Avevo scritto di Giolitti. Nel tema del mio esame di maturità.
Quando l’avevo studiato, mi aveva colpito una sua dichiarazione: “Agli uomini politici che passano dalla critica all’azione, assumendo le responsabilità del governo, si muove spesso l’accusa di mutare le loro idee; ma in verità ciò che accade, non è che essi le mutino, ma le limitano adattandole alla realtà e alle possibilità dell’azione nelle condizioni in cui si deve svolgere necessariamente”.
Ero impegnata a capire come e cosa volevo diventare. Stavo cercando di trovare l’equilibrio tra ribellarmi e adattarmi.
Ogni anno, da quell’anno, leggo le tracce proposte per l’esame di maturità domandandomi di cosa scriverei.
Anche quest’anno.
Avrei scelto Moravia. E il suo “Gli indifferenti”.
Moravia ha scritto quest’opera, il suo romanzo d’esordio, nel 1925, che non aveva ancora 18 anni. E lo ha fatto durante la sua permanenza a Bressanone, dopo il ricovero all’Istituto Codivilla di Cortina a causa della tubercolosi ossea di cui soffriva sin da bambino. Una condizione che, nel romanzo, si esprime nella scelta di ambientarlo interamente in spazi chiusi, siano essi gli interni di una casa o di una città sotto la pioggia contemplata dai finestrini di un’automobile. La sensazione di oppressione e di prigionia che ne deriva, rappresenta simbolicamente il rapporto che i protagonisti hanno con la realtà: incapaci di volere e di viverla autenticamente. Incapaci di appropriarsene e di modificarla. Gli indifferenti raccontano la degenerazione di un’umanità non più capace di grandi ideali, raccontano la storia dell’indifferenza come condizione esistenziale. Moravia, a non ancora 18 anni, critica la condizione borghese degli anni Trenta del Novecento, schiava dei valori del denaro e del sesso.
E lo fa, raccontando di due figli, Carla e Michele, incapaci di reagire alla condizione di fallimento economico e morale in cui versa la famiglia. Personaggi, che insieme agli altri del romanzo, sono del tutto in balia degli eventi, incapaci di comprendere e di vivere la realtà, o di farsi artefici in qualche modo del proprio destino. Sono amorali, apatici e del tutto insensibili a quello che fanno o vivono; caratterizzati da una indifferenza nei confronti del mondo e della realtà circostante, sentimento che sfocia in una profonda accidia ed inettitudine vitale. L’intera esistenza è insignificante. Le vicende narrate è come se ci mostrassero il passaggio dall’immaturità adolescenziale all’età adulta, che per Moravia si cristallizza nell’amara accettazione della realtà per quello che è, abbandonando la speranza di un cambiamento.
Se da una parte, con il suo romanzo, Moravia mostra tutta la sfiducia nei confronti dell’uomo, dall’altra, mi piace pensare che la sua grande lezione stia nell’atto di scrivere. Come tentativo di andare al di là di quello che sembra immutabile. E per questo ringrazio chi lo ha scelto, per l’esame di Maturità.
La creatività come risposta all’inettitudine.
Come facciamo noi, con il Vaso di Pandora.
Come mi viene da fare, ogni volta che mi scontro con una realtà che non è lontana da quella descritta da Moravia.
Scrivo. Leggo. Penso.
A chi mi dice che ultimamente scrivo soltanto di libri, rispondo con una citazione di Alessandro Baricco, a proposito del senso del narrare.
“Scrivere è fare cose che la gente possa utilizzare, di solito qui l’obiezione è quella che si scrive per esprimere sé stessi non per dare alla gente degli strumenti da utilizzare. La capisco, ma mi ostino a registrare che per molti di noi, scrivere resta soprattutto legato al desiderio di allestire oggetti che si possano tenere in mano, portare alla bocca, mettere in tasca, dare in mano a un figlio”.