruppo negli anni ha prodotto l’OIDA system (dal greco vedere per conoscere), che consente di monitorare l’andamento del processo, di individuare le funzioni terapeutiche e misurare gli esiti del lavoro fatto insieme al paziente.
Vedrem.
Commento di Carmelo Conforto
Cari Andrea e Gianni, sono da circa 50 anni convinto dell’indispensabilità della presenza in tutti gli operatori psi (infermieri, medici, psicologi, mammiferi a 4 zampe) di una dimensione, emozionale in partenza, che si tradurrà nella scelta psicoterapica nelle sue varie trasformazioni, dall’analisi personale allo “stare” con il pz..-bambino, all’abbandonare il bambino, al farmaco-olio di ricino, al rinunciare a prigioni moralistiche per affidarsi alla verità dell’etica personale. In alte parole, raggiungere le emozioni che sono in gioco in noi, negli operatori per raggiungere quelle del paziente. Leggere la fiaba, la narrazione, come suggerisce Ricoeur, che intravediamo nei modi del nostro relazionarci… o che traduciamo all’operatore che chiede conoscenza, onde permettergli di compiere questa trasformazione che da vita al cammino psi.