“Nessuno è immune dalla falsità. E tu uomo incapace di pronunciare menzogne non credere di poterne essere il miglior giudice”.
“Il pericolo non viene da quello che non conosciamo, ma da quello che crediamo sia vero e invece non lo è”.
Vorrei cominciare col dire che il pregio di certi studi “scientifici” neurofisiologici o neurobiologici risiede per me soprattutto nella loro capacità di dare rilievo a dei concetti forse mai abbastanza sottolineati e che ci sfuggono proprio per la loro apparente prevedibilità.
Queste ricerche sebbene non abbiano ricadute pratiche immediate ci danno l’opportunità di discutere, di confrontarci; da qui possono nascere nuove idee e soluzioni o semplicemente ci abbandoniamo al puro gusto della conversazione, quantomeno.
Perché altrimenti non si capirebbe il senso di stare qui a parlare di certi studi sperimentali di neurobiologia che avrebbero sperimentalmente provato finalmente che “l’occasione fa l’uomo ladro” e “Chi mente ruba; e chi ruba, mente…E chi è bugiardo, è anche ladro e… goloso” e via discorrendo.
E poi uno studio di Neuroscience ci ricorda anzi “ha dimostrato” che si verifica una sorta di adattamento: si innesca un meccanismo biologico di escalation per cui da una lieve trasgressione si finisce per cadere nell’azione disonesta più grave. E qui l’amigdala avrebbe la sua bella responsabilità perché non si attiverebbe a sufficienza per bacchettare il malcapitato gruppo sperimentale. Mi immagino che questo dispositivo biologico di lenta progressione possa essere funzionale – all’indebolimento del segnale di “pericolo morale” -, segnale che si innesca per permettere alle persone una piena consapevolezza e riconoscimento delle implicazioni etiche negative di un comportamento. Infatti, una degenerazione troppo rapida del comportamento fornirebbe subito un chiaro segnale di allarme che i confini etici sono stati oltrepassati, e questo le persone non possono tollerarlo come documentò a suo tempo uno studio di Gino e Bazerman (2009).
Dunque, tale propensione umana a mentire si fonderebbe su uno specifico correlato neurologico a “dimostrazione” biologica ulteriore che siamo “bugiardi morbosi” nel nostro intimo oltre che “geneticamente predoni” nel più profondo, verosimilmente. La natura non è acqua si sa. All’articolo de “la Repubblica” di martedì 25 ottobre 2016 che riporta questo filone di ricerca si è dato grande risalto tanto da meritare gli onori della segnalazione in prima pagina e l’ampio approfondimento nelle pagine interne dedicate all’”attualità”. Quali implicazioni queste nuove scoperte neurofisiologiche e biologiche possano avere concretamente sulla lotta quotidiana contro questa propensione individuale e collettiva a dire bugie o a rubare o sul contrasto alla corruzione o alla concussione, sarà interessante valutare. Forse ci aspettano una nuova generazione di “macchine della verità”? Visto che quelle vecchie hanno dimostrato se non altro che i bugiardi sono proprio quelli più capaci di aggirarle?
Nell’articolo citato sopra il prof. Aglioti neurologo dell’università Sapienza ci ricorda che per vincere il disagio emotivo procurato dall’azione disonesta si ricorre ai “disimpegni morali” come hanno fatto anche i volontari di un altro esperimento da lui promosso. Insomma, “ce la raccontiamo” per ridurre la “Dissonanza cognitiva” o più semplicemente per sentirci meno sbagliati e meno cattivi. Anche qui sembrerebbe tutto molto risaputo ancorché sempre condivisibile.
Adesso non voglio entrare troppo nel merito, non soltanto almeno, delle ricerche in questione perché ormai ampiamente analizzate, ma vorrei utilizzare questo “paradigma di ricerca” biologico, semmai come pretesto per qualche riflessione più ampia, spero pertinente.
Dunque, da più parti si propugna l’idea che la “gente” sia ormai troppo poco attenta ai fenomeni della disonestà perché troppo “coinvolta” in essa; il malcostume e l’imbroglio sono talmente connaturati nella “banalità-normalità” del vivere quotidiano da passare finanche inosservati o nella migliore delle ipotesi si finisce per sottovalutarne semplicemente la reale gravità.
La “gente” che vive quotidianamente piccole e grandi violazioni del “contratto sociale” uscendone alla fine assuefatta o semplicemente sconcertata, non fosse altro perché ne è la più diretta protagonista talune volte, non è ben disposta (mai) a prendere maggiore consapevolezza nemmeno di un tema così “scontato”, atteso, conosciuto, indiscutibile come quello della corruzione e della ruberia dilagante, soprattutto se questo può compromettere l’immagine di sé, e nonostante l’impatto della diffusa “immoralità” sulla vita individuale e collettiva possa essere devastante. Ma è davvero così anche oggi? Non voglio concentrarmi sull’ampia letteratura di psicologia sociale e della cognizione che documenta quanto certi meccanismi di “semplificazione cognitiva” entrino in azione per farci sentire al riparo dalla possibilità di percepire o definire noi stessi come persone immorali.
