Un gruppo di giovani operatori psichiatrici ha chiesto un incontro con il Presidente della Società di Psicoanalisi e con altri prestigiosi esponenti della SPI.
Da parte degli psichiatri, si trattava di capire se la Psicoanalisi, con il suo apparato tecnico scientifico, fosse in grado di permettere l’apertura di una riflessione feconda su come arricchire la propria prospettiva d’intervento psichiatrico.
I giovani psichiatri si sentivano schiacciati dal peso del mandato di cura e di gestione del controllo sociale, a cui si sentivano sottoposti e chiedevano, pertanto, l’apertura di un canale di confronto che avrebbe potuto rimanere occasionale o, eventualmente, si sarebbe potuto ripetere.
Tutto ciò sarebbe dipeso da come sarebbe andato questo “primo incontro”. L’incontro a cui ho partecipato è stato molto impegnativo.
Gli psicoanalisti erano in loco all’ora prevista, i giovani psichiatri sono giunti pian piano ed hanno “giustificato” il ritardo in relazione all’affaticamento che avevano accumulato il giorno precedente, in cui essi avevano proposto di parlare di due casi clinici molto complessi e molto attuali e ciò li aveva notevolmente affaticati.
Con il passare dei minuti è risultato evidente che “sentire di cominciare ad entrare in ballo nei rapporti terapeutici” da parte loro, era stato sentito come una forma di coinvolgimento a cui non erano preparati. Perciò è risultato molto impegnativo.
D’altronde la Psicoanalisi moderna propone proprio questo: che il terapeuta faccia parte del “campo di intervento” e che gli operatori, pertanto, non possano pensare di sottrarsi al contatto con la sofferenza, seguitando a guardare i fenomeni che si manifestano davanti ai loro occhi come appartenenti ad altri, con cui loro non hanno nulla a che fare.
Viceversa si tratta di accadimenti che assumono “forma” all’interno di una relazione terapeutica tra il paziente e l’analista e che proprio dall’evoluzione di quella relazione possono trarre giovamento.
Alcuni degli psicoanalisti sono rimasti ad una certa distanza dai giovani psichiatri, pensando di poter spiegare loro che cosa avrebbero dovuto pensare e fare con i loro pazienti, altri, al contrario, hanno preferito interagire con i loro smarrimenti e con le loro sofferenze, hanno costruito una situazione in cui gli psichiatri si sono sentiti presi in considerazione e capiti. Ciò ha prodotto la possibilità che essi raccontassero dei sogni che avevano fatto la notte che aveva preceduto l’incontro.
Da essi emergeva, da un lato, che era stato messo a loro a disposizione troppo nutrimento, che avevano incontrato difficoltà ad assumere e a cercare di digerire, dall’altro, che imparare ad entrare in gioco ampliava in maniera notevole le proprie capacità terapeutiche, ma che è un esercizio delicato e complesso, a cui è necessario preparasi molto seriamente.
E’ così emerso, con tutta la sua capacità eversiva, uno dei messaggi che la Psicoanalisi è in grado di esprimere: è illusorio pensare di partecipare ad un incontro con l’altro, prendendo in considerazione l’altro e la sua evoluzione indipendentemente dalla relazione che instaura e conduce con il suo terapeuta-operatore.
Anche noi facciamo parte del “campo” e abbiamo il dovere di non dimenticare, strada facendo, che è giusto interagire e riflettere sull’evoluzione dell’interazione, oltre a riconoscere i sintomi, orientarsi verso una diagnosi, usare i farmaci appropriati nella quantità consona, far partire da subito la riabilitazione nelle patologie gravi, etc. etc. Insomma utilizzare tutto l’insieme delle misure psichiatriche a cui, però, può essere aggiunto, come sigillo, proprio la costruzione e lo svolgimento, nel tempo della relazione terapeutica.
Condivido le parole molto sagge!
L’incontro fra psichiatria e psicanalisi è un capitolo interminabile, tanto che sarebbe futile cercare di elencare degli Autori. Non c’è dubbio che sia stato anche un rapporto tormentato e ricco di ambivalenze reciproche; ma tuttavia la psichiatria non sarebbe quella che è se non avesse incontrato anche la psicanalisi. Pensare psichiatria nella consapevolezza del suo fondamento relazionale richiede anche l’apporto di un modo di pensare psicanalitico.
Eppure quella che ci porta Narracci ha quasi il sapore di una esperienza pilota, non vissuta senza resistenze. Parte dei giovani psichiatri coinvolti arrivano in ritardo al secondo incontro, perchè il primo li ha affaticati! Certo, positivo segno di coinvolgimento; ma anche, diciamo così, di scarso allenamento ad esso.
Ciò, credo, pone il problema del ruolo che una dimensione importante come la comprensione psicanalitica ha nella formazione dello psichiatra: non può trattarsi, evidentemente, di un approccio meramente nozionistico; e affidarsi solo a iniziative sporadiche pur se belle come questa difficilmente può bastare. Cosa sta accadendo oggi, di fatto, nelle scuole di specialità? fatte salve, evidentemente, le differenze fra le diverse sedi? Qualche esempio positivo lo ricordo.
Con emozione e speranza ho letto il tema che Andrea Narracci (ri)propone, commentando il drammatico incontro tra psicoanalisti e psichiatri.
Ovvero, la ineludibile convinzione che “il campo d’intervento” del lavoro psichiatrico non ammette il sottrarsi dell’operatore dal contatto-coinvolgimento con la sofferenza psichica del paziente. Giustamente Andrea ricorda che gli accadimenti assumono forma (significato) all’interno di una Relazione Terapeutica, necessitante d’una esposizione emotiva per la quale è necessaria una sufficiente “preparazione”.
Questo hanno chiesto saggiamente, inesorabilmente, i giovani psichiatri: dopo che tanti anni fa all’innamoramento tra psichiatria e psicoanalisi accadde un dirsi addio di cui fui testimone addolorato.
Perché per almeno vent’anni avevo, psichiatra-psicoanalista, lavorato con specializzandi in psichiatria in piccoli gruppi votati ad un primo incontro con la percezione, il riconoscimento delle personali rivelazioni della presenza di un mondo conflittuale inconscio che li avrebbe accompagnati in vari modi nell’incontro con il paziente.
Mi piacerebbe si ripartisse anche da qualcosa di simile, che coinvolga psichiatria e conoscenza non solo teorica del “mondo interno” e delle sue fratture…
Mi fermo, so che quello che scrivo è oggi in gran parte oblio.
Ricordo e poi taccio che un mio lavoro: “Gruppi: quello che penso”, pubblicato su “Il Vaso di Pandora online” nel 2013, propone specificamente questi temi ed esperienze.
Parlando di esempi positivi pensavo proprio a quella di Carmelo Conforto, nell’Università e poi in Redancia
Caro Pasquale, devo essere grato a primari come sei stato tu, Calderaro, Guelfi e poi tutti gli operatori delle Comunità Redancia: un particolare ringraziamento a Gianni Giusto e Roberta Antonello