Il 21/12 scorso si è svolto un incontro on line sul tema “tempo”, riferito in particolare alle sue declinazioni nell’area psichiatrica: da un lato nel mondo della psicosi, dall’altro nella terapia e nei suoi momenti residenziali.
L’incontro è stato coordinato da Gianni Giusto e Francesco Bollorino. Questi lo ha introdotto con qualche nota sui concetti di passato e di ricordo, su come siano fatti di dati secchi, fatti e date, arricchiti dal dato emotivamente pregnante del passar del tempo; e sulla sospensione di questo nelle condizioni di detenzione.
CLAUDIO STABON, Manager, ci ha offerto una dimensione interdisciplinare, parlando dei vincoli temporali imposti nel suo lavoro (e non solo) in un’ottica di rendimento, incrementato dalla attuale disponibilità di tecnologia. Ciò, anche in un raffronto con altre culture non dominate come la nostra dall’orologio e da sincronismi imperativi; mentre nella nostra imperano anche entità temporali “occulte” quali i nanosecondi, che sfuggono alla nostra possibilità di esperirle.
GIOVANNI GIUSTO ha parlato del tempo dedicato al lavoro di cura, distinguendolo in specifico e aspecifico, e comunque impiegato in interventi terapeuticamente mirati: specifico è quello impegnato in psicoterapie, altre terapie particolari e attività gruppali organizzate, non puramente ricreative. L’aspecifico è quello dello stare insieme, del fare insieme, del gioco, dell’intrattenimento: non meno qualificato, non meno importante, e particolarmente caratterizzante la Comunità Terapeutica. Fra parentesi, credo che oggi si richieda una riflessione su cosa è propriamente una Comunità Terapeutica: il criterio non può essere una adesione letterale al tipo di struttura originariamente indicata dal termine, nato in un contesto ben diverso e indicante una possibile alternativa a quella residenzialità manicomiale che oggi non esiste più; ciò che lascia spazi ben più ampi a una residenzialità terapeuticamente mirata (con quale aderenza a quali modelli? Discorso che credo ancora aperto).
Il tempo perso – prosegue Gianni Giusto – è caratterizzato dalla difficoltà di fare interventi appropriati per scarsa capacità di accoglienza e di rispetto dell’ecologia mentale dell’altro, che si concretano in intempestività degli interventi e in errori di valutazione dei ritmi temporali. Peggio il tempo sprecato: quello vissuto in modo meccanico, arelazionale, centrato su sé stessi. Quel che conta è il ritmo della vita comunitaria, nel suo equilibrio dinamico fra cambiamento e regolarità ripetitiva.
A me pare che quest’ultima indicazione molto concreta si riallacci alle riflessioni teoriche sul tempo, in cui tutto si ripete ma tutto cambia. Nel mondo esterno è presente una circolarità, come nell’orologio o nei ritmi stagionali; ma anche cambiamenti irreversibili, a quanto ne sappiamo, come nell‘espansione dell’universo. Stessa dialettica nel mondo interno, nei temps vecu di Bergson e Minkovski: stati d’animo e momenti esperienziali si ripresentano, ma non sono mai proprio gli stessi. E nella storia: i corsi e ricorsi storici vichiani non ci ripropongono gli accadimenti in modo identico a sé stessi.
In piccola parte, ciò vale anche per il mondo psicotico, in cui tuttavia la ripetitività tende a prevalere inesorabilmente: è quel che chiamiamo cronicità, con cui possiamo confrontarci agendo proprio, come suggerisce Giusto, anche agendo sui ritmi temporali della Comunità, sul tempo in termini di possibilità e di progettazione; e ricordando che il tempo è legato agli affetti, anche in quanto effimeri.