Il punto è, secondo me, che le immagini di guerre e carneficine o ancora di esperti truffatori e politici venduti con tutto il loro bagaglio di ruberie, corruzione, concussione e ricatti vari al seguito, che si accumulano quotidianamente davanti ai nostri occhi, veicolati da giornali e televisioni, pur nella loro allarmante realtà, non bastano, anzi non servono più a farci sentire persone “per bene”. Beli i tempi in cui mi bastava scoprire la truffa del tal politico per sovrastimare la mia moralità. E si andava avidamente in cerca dell’ennesima notizia di azioni disoneste del dirigente di partito o di confindustria di turno per valutare automaticamente e più positivamente in termini morali il comportamento assunto nel passato e nel presente da noi “umili” cittadini (vedi per certa disamina anche, Moore & Gino, 2013). Oggi è come se si fosse raggiunta un overdose di delittuosità, il tetto massimo di percezione possibile dei fenomeni criminali oltre il quale emerge la noia e in seguito l’indifferenza. Non più depressione o paranoia. Oggi è la “desensibilizzazione sistematica” a guardia dell’Io. La superdose di bugiarderia ci ha reso indifferenti e maggiormente “passivi” di fronte al dilagare dei fenomeni “immorali”. Oggi non sono più preso dal bisogno di sentirmi un “essere morale” a tutti i costi; non ho bisogno di attivarmi in quel senso e di sbattermi per apparire migliore di quello che sono; al limite non mi “compiaccio” più nemmeno delle azioni indegne di certi gran farabutti in circolazione per alimentare la mia autostima e per sentirmi meno immorale. Semplicemente non mi interessa! Emblematico, a tal proposito, mi sembra lo “scandalo di mani pulite” che a suo tempo mobilitò un “orda” di “indignazione morale” più o meno falsa, più o meno sincera, ma più che altro risultato di una combinazione di elevate dosi di risentimento e vendetta non propriamente nobili, quindi, espresse da molte categorie sociali in tv e sui giornali. Ma col senno di poi potremmo dire che si trattò effettivamente soltanto di una “indignazione mediatica” cioè vissuta e amplificata soprattutto sui giornali e sulle reti tv. E giunse la quiete dopo la tempesta.
Dopo breve tempo ci si accorse che il malaffare nella politica e nell’economia non era per niente diminuito, ma anzi decuplicato e nell’assoluto silenzio e a dispetto dei media principali. Un abbassamento di attenzione mediatico fatale che insieme al disinteresse di buona parte della collettività ha permesso ai malviventi bugiardi dai bianchi colletti di agire ancora indisturbati nel sottobosco degli appalti truccati, degli apparati della finanza e delle strutture amministrative di tutti i livelli privati e pubblici. Adesso pare che tutta quella “santa indignazione mediatica”, “più o meno falsa, più o meno sincera” si sia trasferita, più strutturata, su altri canali più sofisticati, quelli di internet, dei blog, dei social network, convogliata sapientemente in e da un “movimento a 5 stelle” cui, molto sportivamente, auguriamo tutto il successo possibile, s’intende. Sappiamo quanto sia difficile per tutti una “sana gestione di una bugia sapiente”.
Alla fine ciò che prevale è un’estesa disaffezione nei confronti di un sistema sociale giudicato troppo iniquo (Bloomquist, 2003). Questa perdita di fiducia generalizzata nel sistema e nei suoi membri renderebbe più propenso l’individuo a commettere atti disonesti e senza il benché minimo senso di colpa o di vergogna, in linea di principio (Neville, 2012).
Allora a cosa appellarsi per rinfocolare l’attenzione del cittadino medio e per aumentare l’audience televisiva e le vendite della carta stampata, possibilmente? Ed ecco che la “scienza” con tutto il suo alone di serietà, solennità, di fantomatico mistero e ammantata di tutti i crismi della “verità”, ci viene in aiuto. Di chi o di cosa possiamo fidarci se non della “scienza”, Her majesty , a questo punto?
