LeggerMente soli
di Marco Massa
La solitudine è intollerabile? Enrico Franceschini ha scritto sabato scorso su Repubblica [Rif. “L’insostenibile pesantezza della solitudine meglio l’elettroshock che meditare”, Enrico Franceschini – 5/7/14] quanto è pesantemente insostenibile per l’uomo (alludendo all’uomo dei giorni nostri) rimanere solo con i propri pensieri citando un recente studio dell’University of Virginia.
Lo studio prevedeva che un gruppo di volontari si sottoponesse a un’esperienza di “solitudine” e “privazione” di strumenti di intrattenimento chiudendosi in una stanza scarsamente arredata per qualche decina di minuti esprimendo poi un voto su quanto provato in una scala da 1 a 9.
Francamente non trovo sorprendenti i risultati dell’esperimento (un voto medio di 4.5) né, tantomeno mi sorprende che molti volontari, laddove era disponibile come unica distrazione la possibilità di sottoporsi a piccole scariche elettriche, abbia scelto tale via.
Chiunque viene “forzato” in situazioni di “deprivazione” sensoriale e/o relazionale non può che provare (prima o poi) disagio e malessere ma questo non significa intolleranza alla solitudine. Personalmente io sarei fra quelli che sperimenterebbero la scarica elettrica (per cortesia, caro Franceschini, lasciamo stare l’”elettroshock” tirato indebitamente in ballo nel titolo del tuo articolo) spinto più da una solitaria curiosità (lo facevo anche da ragazzino con gli accendini piezoelettrici) che non dall’intollerabile solitudine della situazione.
Il disagio (e qui condivido quanto dice Cancrini riportato a margine dello stesso articolo) è generato dalla “forzatura” e dalla “costrizione” in una situazione nuova e disagevole. “L’incapacità a stare soli” e l’affannosa ricerca di stimoli è una naturale (e salutare) modalità di superamento della deprivazione.
L’esperienza di deprivazione è in tal senso una condizione dinamica di instabilità che chiama dei correttivi di adattamento che ripristino l’equilibrio sensoriale e relazionale che è proprio di ciascun individuo. Le perdite, i lutti, i cambiamenti inattesi e improvvisi, il rimaner chiusi in ascensore, ecc. determinano una non desiderata perdita di rapporto con l‘”altro”.
La solitudine pertanto non equivale all’assenza di stimoli (esterni o interni) ma alla capacità di stare con i propri pensieri in assenza dell’altro e nel far questo possiamo usare tutte le nostre risorse: il pensiero stesso, le attività ludiche, domestiche e sportive, i viaggi, la lettura, la TV, le stimolazioni elettriche, le esplorazioni in solitario, la tecnologia digitale, internet, ecc.
Mia nonna ha vissuto felicemente e lucidamente i suoi ultimi vent’anni in solitudine e… parlava con la TV. Avrei dovuto impedirglielo?
raggiunta una boa in mezzo all’acqua, affaticata e gioiosa, mi sdraio indietro e assaporo il salato, la luce, l’azzurro, la lontananza, il silenzio rumoroso. Guardo la spiaggia lontana e mi ritrovo la stessa bambina orgogliosa alla mia prima boa da sola.
Ho patito e goduto la solitudine, mi ha offerto dolori e sicurezze.
Era una boa da passare, ritrovare, riprendere e lasciare.
Ogni commento sulle ricerche comunicate in questo modo è inutile.
Forse, spero, sono più serie.
Grazie del commento all’articolo
Sono d’accordo la solitudine nasce nel momento in cui la gratitudine per l’Altro svanisce.
