Vaso di Pandora

L’Aquila, studio sull’autismo premiato a Londra

Commento alla notizia ANSA del 24 giugno 2016

È sorprendente come negli ultimi anni la ricerca si stia interessando allo studio dell’autismo infantile e come i casi diagnosticati di “ disturbo pervasivo dello sviluppo “ stanno aumentando. Tutti sanno o per lo meno, credono di sapere cos’è l’autismo. Questa parola è l’incubo di molti genitori e anche ai giardinetti pubblici spesso “l’autismo” aleggia tra le mamme, come qualcosa di misterioso, affascinate e spaventoso. Personalmente sono contenta che se ne parli, magari in modo costruttivo e veritiero e mi auguro che tutto questo interesse serva a sfatare i miti intorno a questa malattia, che mette a dura prova intere famiglie.

Soprattutto che serva a curare, il più precocemente possibile, i bambini affetti. Spero anche che una miglior conoscenza, permetta di superare l’idea dell’autismo alla Dustin Hoffman, nel film Rain man, dove il protagonista credo avesse una sindrome di Asperger, ma dotato di straordinarie capacità, da far passare la malattia in secondo piano. Purtroppo ancora oggi, un bambino tendenzialmente isolato capita che venga etichettato “autistico”, dai non addetti ai lavori, magari da una maestra o da un’educatrice del nido, mentre altre volte, al contrario, la diagnosi viene posta tardivamente, perché si aspetta che con la crescita certi “comportamenti sbagliati” vengano superati. E questo atteggiamento da parte di chi deve fare la diagnosi risulta ancora più sorprendente, considerando che ormai tutti parlano di autismo. Eppure è capitato ultimamente a una coppia di conoscenti con bambino di quasi quattro anni, che era stato preso per un bambino viziato e capriccioso e solo ultimamente è venuto fuori che “presenta dei tratti autistici”.

Venendo alla “teoria della mente”, una delle caratteristiche principali dello spettro autistico è l’incapacità di identificarsi con l’altro, in particolare con lo stato mentale dell’altro. Da tempo si conosce la teoria della mente e il deficit di sviluppo nei bambini affetti. Baron-Cohen, Leslie e Frith hanno utilizzato un esperimento per studiare lo sviluppo della teoria della mente nei bambini piccoli. Impiegavano due bambole Sally e Anne. Sally ha una pallina che mette nel suo cesto poi esce. Anne prende la pallina di Sally, mentre è assente, la mette nella propria scatola. Gli sperimentatori chiedono al bambino che guarda “Sally dove cercherà la sua pallina?”. Molti bambini non autistici rispondono esattamente e indicano il cesto. Molti bambini autistici sbagliano e indicano la scatola dove loro sanno (ma non Sally) che si trova la pallina.

La spiegazione di Frith è che i bambini autistici non capiscono che vedere è sapere e che non vedere può implicare non sapere (Frith 1989). L’autrice crede che quello che Kanner e Hobson, consideravano un disturbo affettivo emotivo, si spieghi più precisamente con la mancanza di un fattore coesivo centrale nel cervello. Ossia un deficit cognitivo. Al di là della dicotomia cognitivo- emotivo, di sicuro si sa che il bambino autistico presenta una difficoltà a credere nell’esistenza di un altro da sé, dotato di una mente propria, di emozioni e sentimenti. Mettersi nei panni di Sally, vuole dire anche prendere il suo punto di vista, pensare come penserebbe lei.

Anne Alvarez, della Tavistock Clinic, nella sua ricerca decennale sull’autismo, fa una riflessione in merito all’esperimento suddetto. Alvarez è arrivata alla conclusione che alcuni bambini autistici abbiano fallito la prova, perché pensavano di dare la risposta che l’esaminatore si aspettava da loro e quello che avevano udito non erano i particolari della domanda, ma semplicemente “dov’è la pallina?”. Come se questi bambini si attaccassero a un elemento della frase o all’ultima parola ascoltata. Identificarsi con Sally è, comunque, al di là della loro portata, così come riflettere con calma e fiducia sulla domanda. Alvarez è convinta che l’evidente assenza mentale del bambino autistico spesso vada al di là di un deficit organico, e che può essere invece il risultato di una rinuncia da parte del piccolo all’utilizzo della mente. Le idee dell’Alvarez sono molto affascinanti, ma non mi dilungo ora sulle diverse teorie sull’autismo infantile, che si sono susseguite nel corso degli anni e che hanno tentato di spiegare l’eziologia del disturbo autistico.

Alcune di queste teorie hanno portato senza dubbio un contributo alla conoscenza, altre, a mio avviso, hanno seminato false illusioni, altre ancora hanno condannato le vaccinazioni, come fonte di guai. Al di là delle teorie possibili, è certo che la ricerca italiana menzionata nell’articolo, ha ottenuto un riconoscimento internazionale per avere evidenziato le traiettorie di sviluppo della teoria della mente. Secondo quanto si legge, nei disturbi dello spettro autistico le linee di sviluppo seguirebbero un percorso diverso rispetto ai neuro tipici. Questo permetterebbe, come si legge nell’articolo, di identificare con estrema precisione sia il timing che il target degli interventi abilitativi personalizzati. Mi auguro che il risultato di questa ricerca possa aprire nuovi importanti sviluppi, per migliorare la qualità di vita dei bambini e delle loro famiglie.

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