Postilla:
Immaginiamo adesso l’evento televisivo dell’anno organizzato a più riprese dalle maggiori reti nazionali pubbliche e private. Chiudete gli occhi e immaginate Mentana che ci costruisce sopra una delle sue maratone televisive ormai celeberrime. Signore e signori udite udite: “un esperimento scientifico, condotto tra gli altri da un valente ricercatore italiano (buttarla sul patriottismo non guasta mai) ha provato in modo inequivocabile che siamo disonesti congeniti”. Facciamoci due conti e vediamo che si può fare! Ovviamente, nugoli di esperti, neuroscienziati, filosofi della morale, studiosi di estetica si alternano nella disamina. Comici e soubrette si avvicendano sul palco per rendere meno pesante il clima e più appetibile il tema al maggior numero di utenti a casa. Dichiarazioni di “gente”comune che porta la propria esperienza positiva e negativa in tema di grande e piccola criminalità. Qualche disonesto pentito produce la propria testimonianza a sostegno della tesi che “non tutto è perduto, si può cambiare”. Un certo qual illustre politico con sentenza passata in giudicato dimostra che c’è davvero speranza per tutti. Ed eccolo filmato a suonare il pianoforte in perfetto stile da chansonnier mentre intrattiene gli anziani di una casa di riposo che, per non smentire l’istituzione che li ospita, effettivamente riposano, anzi dormono proprio, palesemente abbioccati durante la performance musicale del noto parlamentare canterino che suo malgrado deve ottemperare, è bene sempre dirlo, alle misure giudiziarie che gli impongono di prestare opera di “servizio sociale”. Ma lo fa con buona disposizione d’animo; dopotutto è sempre meglio che gli arresti domiciliari. E ancora Associazioni di volontariato e cantautori del “pensiero positivo” che a nome dell’umanità tutta protestano e cantano davanti alle telecamere la propria “innocenza” e attestano con passione che “non siamo tutti uguali” .
Ed ecco l’invitato speciale Alessandro Baricco che con voce impostata e un po’ melliflua recita passi di “Delitto e castigo” che crea sofferenza di per sé (il romanzo dico, non Baricco di per sé). Ma poi i dirigenti di struttura della prima rete della Rai si accorgono che non è igienico ingenerare il senso di colpa nel teleutente medio in questo momento. – Ma non avete capito!… E’ proprio l’atto del patire, del tormentarsi che ha un effetto redentore sullo spirito umano, che rende praticabile la via della salvezza in Dio… Dovrebbe andare bene per il target cattolico medio cui vi rivolgete… Siamo su Rai 1 giusto?… – . – D’accordo dott. Baricco, ma abbia pazienza si adombra nel romanzo anche l’idea che la pena giuridica non spaventa poi tanto il criminale…Su andiamo!… Va bene che non dobbiamo colpevolizzare nessuno, ma non possiamo neanche ingenerare l’idea che non bisogna temere i rigori della legge… -. – Ma abbiate pazienza! Non è mica che il criminale se ne frega della legge, anzi è lui stesso che moralmente, la pretende la pena… E’ questo il senso!…Il punto è che la salvezza è un’ alternativa alla portata di tutti, persino per coloro che hanno molto peccato…E questo torna buono anche per combattere l’idea che certi correlati neurali possano condizionarci inesorabilmente…Si lega al tema della serata o no?….Mi sembra un bel messaggio di speranza, in fondo…La neurologia non è un destino. Amen!…-. – D’accordo, ma caro il mio dott. Baricco, lei non vuol proprio capire… Confidenzialmente le dico che ci sono membri dell’attuale governo che credono che un atto manifestamente immorale come la grossa “bugia” del referendum, tra le altre, possa essere giustificabile a condizione che porti a qualcosa di eccezionalmente grandioso! – . –Tipo?-. – Tipo la costruzione del ponte sullo stretto di Messina…O l’abolizione del CNEL… C’è il sospetto che abbiano letto il romanzo di Dostoevskij… Potrebbe ingenerare qualche malinteso… lei mi capisce -. – Ma dai…ma che centra scusi!…Hanno mal interpretato, è ovvio!… E poi Dostoevskij si oppone proprio a questo pensiero pernicioso facendone passare di tutti i colori al povero Raskol’nikov, tanto che alla fine si costituisce e confessa….-. – Già, è proprio questa l’intenzione del governo: Fargliene passare di tutti i colori agli italiani. Gli italiani devono soffrire, ma a loro insaputa, si capisce! -.
Al dunque, il prode Baricco nulla può contro la confusione dei coriacei dirigenti di Rai Uno e passa mestamente alla lettura di un suo must “Il Circolo Pickwick”dove predominano almeno umorismo e la giusta dose di nostalgia per un tempo che fu.
E “ultimo, ma non ultimo”, ecco spuntare in sovraimpressione il numero verde per tutti coloro che volessero fare una donazione al Ministero di grazia e giustizia e alle Associazioni antiracket, eventualmente.
