PAROLE CHIAVE: psichiatria, psicologia, psicoanalisi, psicosi, dementia praecox, schizofrenia
Più ci si allontana dalla linea di combattimento la pratica della Psicoanalisi, la salute mentale, la psichiatria, più si diventa consapevoli della ferocia dei capi di stato maggiore, della ferocia dei teorici. (W.Bion, “Seminari italiani”)
INTRODUZIONE: I PERCHE’ DI UNA SCELTA
Perché mi sono avventurato in questa sorta di lettura parallela delle due autobiografie mi si è (forse) lentamente e parzialmente chiarito ben dopo che avevo deciso di lavorare su di esse.
L’immediata, forse impulsiva prima ragione è stata la constatazione che Kraepelin e Freud sono nati lo stesso anno, 1856, il primo il 15 febbraio,
il secondo il 6 maggio, ambedue immersi nella cultura centro-europea e, questo è l’altro dato a tutti noto, figure di assoluto riferimento nel campo delle turbe psichiche.
Tuttavia la contemporaneità del loro lavoro, la conoscenza di eminenti psichiatri, neurologi e psicologi dell’epoca si associano ad un dato che credo incuriosisca chi si occupa di queste discipline, ovvero il fatto che Kraepelin sia nelle Memorie (1917) che nelle varie edizioni del Manuale di Psichiatria, così come nelle pagine della Introduzione alla Psichiatria Clinica, non cita Freud.
Peraltro, quest’ultimo si ricorda dello psichiatra tedesco solo in cinque lettere a Jung senza soffermarsi sul significato della sua notissima opera ma, al contrario, ironizzando: “Un vero psichiatra non deve vedere ciò che non si trova in Kraepelin”.Curiosamente anche nel lavoro del 1905 “ Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio”, come vedremo.
Ho ripreso ad occuparmi, rileggendole e confrontandole, di quelle che molti anni fa erano state letture sovrapposte e capaci di stimolare la mia esigenza di neo-psichiatra, rapidamente insoddisfatto delle posizioni psichiatriche classiche (in fondo ancora sufficientemente recenti). Tali posizioni, come mi pare stia ancor oggi accadendo, venivano modificate con l’intento di individuarne la ragione biologica, mentre le intuizioni psicoanalitiche mi parevano indicare un altro possibile percorso, confusamente affascinante quanto poco considerato dalla grande parte dei “neuropsichiatri”.
Per altro, il lavoro in una Clinica psichiatrica mi ha messo allora in contatto con la patologia psicotica, i pochi farmaci, l’elettroschok e con i ricostituenti pomeriggi in biblioteca.
Così come allora, l’enigmaticità delle psicosi e la maniera disumanizzante in cui si presenta, specie la dimensione schizofrenica o, come sia Kraepelin che Freud che Jung e Abraham la definivano, dementia praecox o dementia paranoides, hanno finito per suggerirmi una chiave di lettura che ho vissuto come appassionante.
Ho scelto di ritornare sulle due autobiografie con il progetto di fermare l’ attenzione proprio su questo tema, così come i due grandi l’hanno affrontato e , in seguito, come hanno proposto ad altri di procedere, su vie peraltro tanto diverse.
Allora le due biografie, parallele nella dimensione del tempo e dell’impegno scientifico, assolutamente divergenti sul piano del modello di ricerca impiegato, mi sono apparse contenere una possibilità di indagine sui percorsi teorici e clinici e, forse, sulle loro ragioni razionali e affettive.
LA PSICHIATRIA DELL’OTTOCENTO
La Psichiatria, come disciplina autonoma, si afferma nel 1800 assumendo le caratteristiche di una disciplina medica soprattutto nella seconda metà, anche se deve fare i conti con una certa confusione tra ciò che è di competenza dell’anatomo-patologo e del clinico, nonché tra modelli teorici che tentano, ad una diverso livello d’astrazione, l’integrazione tra teoria evoluzionista, assunti “morali” e atti di fede.
E’ soprattutto la tradizione alienistica francese a proporre dall’inizio, con Pinel, Esquirol, Dubois, l’origine morale della follia, concetto che negli stessi anni (prima metà dell’ottocento) in Germania aveva assunto le forme della psichiatria romantica e che aveva trovato in Heinroth la figura di maggior rilievo: egli affermava che si possono studiare le tappe per cui il non seguire il cammino verso il bene si pone come condizione che spinge l’uomo all’alienazione mentale.