MAURIZIO PECICCIA ci ha offerto una importante riflessione sul senso del tempo nella Comunità Terapeutica, anche con riferimenti ad Autori classici come Minkovski e contemporanei come Stanghellini. Negli psicotici, la vita sociale è condizionata anche da anomale esperienze temporali; c’è una disarticolazione dell’esperienza del tempo, con turbe delle integrazioni passato – presente – futuro, e anche della normale esperienza del sogno chiaramente alternato al contatto col reale che è proprio dello stato di veglia: per Bion lo psicotico non può addormentarsi né svegliarsi, né propriamente sognare.
La turbata esperienza del tempo è connessa a un disturbo dell’esperienza del sé; infatti questo per Winnicott è consecutivo a carenze della Holding, attività materna che ha un suo ritmo temporale. Se è in qualche modo insufficiente, ne seguono difficoltà della continuità temporale dell’esistenza: ed è compromessa la normale sensazione che qualcosa resta della madre, pur temporaneamente assente.
All’inizio il lattante non è inserito nel tempo; dopo, è il seno a marcare il tempo iin modo molto significativo, poiché la sua presenza fa riconnettere con il tempo prenatale: è un “tempo-me”, Kairos; favorisce il divenire sé stesso nel tempo (going on being), mentre il tempo “out of me”, Chronos, è portatore di angoscia di morte. Invece il Kairos, tempo- me, adeguato a me, che non scorre rigidamente, è “al di là della morte”. Importante tenerne conto nel lavoro in Comunità terapeutica, dove vanno inseriti momenti kairos, tempo – me, cuciti sui bisogni del paziente e sui flussi temporali che gli sono propri.
Nel suo successivo intervento a conclusione dell’incontro, Peciccia ci ha parlato del desiderio di annullare il tempo dello psicotico; e questo mi sembra un punto fondamentale. Se per il paziente psicotico il tempo è fondamentalmente Chronos, distruttivo come il Chronos mitologico, è plausibile che cerchi di arrestarlo, rifiutando prospettive di cambiamento: è questa una delle fonti della cronicità.
A questo proposito mi sembra ancora fruttuoso ricordare il Binswanger di “Tre forme di esistenza mancata”, dove “c’è un arrestarsi, un giungere a una fine dell’autentica mobilità storica dell’esistenza”. In particolare, già il termine’“esaltazione fissata” indica un “fissarsi” a qualcosa, una incapacità di andare oltre. Questa è una metafora spaziale, poichè caratterizza l’esaltazione fissata la sproporzione fra grande altezza della problematica – l’intensità ed esclusività con cui la si vive – e la ridotta ampiezza dell’esperienza. Ma è evidente l’importante dimensione temporale.
Nel delirio schizofrenico, assistiamo all’ancorarsi indefinitamente a un insieme di pensieri immodificabili, con la fine dell’autentica mobilità storica. Non si è più in grado di aprirsi ad un altro futuro.
Fondamentale la precisazione: “Questi studi hanno come punto di partenza la descrizione clinico – psichiatrica della sintomatologia e decorso di alcuni casi di schizofrenia, ma come scopo la comprensione antropoanalitica di questi casi in quanto modificazioni generali dell’esistenza umana…..” Di fatto, Binswanger ha trovato lo stimolo a questa riflessione nel dramma di Ibsen “Il costruttore Solness”, col protagonista spinto da una intensa ambizione al successo, realizzata ma al prezzo di dimenticare troppe altre cose importanti: è turbato il rapporto fra la capacità di salire e la capacità di costruire.
Mi appare chiaro il potenziale antiemarginante di una impostazione che senza negare la realtà della follia ne evidenzia i connotati “semplicemente umani” in un’ottica antropoanalitica; ottica che fortemente ha contribuito al costruire nuove prassi di cura.
CATERINA VECCHIATO delinea il rapporto fra il tempo (storicamente) vissuto e l’istante presente, rilevante sempre e particolarmente pregnante nel rapporto di terapia. Indica il suo rapporto col desiderio, citando il fisico Carlo Rovelli, che conferma come il tempo abbia a che fare con la nostra vita emotiva. E ciò mi fa ripensare ad Agostino: se in futuro è null’altro che attesa, questa è anche speranza, spinta desiderante. Lamente – prosegue Caterina Vecchiato – è in continuo movimento, ma sono possibili momenti di calma, in cui ci si ferma.