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A parte le manovre televisive del bravo giornalista, il presupposto implicito da cui ragionevolmente possiamo muovere è forse l’idea che la valenza emotiva negativa a carattere fortemente soporifero assunta ormai da certi temi “scottanti” possa essere disinnescata se li divulghiamo in una forma meno consueta e anche meno minacciosa per il nostro “Io” (che non guasta mai). Quindi, la forma (la forma di un correlato neurale, in tal caso) con cui viene presentato il contenuto (il tema della “bugia” con la sua potenziale appendice criminale) dovrebbe rendere il lettore, se non altro per il suo carattere di novità. meglio disposto a mobilitare ancora una volta l’attenzione già sopita sulla triste realtà che lo circonda. Per farla breve, è più attraente (o semplicemente più accettabile) l’argomento “disonestà” se questo viene trattato come un impersonale ed enigmatico tema di neurofisiologia da laboratorio piuttosto che presentarlo come ennesimo risvolto di pochezza etica e morale “socializzata”. “La morale non è molto interessante! Non fosse altro perché è come la pelle dei testicoli: troppo elastica per i miei gusti”.
Come è noto “l’architettura neurale” di per sé non è né morale, né immorale; al massimo potremmo dire che è a-morale nel senso che non ha morale alcuna. La moralità è un giudizio di valore che risiede nell’”architettura dinamica” delle relazioni umane, si sa.
È come se l’immagine asettica del laboratorio rappresentasse con il suo carattere di neutralità un vero schiaffo capace di scuotere finalmente, per questa sua natura di “luogo altro”, di “altrove ideale” lontano ed enigmatico, separato dagli “Altri”, il cittadino e la sua attenzione ormai troppo intorpiditi dalle “solite” notizie di reato che ormai non fanno più notizia che si susseguono nel nostro ambiente sociale più consueto.
Dunque, gli studi come quelli citati sopra arricchiscono sicuramente la nostra conoscenza di certi meccanismi neurofisiologici alla base di alcuni nostri atteggiamenti e magari potrebbero essere utilizzati come pretesto per sensibilizzare certa coscienza sociale?
Tuttavia, esiste il rovescio della medaglia. Quello che spero è che il lettore comune non si alzi un bel mattino per scoprire finalmente che in Italia c’è la corruzione o che taluni nostri rappresentanti dell’economia e della politica sono dei bugiardi patologici semplicemente perché folgorato dalla scoperta del substrato neurale che fa da corollario biologico all’espressione della bugia umana. Anche perché dubito oltretutto che simili canali possano influenzare granché una popolazione che non brilla certo per la lettura dei quotidiani stampati. Ma questa è un’altra storia. Così come a suo tempo qualche dirigente democristiano si appellava alle sentenze dei tribunali perché dimostrassero definitivamente l’esistenza della mafia: – Se non ci sono le sentenze la mafia non esiste – si diceva spavaldamente, così oggi qualcuno potrebbe invocare i risultati di un qualche studio scientifico per convincersi finalmente che in Italia risiede “la borghesia più corrotta e più collusa con la criminalità organizzata” che sia dato vedere in qualsiasi paese di tipo capitalistico occidentale propriamente detto. Oppure no! Mi correggo. Forse non guasterebbe un valido esperimento scientifico condotto in laboratorio se questo potesse convincere le autorità di certe zone del nord Italia a prendere atto finalmente che la mafia esiste anche lì.
Il rischio potrebbe essere appunto quello di far apparire, sebbene con tutta l’abilità professionale e sacrosanta del caso che va riconosciuta ai ricercatori, un fenomeno comune, conosciuto, complesso, devastante per la gente comune e quotidianamente, come un “fenomeno da laboratorio”, per definizione poco diffuso (si svolge in un contesto limitato nel tempo e nello spazio) ammantato di tutti i crismi dell’esperimento asettico, quindi impersonale, infarcito di qualche eccentricità procedurale e sperimentato in situazioni che magari capitano molto di rado o addirittura mai e che interessa giusto un sparuto gruppo di volontari, eventualmente.
In questo regno della pura astrazione e della razionalizzazione, qual’è il laboratorio tecnologico, si in-tende forse meglio l’oscurità dello Stato burocratico e il confuso funzionamento dell’ econo¬mia e i loro meccanismi “bugiardi”? E finalmente il tono astratto e formale della procedura sperimentale, fa del deterioramento del tessuto sociale e della corporeità, della carne e del sangue del linguaggio comune materia inerte da scomporre in variabili dipendente e indipendente secondo le rigide procedure del linguaggio scientifico sperimentale.