La dottrina di Morel e quindi di Magnan, in Francia, nella seconda metà del secolo, riprende, con la teoria della degenerazione ereditaria, il filone precedente, pur proponendo via via correzioni di rotta e finendo per assumere grande sviluppo anche fuori i confini (specie in Italia).
Morel, alienista basilare, ha una visione assolutamente pessimistica della psichiatria, rendendosi conto dell’improduttività di ogni trattamento.
Formula la teoria secondo la quale la maggior parte degli alienati appartengano a dei ceppi umani degradati: la follia diviene così il frutto malato di un lungo e irreversibile processo di degradazione mentale (e morale), trasmesso in via ereditaria da una generazione all’altra.
Da iniziali turbamenti mentali come l’alcolismo, il nervosismo, si passerebbe, da una generazione all’altra, a disturbi sempre più gravi, conclusi dalla paranoia e in via finale, dall’idiozia (e dalla non procreazione con essiccazione del ramo degenerato).
L’impronta religiosa è evidente anche nella risposta alla così inquietante domanda: quali sono le caratteristiche (fisiche e psichiche) dell’uomo normale?
Ebbene la risposta è legata alla fede: l’uomo normale è fatto a immagine e somiglianza del creatore e l’allontanarsi da questo modello (in fondo estetico) condanna alla degenerazione, non occultabile per opera delle feroci “stigmate”, soprattutto fisiche, su cui si soffermerà soprattutto Magnan.
Egli riprende infatti la teoria della degenerazione, tuttavia spostandosi in maniera più netta dal terreno dell’antropologia, in cui l’influsso di Darwin è avvertibile, a quello della clinica.
Studia le monomanie (alcolismo, esibizionismo, cleptomania), tutte espressioni di un unico “tipo clinico” che l’ereditarietà tiene sotto la sua dipendenza, per poi dedicarsi soprattutto ai grandi quadri psicotici, frutto quasi esclusivo della predisposizione ereditaria( mania e melanconia, delirio cronico sistematizzato, follia intermittente).
Per Magnan la degenerazione è associata, connessa all’ipotesi che l’umanità contenga un progetto evolutivo nella direzione dell’uomo ideale.
In direzione opposta, involutiva, agiscono modificazioni maladattive sull’esser umano, indotte da miseria, alcolismo, surmenage e capaci di produrre nel cervello modificazioni patologiche irreversibili (ad esempio modificazioni di volume, atrofie di alcuni centri corticali).
Teniamo conto che, in termini più strettamente neurologici, contemporaneamente sta nascendo con Broca, in Francia (1861, afasia motoria), e Wernicke, in Germania (1874, afasia sensoriale), la neuropsicologia e la sua impostazione localizzante (1).
Ci stiamo avvicinando alla nascita vincente del modello positivistico, che, pur fatto proprio da qualche autore Francese (Baillarger2, “Folie à double forme”, Falret “Folie Circulaire”, Serieux e Gapgras “Delirio d’interpretazione”, Lasegue, ”Delirio di persecuzione), diviene terreno soprattutto della Psichiatria di lingua tedesca.
A partire da Wilhem Griesiger, il progetto di meglio identificare e specificare, partendo dalla accurata identificazione dei sintomi, entità psicopatologiche riconoscibili si ispira al modello proprio delle scienze naturali e, di conseguenza, propone con decisione quello nosograficomedico anche per le turbe della mente.
E’ Griesinger, peraltro, che entra in campo proponendo il concetto di “Psicosi Unitaria”, ovvero l’ipotesi che i vari quadri clinici corrispondano semplicemente ai vari stadi di un’unica malattia, la “Psicosi”.
Sto arrivando a Kraepelin, anche se non posso non ricordare due alienisti che hanno dato il nome a notissime entità cliniche che Lui inserirà nella sua visione della dementia praecox: parlo, come è noto, della “Ebefrenia” di Hecker3, poi della “Catatonia” di Kahlbaum di cui riconoscerà il valore dei contributi e che citerà con implicita riconoscenza nelle “Memorie”. Scriverà, infatti, proprio nelle Memorie, a proposito dell’impostazione della 4° edizione del Manuale di Psichiatria (1893):
“Mi sforzai di riunire, come processi di degenerazione psichica, quei casi che dall’inizio mostravano la tendenza a evolversi in demenza. Oltre alla Catatonia di Kahlbaum, distinsi poi una Demenza Praecox corrispondente sostanzialmente alla Ebefrenia di Hecker ed una Demenza Paranoide, caratterizzata da idee deliranti che portavano rapidamente alla Debolezza mentale. Aggiunsi la Paranoia, caratterizzata solo da insorgenza di idee deliranti”.