Questi sono momenti propizi alla creazione artistica, o da essa propiziati. Vecchiato si occupa delle arti figurative, sicuramente le più idonee a “fermare” visivamente il tempo: ciò particolarmente pregnante in certe opere del Caravaggio che che fermano una azione. quasi precorrendo le moderne istantanee. Ma aggiungerei che ciò in qualche misura ciò è vero anche per le altre arti: la letteratura ferma il momento in una descrizione verbale; il brano musicale certo si sviluppa nel tempo, ma in un tempo ben delimitato e caratterizzato da una certa circolarità dei temi.
Il futuro, diceva Agostino, è attesa; e Caterina Vecchiato ricorda la difficoltà dei pazienti di sostenere una attesa. Anche Heidegger insegna che il tempo c’è solo in relazione con esseri umani; e, aggiungerei, in termini di possibilità e di progettazione. Proprio perciò nei trattamenti è importante inventarsi un racconto: il racconto ferma un momento ma ha uno sviluppo. Il tutto sullo sfondo di un Abitare, di un ritmo di vita insieme.
L’intervento si conclude col richiamo a due situazioni cliniche. In una, con gravi carenze e risposta psicotica, si registra un tentativo di recuperare un ritmo attraverso una storia di accettazione della storia comunitaria. Nell’ altra, c’è il problema di identità di una persona che entrava in Comunità, con desiderio di aiutare gli altri.
RAFFAELE VISINTINI ha parlato dei borderline, con riferimento alla sua esperienza in Comunità dedicate. Per loro il tempo è un luogo che dovrebbe essere di significati o, al contrario, di assenza di significati, condizioni decisive ai fini della costruzione di una identità coerente o, al contrario, di quella che Kernberg chiama diffusione della identità (mi chiedo se questo concetto è avvicinabile a quello di cui siamo debitori a Erikson, di dispersione e confusione, peraltro tappa, questa, che nel suo pensiero è fisiologica nell’adolescenza).
E’ necessario sentirsi significativo, essere specifico, caratterizzabile. Il tempo vissuto con gli altri è indispensabile per dare senso e significato agli eventi e a me stesso. Altrimenti il tempo è quello degli altri: io ci sono ma è come se non ci fossi. Da qui nasce il vuoto identitario del borderline, quella diffusione dell’identità che rende instabili, insoddisfacenti e fugaci i rapporti, dominati da una ambivalenza che non raramente prende i connotati della scissione, fra idealizzazione e svalutazione o vero e proprio odio.
“Se io non sono significativo, il t. è solo quello degli altri”. Pertanto, non ci sono veri e propri ricordi nella prima infanzia, al massimo episodi senza continuità. Mi posso chiedere qual è il rapporto di questa carenza e delle sue discontinuità con la pregnanza degli eventi.
Se la persona non ha significato, si sente indegna,non determinabile, vuota: è Nemo, un Nemo la cui ricerca non ha fine come quella o del pesciolino rosso e il cui isolamento è quello del personaggio di Verne . Per saturarsi, ricorre a una fusionalità dolorosa, ulteriore ostacolo alla possibilità di definirsi.
Ne nascono indicazioni operative di base per l’intervento in Comunità Terapeutica: è fondamentale capire quanto la nostra presenza sia significativa per il paziente. E’ importante creare la diversità nelle somiglianze, poter dire “oggi come allora ma diverso da allora”. Ciò ha a che fare con la ricorsività del tempo, col riprodursi di situazioni di rapporto simili ma diverse, rappresentabili non con una linea retta né con un cerchio, ma con una spirale o elica.