Come nel laboratorio del prof Aglioti così abbiamo nella nostra vita sociale esempi tragici e illustri di persone che si appellano a certi “espedienti morali” pubblicamente e senza pudore alcuno per giustificare nefandezze inaudite: ad esempio ricorderete ancora i tempi di “mani pulite” quando un famoso leader di partito meglio conosciuto anche come “ago della bilancia” si presentò in parlamento e nel corso della propria arringa difensiva fece ricorso esattamente agli stessi espedienti morali citati dal Prof Aglioti e utilizzati dai volontari del suo esperimento, per giustificare il taglieggiamento sistematico e scientifico di certa società imprenditoriale cosiddetta civile. In sostanza, così si pronunciava sommariamente il politico italiano: “Così fan tutti…Di quel denaro il partito aveva bisogno per sostenersi…Gli altri partiti non facciano gli ipocriti perché si sono affidati agli stessi meccanismi di finanziamento illecito per mantenere i propri apparati (se non proprio per alimentare le ricchezze personali)…E sono stati anche più scorretti perché beneficiavano tra le altre cose anche di orrendi finanziamenti esteri poco patriottici e per di più comunisti…Certa imprenditoria era ben felice di pagare la tangente perché così faceva fuori la concorrenza, quindi anche gli imprenditori non sono esenti da colpe…Non c’è posto qui per le anime belle…”. In sostanza, una chiamata di correità, per la serie “Tutti bugiardi. Quindi, nessun bugiardo!”, in definitiva.
Terminava il nostro sagace parlamentare invocando la lista di tutto il buono operato da lui stesso e dal suo partito nel tentativo disperato e anche un tantino crepuscolare di “giocarsi gli ultimi bonus morali” (Monin & Miller, 2001 ), quelli relativi a certe buone azioni compiute in passato, ma che in ultima analisi avevano l’unico scopo di giustificare certe azioni scorrette nel presente.
Allora, a parte la conferma biologica che “l’occasione fa l’uomo ladro” proviamo a chiederci quali ulteriori considerazioni si possono trarre dagli studi come quello del prof Aglioti, tra gli altri. Si può forse intravedere dalle risultanze una propensione geneticamente determinata a dare la precedenza agli interessi personali alias farsi gli affari propri ennesimo risvolto forse di un mal interpretato istinto di autoconservazione? E dunque la disposizione a mentire e all’accaparramento fraudolento rientrerebbero in quell’utilizzo più generale di strategie dirette ad assicurarsi la sopravvivenza? In realtà, un altro studio precedente citato nell’articolo de “la Repubblica” dimostrerebbe esattamente il contrario e cioè che la bugia avrebbe lo scopo evolutivo di garantire la cooperazione tra le persone. O più semplicemente ci troviamo davanti alla base neurologica di quell’espediente escogitato per rendere la convivenza umana più dignitosa e gradevole e aggiungerei più sopportabile? O abbiamo individuato il substrato neurale alla base della ragione per cui “godiamo delle nostre invenzioni”?
Da qui la nostra attitudine ad “inventare le cose”, che è alla base del progresso umano in tutti i suoi campi e anche la nostra attitudine ad “inventarci le cose” nel senso di quella nostra tendenza a voler credere in un mondo di fantasia? God save la bugia, dunque! Più modestamente, propongo di studiare l’eventuale correlazione positiva tra la propensione a dire bugie e il numero di amici o conoscenze varie di cui uno dispone nel senso che chi dice bugie non dovrebbe mai risultare solo (la tal cosa non significa necessariamente che uno abbia contemporaneamente anche un’attitudine elevata alla cooperazione).
E ancora che esista una correlazione negativa tra la memoria e la propensione a dire bugie nel senso che più sei sbadato e meno sei portato a dire fandonie tendenzialmente se non altro perché non ti ricordi abbastanza di tutte le frottole che vai proferendo in giro e quindi la probabilità di essere smascherati e di essere protagonisti di una brutta figura aumenta esponenzialmente. Immagino che quelli costituzionalmente più sensibili ai sensi di colpa o alla vergogna meglio o semplicemente un tantino più paranoici potrebbero essere tendenzialmente portati ad evitare le bugie verosimilmente. Se non fosse che proprio quelli con uno spiccato senso della vergogna potrebbero finire per vivere di bugie proprio per preservare il vero Sé percepito come troppo imbarazzante. In linea di principio, diciamo che motivi di ordine estetico potrebbero costituire un buon deterrente per obbligarci ad una maggiore sincerità (e dunque onestà?). Come qualcuno ha detto “l’estetica è etica”.
Tuttavia, se volessimo rimanere ancora un po’ in questo ambito ibrido al confine tra meccanismi biologici e processi sociali a scopo puramente intellettualistico, si capisce, non sottovaluterei nemmeno il “legame” potenziale tra la bugia e la ricompensa. Qui la faccenda si complica alquanto di più non fosse altro perché la neurobiologia dei processi di motivazione e decisione è un tantino ingarbugliata a sua volta.
A tal proposito, mi torna buono ricordare che il “Sistema neuro¬nico di ricompensa” sia contraddistinto da una distribuzione anatomica piuttosto estesa, da un funzionamento molto ridondante munito di una buona plasticità. Del sistema neuro¬nico di ricompensa farebbe parte un “circuito” che lungo il fascio mediano del telencefalo, non solo nel suo tratto ipotalamico (nell’area ipotalamica laterale), si svilupperebbe a livello delle sue diramazioni « limbiche » (cioè del nucleo lenticolare, dell’amigdala, del septum laterale, della corteccia prefrontale dorso-mediana) e di quelle più caudali (in particolare l’area tegmentale ventrale del mesencefalo e i nuclei del rafe). Aggiungo che il “Sistema neuronico di avversione” e di rafforzamento negativo corrisponde essen¬zialmente a delle strutture mediane periventricolari (come l’ipotalamo mediano e la sostanza grigia intorno all’acquedotto del Silvio).