Stavo giusto concedendomi una delle mie sane pause autistiche giornaliere spaparanzato sul mio comodo lettino quando noto per la prima volta che la tinteggiatura del soffitto della mia camera tende a staccarsi a piccoli pezzi che penzolano minacciosamente sul mio capo.Niente di grave s’intende se non fosse che quelle leggere e innocue scaglie di pittura si sono immediatamente trasformate nella mia fantasia(ma soltanto per frazioni di secondo,tranquilli!)in sinistre e acuminate stalattiti pronte a conficcarsi nella mia gola durante i miei sogni a bocca aperta.Nel corso delle mie elucubrazioni tese a ricaricarmi le batterie interne,mi immagino la nonna di Marco Massa e la sua“ventennale solitudine trascorsa felicemente e lucidamente a parlare con la TV”e ripensavo a quanti di noi si concedono“piccole e grandi torture”quotidiane come quella di farsi mediamente 15 km 2 volte a settimana in condizioni climatiche estreme(sono uno di quelli per la cronaca)per sfuggire alla solitudine o forse per combattere la noia o semplicemente per“esorcizzare la paura della morte”.Ma vorrei soffermarmi sull’involontaria(presumo)ironia scatenata(in me)da questo esperimento(sulla cui“scientificità”mi permetto di avanzare qualche dubbio e nonostante sia stato autorevolmente pubblicato su “Science”)che,udite udite,ci“rivela che l’uomo(o la donna, eventualmente),non sa stare da solo con se stesso”.’Sti Ca…Pardon!Volevo dire:Halleluia!Adesso sì che lo so!Mi chiedo:ma c’era proprio bisogno di un esperimento“scientifico”per“scoprire”ciò di cui quotidianamente facciamo esperienza sulla nostra pelle e su cui dotti,medici e sapienti vari hanno speso nei millenni fiumi di magnifici scritti psicologici,filosofici e letterari?«È una scoperta deludente sulla natura umana»,commenta affranto(immagino)nello stesso articolo tale Jonathan Schooler,psicologo della University of California.Ancora Halleluia!(ma volevo dire quell’altra parolaccia).Mi spiace che il collega psicologo Jonathan abbia avuto contezza di questa realtà in un modo così brutale seppure“scientifico”,ma ormai è adulto ed era tempo che sapesse la verità.A parte gli scherzi!(ma continuo a ridere mentre scrivo,ancor di più dopo l’amara constatazione di Jonathan).Quello che questo“esperimento scientifico”ci ripropone,secondo me,è il riaffermarsi di una concezione epistemologica della scienza tipica di un certo positivismo ottocentesco che guarda all’essere umano come a una “cosa”oggettiva,una“sostanza”quantificabile e scomponibile come i suoi atomi di carbonio.Come si può indagare una realtà complessa come è il sentimento della“solitudine”estrapolandone alcune espressioni comportamentali?Io non capisco,ma rispetto,ovviamente,coloro che pensano di poter sperimentare in laboratorio un fenomeno,la solitudine,di carattere essenzialmente psichico avente origine nell’esperienza autenticamente privata dell’individuo e mai semplificabile totalmente con una verifica sperimentale,secondo me.Poiché la“solitudine”è stata“sperimentata”in laboratorio,allora infine abbiamo la certezza della sua esistenza?La solitudine è una“condizione mentale”descrivibile,concreta,ma ardua se non impossibile,è la sua verifica in un asettico laboratorio dove si deve avere il controllo totale della variabile principale.Di sicuro,nulla questi scienziati ci dicono su come affrontare la solitudine e da cosa scaturisce,eventualmente e su come rispondere al senso di solitudine di un pz.all’interno di un setting psicoterapico.Ma poi con le variabili prese in considerazione hanno davvero inteso“operazionalizzare”il costrutto della “solitudine”?Propongo che ciò che questi studiosi hanno sperimentato non è la “solitudine” dei malcapitati che per sfuggire all’insensatezza della situazione erano disposti persino“a farsi di scosse elettriche”(novelli “Tafazzi”),ma la propria“paura della solitudine” cercavano di esorcizzare.In questa foga sperimentatrice ci vedo il bisogno spasmodico di evitare i loro personali vissuti intollerabili di abbandono tentando di trasformare un concetto indefinito,puramente,viscerale,indeterminato,per sua natura,la solitudine,in un“oggetto”reificato misurabile.Non riuscendo a cancellare questo angoscioso stato d’animo personale hanno pensato bene di misurarlo(così circoscrivendolo)con un esperimento scientifico.Lo schema classico consiste nel circoscrivere le proprie paure per poterle controllare,fondamentalmente.Insomma,non sono contrario all’“esperimento scientifico”in sé a patto però che non lo si spacci come la dimostrazione della presenza di qualcosa che sappiamo esiste già e senza bisogno di una convalida“sperimentale”:la solitudine è sempre stata reale anche prima che la University of Virginia ci spiattellasse il suo“valido”(?)“esperimento scientifico”tacendo,però,l’ovvia constatazione che la solitudine la sperimentiamo tutti i giorni.Intanto alcune schegge di pittura si sono staccate dal soffitto atterrando inesorabili sul mio cuscino.Sigh
Riporto un commento di Emilia Vento che mi ha fatto pervenire..grazie
“Quanta confusione nel preteso esperimento scientifico. Alla base di tutto c’è un fraintendimento: la solitudine è una cosa, l’essere deprivati un’altra. La solitudine è una condizione auspicabile, in certi casi, la deprivazione è sempre sofferenza.
In carcere per fiaccare ogni istinto di ribellione quando questo emerge minando il principio di autorità assoluta e statica, si finisce in isolamento. Una volta, ma non secoli fa, si veniva condotti in una cella nella quale mancavano i mobili (c’era solo un letto inchiavardato a terra) senza nulla. Né libri né quotidiani, ma neanche le sigarette, l’accendino lo spazzolino da denti, le posate, carta e penna. Niente televisione,nessun giornale, nessun contatto con gli altri se non con la guardiana che poteva darti o non darti le posate per lo stretto tempo necessario a mangiare, che ti accendeva la tua sigaretta con il tuo accendino attraverso lo spioncino, che ti dava il sapone per lavarti e l’asciugamano per poi riprendersi ogni cosa al più presto.