Anche ANDREA NARRACCI entra nel rapporto fra tempo vissuto nella relazionalità e costruzione dell’identità, con prevalente riferimento teorico all’insegnamento di Garcia Badaracco. Egli sottolinea come per il paziente psicotico o borderline il tempo tenda ad essere circolare e ripetitivo. Ciò è collegato a una identità mai costituita veramente, a una incapacità di avere rapporto con sé stessi. Sappiamo che nell’identificazione riuscita noi prendiamo parti dell’altro: certi pazienti non possono accedervi. Una possibile deformazione è che nel tentativo identitario ci si conformi alle aspettative dell’altro, alquanto passivamente ed esteriormente, senza coglierne lo spirito. In questo impegno sempre frustrato e frustrante, si istituisce una circolarità. Ciò mi richiama alla mente il concetto sviluppato da Meltzer di identificazione adesiva, con incapacità di prendere dall’altro qualcosa di essenziale, tollerando le inevitabili differenze.
Ne nascono indicazioni per il lavoro in Comunità Terapeutica: deve partire dal rispetto del vissuto del paziente, lavorando su ciò che egli si porta dietro in rapporto con ciò che la C.T. può offrire. Possibili difficoltà non preventivabili, che rompono il tempo non ripetitivo, possono essere occasione di cambiamento. Vanno introdotte possibili interazioni significative, avverse ai vissuti di disconferma che alimentano rimandi patologici.
Occorre dunque rompere il tempo circolare che pare non lasciare vie d’uscita, offrendo opportunità di un “new beginning”; interferire nel bagaglio personale del paziente, introducendo interazioni significative che gli facciano sentire che è tenuto; cogliere i momenti di dissonanza, fecondi in quanto, credo, possono aprire prospettive diverse e fino allora “non pensate”.
A me pare stimolante, anche se certo non necessario, ricordare che il complicato rapporto del cambiamento con circolarità e ripetitività del tempo non riguarda solo il mondo psicotico. La circolarità è fortemente presente nel mondo esterno: nell’orologio, nei moti dei pianeti Terra inclusa, da cui la circolarità delle giornate e delle stagioni. Ma è presente anche in certe attività somatiche che quanto meno hanno importanti riflessi sul tempo vissuto: il respiro, i battiti cardiaci, il sonno… C’è una circolarità nelle nostre giornate e nelle nostre annate. E nella riflessione storica, alla idea di “progresso” si può contrapporre quella vichiana dei “corsi e ricorsi storici”. Forse alla nostra vita meglio si applica l‘immagine della spirale: “oggi come allora ma diverso da allora”: particolarmente vera in un’ottica psicanalitica che riconosce la persistenza di un passato nel presente; ma di un passato necessariamente diverso. Per il paziente in Comunità una certa forma di circolarità è necessaria e rassicurante, come per tutti noi: ma dovrebbe lasciare la porta aperta ai cambiamenti.
Esemplare nell’intervento di ROBERTA ANTONELLO il forte rapporto con la prassi di cura, che in tutto il suo lavoro è stata sostenuta da una preparazione tecnico-culturale acquisita anche nella fervida atmosfera pavese, e coniugata a un impegno affettivo fatto di vicinanza e perseguimento di una condivisione. Agli antipodi di ogni atteggiamento trionfalistico, ci ha parlato di sofferenze e difficoltà: del “tempo fermo della non relazione” che più di una volta ha visto l’operatore disperato come il paziente: di un tempo fermo, che immobilizza entrambi: potremmo definirlo il “manicomio interno”, in passato fondamento di quello fatto di muri e cancelli. Certo questa condizione non si può chiamare “attesa”, che è invece fatta di speranza.
E’ un momento fortemente depressivo, con la sensazione della inanità degli sforzi: ricordo che nel manicomio – al di là delle scandalose carenze e violenze fisiche – si cercava di evitare la depressione e la consapevolezza della frustrazione tendendo a realizzare una sorta di alleanza perversa fra paziente e operatore, con condiviso riconoscimento della impossibilità di cambiamento. Mi pare che un meccanismo importante fosse – e forse rischia di esserlo ancora – l’identificazione proiettiva, che vede il paziente modificare l’operatore collocandogli dentro parti patologiche di sé.