Bisogna aggiungere però che questi due network non sono chiaramente scissi nello spazio, ma anzi mostrano un intreccio più o meno complesso nelle diverse regioni del cervello (vedi tra gli altri, Kandel et al, 1999; Karli, 1990).
Questi pochi accenni a certa architettura cerebrale solo perché lo studio di Nature Neuroscience citato nell’articolo de “la Repubblica” rileva nei volontari “sgrafignatori”, una scarsa attivazione dell’amigdala che fa parte proprio di quell’ampio circuito della ricompensa citato prima.
Dico questo solo perché è possibile in un ottica puramente psicosociobiologica, seppure molto fantasiosa, eventualmente, che la bugia possa attivare contemporaneamente il circuito della ricompensa e quello dell’avversione cioè quella zona grigia che ci fa dire le bugie per ottenere una ricompensa e contemporaneamente ci permette di silenziare progressivamente il circuito dell’avversione quello che attiverebbe il “segnale di pericolo morale” che tanto ci fa star male, e che non possiamo tollerare perché ci da l’amara consapevolezza della disonestà personale.
È come se il sistema della ricompensa attenuasse le reazioni di disgusto provocate dall’azione disonesta e rafforzasse decisamente il senso di sicurezza individuale e di egemonia nei confronti degli altri membri del gruppo, dei volontari dell’esperimento in questo caso. Quindi, data la natura “piacevole” degli effetti della bugia prodotti dall’attivazione del sistema della ricompensa è possibile che, una volta innescato, per via di una procedura sperimentale, possa poi prontamente trasformare l’atteggiamento di un individuo di fronte a certe “occasioni” e le consequenziali condotte osservabili, attraverso le quali tale alterato atteggiamento si potrebbe manifestare (Karli, ibidem).
Altrettanto “sinceramente”, vi dico che le ipotesi da me qui esposte mi sembrano veramente troppo strambe per essere prese in seria considerazione, ma non voglio “mentirvi” e vi assicuro che per una pubblicazione su “Nature” sarei disposto ad affrontare persino il “sommo sprezzo del ridicolo”.
Io non mi stupisco delle risultanze dello studio di Aglioti e di altre ricerche della stessa risma (ammesso che ci sia da stupirsi, ovviamente). Non viviamo forse costantemente immersi in una sorta di “Matrix” parallela della menzogna? Non siamo tutti noi avvolti indissolubilmente in una atmosfera di invenzione, inganno, simulazione, impostura? Pare che statisticamente in media una persona normale possa dire fino a tre bugie ogni dieci minuti di conversazione e insisto parlo di gente “normale”, non di chi si fa esplodere per strada o di chi spara addosso alle persone in un qualsiasi centro commerciale di una qualunque città.
Fin da bambini impariamo a mentire perché capiamo benissimo che una bugia può farci ottenere una ricompensa non meritata. Ed è così che da adulti continuiamo a spararle grosse nella convinzione che nell’esagerazione risieda il segreto del successo.
Persino molti di noi terapeuti partiamo dal presupposto ideologico che i nostri pazienti non possano non mentire; diamo per scontato che lo facciano intrisi come sono da “meccanismi di difesa” pervasivi.
Viviamo di aspettative e stereotipi. Non sono gli stereotipi delle bugie collettive condivise, forse? “Donne ch’avete intelletto d’amore”; “…Tenne (la donna) d’angel sembianza / che fosse del tuo regno…”, recitavano Dante e Guinizzelli creando in tal modo forse inconsapevolmente una “bugia” che avrebbe martoriato e inquinato i rapporti di genere per i secoli a venire (e non parliamo poi di “Beatrice”, per carità).
Ai nuovi miti del denaro, del successo, dell’erotismo si aderisce acriticamente. Eppure sono ugualmente menzogneri in larga misura. E la vita tanto agognata si riduce ad un’accozzaglia di pretese impossibili e di desideri indistinti, frutto il più delle volte di una incapacità di reagire ad una noia opprimente, ma reclamati nella peggiore delle ipotesi con opposizioni di facciata e contestazioni false, infarciti di rabbia fasulla, del tutto innocui e “talmente sterili da meritare al massimo gli onori di qualche magazine alla moda”, o relegati mestamente in qualche languida “isola dei famosi”. Che brutta fine hanno fatto i desideri!
A proposito di bugie e realtà. Lo strumento del referendum di cui si fa un gran parlare oggi si presta particolarmente al tema in discussione, secondo me.