Perché questo regime disumano? Erano due le motivazioni che facevano dell’isolamento una pratica torturante: il bisogno di ribadire un’autorità indiscutibile, come ho già detto, e il timore che tanta solitudine inflitta potesse condurre ad un gesto estremo. Per questa ragione non si concedeva di tenere posate o accendino, sapone e asciugamano, piatti e posate, questi avrebbero potuto trasformarsi in strumenti autolesionistici . Si arrivava persino a smontare le finestre e a togliere il materasso se la situazione appariva a rischio. (Timore reverenziale verso la sopravvivenza, disprezzo assoluto per la vita).
Ma a rischio per chi? Non certo per il detenuto che vive rischiosamente ogni attimo della detenzione, sempre sul filo della morte come liberazione, sempre in pericolo, sempre solo anche tra gli altri, per questo motivo, forse, solo lo scorrere del sangue purificatore può dare un certo sollievo. Ecco perché si muore così facilmente, nell’abbandono, in carcere.
Rischio preoccupante invece per l’istituzione, messa eventualmente sotto inchiesta per i troppi suicidi, è la messa in opera di possibili controlli.
Per correttezza devo aggiungere che, in Italia, il periodo di isolamento non poteva superare i quindici giorni consecutivi, ma che si poteva aggirare la norma riconducendo il detenuto in sezione per ventiquattro ore per poi riportarlo giù. Si tornava al piano provati, con occhiaie profonde e il viso segnato dalla sofferenza, si tornava su minati nell’integrità.
Questa è una forma feroce di deprivazione e viene messa in atto proprio perché sia così, che tolga, che violi, che torturi la persona. Meno strumenti si possiedono più è facile cadere in una situazione senza speranza.
Di diversa portata è l’esperimento(?) di cui si sta parlando.
Sperimentare in un laboratorio una solitudine forzata, secondo me, inficia l’esperimento stesso. Cosa hanno detto ai partecipanti? Di aspettare cortesemente qualcuno (che non sarebbe mai arrivato) o che erano sottoposti ad un esperimento scientifico? O cos’altro e come?
Mi immagino in una stanza sola, scarsamente ammobiliata sapendo che sono monitorata e mi metto tranquilla ad aspettare che si riapra la porta, ho il mio patrimonio interiore a disposizione;
oppure: sono completamente all’oscuro, non so di far parte di un esperimento, e sicuramente all’inizio cincischio, passeggio, canterello, ma poi, se nulla avviene comincio a sentirmi prigioniero e divento ansiosa, paranoica.
Qual è l’esperimento? Ma soprattutto non le sappiamo già queste cose? Gli autori dei regolamenti carcerari non sono certo fini psicologi e conoscitori della natura umana eppure sanno bene che meccanismi la deprivazione innesca.
Quanto allo star solo è tutta un’altra cosa. Sono importanti i contesti, gli stati d’animo, le aspettative, i progetti. Sola tra le mie cose è non essere propriamente soli, si può giocare con la propria mente usando come veicolo i nostri oggetti-giocattolo siano essi materiali o non. Sola a godere del risultato sperato è appagante, è refrigerio per la mente, è pienezza. Sola per soddisfare le aspettative proprie o quelle altrui è una sfida che non ammette errori. Sola per raggiungere un obbiettivo è concentrarsi per meglio elaborare, è anche sforzo, è intenso.
Sola nel deserto insieme ai propri demoni è ben diverso dallo star soli nella propria stanza rassicurante o in quella altrui non ostile.
Sola senza convinzione può essere disperante, sola forte della propria identità (che comporta una cospicua dose di solitudine) è non essere mai esclusivamente soli.
Soli nella depressione è essere completamente soli a combattere, è essere pervasi nell’interezza del proprio io da una devastante incapacità di manifestarsi.
Quelli che esprimo sono pensieri vagabondi che appaiono sull’orlo della mente razionale e velocemente si dileguano, sono tentativi di andare oltre ciò che conosco bene: l’isolamento in carcere (deprivazione), la solitudine appagante necessaria all’analisi e all’elaborazione, quella senza scampo della depressione.
Non so proprio come questa specie di esperimento possa essere considerato qualcosa di più di un esercizio di stile nemmeno raffinato. Dov’è la scientificità?
Nell’articolo apparso su La Repubblica, poi, scorgo l’intento di stupire e catturare che è fuorviante rispetto all’informazione ( nel titolo occhieggia ammiccante la parola tremenda “elettroshock”) e non il bisogno di capire e di spiegare.
Non mi piace che vengano contrabbandati come esperimenti scientifici con una loro forza di indagine, a maggior ragione se legati alla psichiatria, brevi escursioni nel mondo della ricerca prive di qualsiasi valore scientifico, non mi piace perché ci tengo alle scienze umane e non e alla ricerca come metodo fondante per superare i limiti e raggiungere risultati.”