Al contrario, la depressione – ce lo insegna Bion – è matrice del pensiero, e ce lo ricorda questo contributo di Antonello. La sofferenza legata a una stasi apparentemente inesorabile può alimentare il bisogno di muoversi, cogliendo il “tempo dell’occasione”, quella occasione di contatto che ci possono offrire le circostanze e/o un qualche spiraglio che si apre nella corazza difensiva del paziente ( e magari anche nella nostra).
Aspetti importanti dell’intervento: il tempo del limite, la consapevolezza di esso: saper attendere , non porsi mete irraggiungibili; l’intrecciarsi di fili di emozioni, che consentono di progettare; l’affidare all’altro la responsabilità del suo tempo; non temere un tempo rivoluzionario, che ci scuota da una comoda stasi. E’ necessario che l’operatore abbia consapevolezza delle proprie emozioni, inclusa la noia: ricordo l’importante insegnamento di Zapparoli, su come non solo fronteggiare ma utilizzare la propria noia: anziché esserne preda passiva, capirla come momento controtransferale che può essere illuminante.
MORELLI ci ha portato un testo nato nella attuale pandemia, che ci confronta con finitudine ed estensione: concetti relativi allo spazio, che peraltro è sodale con il tempo e con i suoi cambiamenti.
Fa parlare il tempo: “sono flusso infinito. Non ho direzione, né inizio né fine. Non esisto: mi hanno inventato gli umani” che, da animali finiti, volevano dare un senso alla propria finitudine.
A me ciò fa nuovamente tornare in mente Agostino, che quindici secoli fa ci offriva una lucidissima critica della realtà oggettiva del tempo, con riduzione di questo a una realtà interiore. Così argomentava: Il passato, chiaramente, non c’è più; il futuro non c’è ancora; il presente in senso proprio dura un attimo, scompare il tempo di intuirlo. E allora? Certo il tempo esiste, ma nel nostro mondo interno: il passato è la memoria, il presente è una qualche attenzione, il futuro è attesa (o previsione). E’ uno dei mille modi di considerare il tempo, da Aristotele in qua, ma non certo il più infondato. Comunque Agostino ci avverte: “se nessuno mi chiede cos’è il tempo, io lo so: ma se devo dare una risposta a qualcuno, non lo so più”.
Il tempo immaginato da Morelli si lamenta delle mille violenze e contraddizioni subite dagli umani: la comune locuzione “in tempo reale” vuole annullarlo; lo si considera arbitrariamente come una freccia; lo si costringe nelle definizioni di Kairos e Chronos; lo si inserisce in tante locuzioni reificanti, come“riempire il tempo”.
Ma ci sono momenti in cui un secondo contiene il mondo intero, in un breakdown del flusso ordinario del tempo. : è quello del processo creativo, possibile grazie a una particolare sospensione nel dominio di senso, di apertura di uno spazio “altro” (personalmente, io credo che questo sia il messaggio dei tagli proposti da Fontana); da qui l’originalità. L’ Arte, prosegue Morelli, è risonanza incarnata fra soggetto e mondo, con particolare estensione del mondo interno. E’ una tensione, con sentimento di finitudine implicante il riconoscere i nostri limiti come condizione della nostra generatività possibile; in termini riferibili a Bateson, fa parte dei giochi come sospensione delle regole (ma questa è una meta-regola); è aspirazione a una congiunzione fra tempo vissuto e tempo che scorre.
Grazie per la bella ricostruzione di un pomeriggio molto intenso di pensieri e affetti, suscitati dal parametro forse più problematico della nostra esistenza che abbiamo potuto riprendere dall’interno del percorso terapeutico comunitario . Interessanti sono stati anche gli interventi dei partecipanti come l’accento posto da Monica Canovale al tempo della natura,argomento assai pertinente al tema della cura.