In un referendum si oppongono due “verità”, quelle del Sì e del No. Ma non è poi così vero se ci pensiamo bene. Proviamo invece a vedere le tesi del “Sì” e del “No” come la contrapposizione di due “bugie”, piuttosto. Si presentano come due “bugie utili”, se non altro agli occhi dei loro rispettivi promotori, perché hanno la pretesa di “cambiare” la realtà in positivo (anche quelli del “No” affermano che le cose andrebbero meglio se quelli del Sì ne uscissero sconfitti); dipende dai punti di vista, insomma. “Una bugia è soltanto una parte di verità”.
Bisogna allora instillare nelle menti e nei cuori dei votanti il principio del pensiero dicotomico e di quello catastrofico in particolare per la serie: “io ho ragione e tu hai torto…E chiunque vinca saranno comunque guai per tutti”.
L’alternativa sarebbe allora quella di scegliere tra due catastrofi potenziali? Ma chi consapevolmente sceglierebbe una sventura? Non ha molto senso, vi pare? Allora per sanare questa contraddizione in termini, per rendere gradevole una potenziale sventura bisogna innanzitutto che ci sia il maggior numero di consenso possibile su una determinata posizione. Questo è il primo passo per trasformare la bugia di una “catastrofe” o di una “fortuna” (dipende sempre dai punti di vista) in una realtà attendibile e sommamente desiderabile. Se è alta la quantità di gente che crede in qualcosa, una bugia ha buone probabilità di non essere più una bugia, né una catastrofe, né una fortuna, banalmente, ma un qualcosa di auspicabile a prescindere. Ovviamente, perché una bugia acquisti gli onori della credibilità occorre sostenerla con forza.
Bisogna avere arte retorica, mezzi economici, carisma, fedeli adepti rappresentanti delle categorie sociali più influenti e un certo numero di giornali e televisioni eventualmente che prendano posizione per sostenere efficacemente quella “bugia”. Le mezze verità non esistono. Esse sono soltanto bugie timide, inefficaci. D’altra parte la bugia è soltanto una verità parziale, incompleta, di certo, ma spudorata e arrogante, talmente sicura di sé da apparire persino coraggiosa, delle volte.
Allora, se ci limitiamo alla semplice oratoria bisogna essere proprio apocalittici; quindi innanzitutto occorre spararle proprio grosse. Partendo dal presupposto che più grossa la spari è più la gente è disposta a crederti. Non è un esercizio difficile in Italia, né inutile allo scopo. In fondo gli italiani “sanno credere a tutto e di questa buona disposizione hanno saputo fare un’arte del vivere quotidiano”. Dunque, puoi dire tutte le bugie che ti pare, ma devi proprio “sparare a zero” finché almeno larghi strati di popolazione saranno disposti per qualche motivo a seguirti in questo gioco delle parti. A quel punto è fatta, sono tuoi “perché sarai riuscito a mettere tutti d’accordo su quello che in cuor loro sanno bene non essere vero”. Allora “puoi deformare la realtà a tuo piacimento e loro ti applaudiranno” sempre e comunque.
Ed è così che puoi trasformare una prostituta minorenne nella nipote di Mubarak o un protettore mafioso in un mesto stalliere di nessuna speranza o annunciare la costruzione dell’ennesimo ponte sullo stretto di Messina” senza battere ciglio e un intero parlamento e qualche milione di persone giureranno e spergiureranno su una catasta di libri sacri delle più svariate religioni che ciò che affermi è la pura e sacrosanta verità.
Ultimo, ma non meno importante, occorre munirsi di un buon numero di sondaggi a favore della posizione patrocinata e anche di un certo numero di quelli a discapito della posizione concorrente. Proprio questa pratica dei sondaggi utilizzata per chiedere agli italiani qualsiasi opinione su qualunque cosa, appare ormai come la discutibile quanto riprovevole sotto molti aspetti degenerazione della ricerca sociologica più moderna e che fonda la propria ragion d’essere sul presupposto effimero che la gente dovrebbe rispondere la verità sempre e comunque. Ma “per quale dannata ra¬gione la gente dovrebbe dire la verità, dato che mente in larga misura a se stessa?”. Con buona pace di Adorno questo è ciò che succede normalmente nelle occasioni importanti come una consultazione referendaria. Ma non è tanto importante la verità della risposta alla fin fine. Quello che conta è che qualche milione di elettori, quelli più indecisi soprattutto, andrà alle urne con la convinzione giusta o sbagliata che sia che una certa posizione parte avvantaggiata o svantaggiata in una certa percentuale nella corsa per la vittoria finale, cioè che sulla carta, quantomeno, quella posizione è destinata ineluttabilmente a vincere o a perdere almeno secondo quanto ti hanno spiattellato i media della carta stampata o della tv nei mesi precedenti. Il meccanismo che scatta è quello balzano della lotteria: giochiamo i numeri del referendum invece che i numeri del lotto.
Il tutto assomiglia un po’ al bias della “memoria dei numeri” secondo il quale il numero che non esce da un po’ è quello che ha più probabilità di uscire a breve. Ovviamente, pare i numeri che non abbiano poi tutta questa gran memoria e oltretutto il bias in questo caso agirebbe al contrario nel senso che non si punta sul “ritardo” cioè su chi sta dietro in termini percentuali, ma si ritiene abbia più probabilità di uscire, cioè di vincere, la posizione con il più alto numero di preferenze preliminari, quelle “attestate” dai sondaggi. Il 39% dei votanti si è pronunciato per il Sì e il 35% per il No (ma leggetelo anche al contrario), il 26% non ha ancora deciso. Ovviamente, il pre-elettore può cambiare la sua dichiarazione telefonica preliminare di voto quando vuole tanto chi lo controlla? Allora, vince il “39”. Bingo! E adesso i cocci sono tuoi. Insomma, si fa affidamento su un effetto cabalistico più che su una realistica convinzione degli elettori. Ed è per questo che vieterei i sondaggi in occasione di tutti gli esercizi di sovranità popolare e di chiamata generale alle urne proprio per una questione di “igiene elettorale” perché non aggiungono nulla ad una corretta informazione, ma aggiungono semmai altro rischio di manipolazione del consenso individuale e scoraggiano coloro che, sentendo, a torto o a ragione, forte la percezione che i giochi sono già stati fatti, disertano mestamente le urne. Un incentivo all’apatia del cittadino medio già poco avvezzo costituzionalmente alla partecipazione elettorale, sostanzialmente.
Effetto cabalistico, si diceva, dunque. Ma sarà poi così deleterio? È pur vero che ciascuna posizione accoglie di per sé in un certo senso anche le motivazioni della posizione concorrente. Se io voto per il “Sì” sto coltivando più o meno consapevolmente anche le argomentazioni del “No” e viceversa perché è altamente probabile, cioè non è tanto inverosimile, che vincendo quel tal “punto di vista” si porti dietro tutti i rischi paventati dal “punto di vista” avversario e viceversa.
E non è un caso infatti che la riforma costituzionale così come presentata sulla scheda referendaria sia piuttosto incompleta tanto da meritare in caso di vittoria del “Sì”, come ammesso dai suoi stessi sostenitori, dopo il voto qualche “aggiustamento” legislativo che dovrebbe sanare alcune, almeno, delle storture denunciate da quelli contrari alla riforma. E in caso di vittoria del “No” la “promessa” è che si ripareranno le brutture dell’attuale sistema parlamentare con strumenti diversi da quelli proposti dalla riforma, ma che vanno nella stessa direzione di quella, tutto sommato. E in ambedue i casi i tempi per gli “aggiustamenti” di rito potrebbero non essere tanto brevi. Allora, qui non si tratterebbe di affannarsi a conseguire tutti gli strumenti intellettuali e giuridici, che è impossibile oltre che inutile, per approdare alla verità. Tranquilli! Non è la “verità” che è in discussione. Qui non si contrappongono “giusto” e “sbagliato”. Quindi, al limite, il punto non sarebbe nemmeno la necessità di acquisire una corretta e approfondita informazione. Dunque, una volta lette e ascoltate tutte le motivazioni in campo non resterebbe davvero che “tirare” la monetina? Questo bislacco quanto arzigogolato modo di ragionare avrebbe almeno l’effetto di far calare l’ansia in tutti gli elettori e di stemperare la logica del capro espiatorio tipica del pensiero dicotomico che di certo mai ha agevolato il conseguimento di alcuna “verità”. È vero che in tal modo si rischia di spogliare la “bugia” di qualsiasi connotazione etica o morale. Ma è un rischio che si può correre, forse, visto che nel caso specifico non sono tanto in ballo verità e giustizia da una parte e falsità e arbitrarietà dall’altra. Proprio come i network neuronici della ricompensa e dell’avversione non sono così nettamente divisi nello spazio cerebrale, ma anzi rivelano un trama più o meno complessa, così i sistemi della “verità e della bugia” dimostrano di essere discretamente intricati nello spazio umano delle dinamiche sociali e psicologiche. Morale? Giusta o sbagliata che sia la nostra scelta, si vada a votare, comunque! Qualcosa resterà.
A parte le provocazioni divinatorie e fatte salve le raccomandazioni alle divinità di turno, eventualmente, non possiamo che augurarci che il “cambiamento” da qualunque parte giungerà non si riveli un buco nell’acqua o meglio non si risolva in un vulnus irreparabile della nostra carta costituzionale o almeno che alla fine non resti soltanto “la delusione e il sapore amaro della consapevolezza di una bugia”, seppure ben confezionata.