Questo “gigantesco lavoro di sintesi (di ricapitolazione di schegge di sintomatologia” (Borgna) mostra, nelle minuziose descrizioni semeiotiche delle forme del soffrire psichico, ciò che differenzierà i modi della clinica kraepeliniana dalla psichiatria antropo-analitica (Binswanger, Minkowski, Blankenburg, Borgna, fra i tanti), la cui intenzione non è quella di scoprire il che cosa (Was) e neppure il perché (Wodorch) bensì il tentativo di avvicinarsi a “l’essenza” della modificazione psichica, che non ha nulla a che vedere con l’etiologia.
La Antropo-analisi non si preoccupa della ricerca del Sintomo/i Fondamentale/i (Bleuler e le schizofrenie) o dello Esito fondamentale (come appunto fa Kraepelin), quanto dello “..andare in cerca della normatività che regge l’abnorme della alienazione” (Cargnello).
E Freud e la psicoanalisi?
Nasio, psicoanalista francese che ha nel suo bagaglio le idee di Lacan sulla psicosi, a proposito di Schreber osserva che Freud affronta la presentazione dei sintomi offerta nello scritto del presidente come fa da sempre, ovvero restituendo alla malattia la sua funzione rivelatrice.
LE MEMORIE E L’AUTOBIOGRAFIA
Parliamo ora più direttamente delle Memorie e della Autobiografia.
A proposito di quest’ultima non ho intenzione, e neppure competenza, per aggregarmi ai numerosi biografi ed interpreti del Freud uomo (ritengo di assoluto valore su questo terreno il “Freud messo a fuoco” di Speziale-Bagliacca).
Cercherò di confrontare i due percorsi, così come essi li riferiscono, limitandomi a ciò che riguarda, come ho già chiarito, il loro contributo al mondo della Dementia Praecox, poi Schizofrenia.
Certamente, come ho già iniziato, confronterò (parzialmente) quello che i due scrivono a questo proposito nelle autobiografie con quanto evidenziano negli scritti teorico-clinici.
La prima questione che propongo riguarda le influenze che hanno a loro giudizio determinato la scelta professionale.
Kraepelin, (nato a Neustrelitz), parla del padre, insegnante di musica e uomo di grande cultura, e, soprattutto, del fratello maggiore Karl, che lo entusiasmò nei riguardi della teoria dell’evoluzione appena nata. Inoltre, un medico, amico del padre, Krugher, gli fece conoscere le lezioni di Wundt, lo psicologo che tanta importanza avrà nella sua vita.
Fu lo stesso Krugher, a cui confidò le sue aspirazioni, a consolidare la sua decisione di diventar psichiatra, frequentando l’Università di Lipsia dal 1874.
Ciò che voglio evidenziare è la scelta di Kraepelin di occuparsi, negli studi universitari, di filosofia, psicologia e contemporaneamente di “voler imparare a conoscere il cervello con la maggior precisione possibile”. Freud, a Vienna, dall’età di tre anni, scrive: “non sentivo alcuna predisposizione speciale per la professione medica, né ebbi del resto a sentirla in seguito. (…) mi attraeva enormemente la teoria di Darwin”, aspetto che lo accomuna indubbiamente a Kraepelin.
Freud menziona la sua condizione di ebreo e l’assoluta non accettazione dell’idea d’inferiorità. Si iscrisse all’Università nel 1873, frequentando il laboratorio del fisiologo Brucke. Poi nel 1882, laureato in medicina, passò diversi mesi nel Reparto di Meynert, professore di psichiatria. Considero ora le ipotesi (in realtà interpretazioni) che la prima psicoanalisi, con Abraham e Freud, propose riguardo alla Dementia Praecox. Abraham, con due lavori del 1907 e 1908, anticipa il fondamentale saggio di Freud del 1910 in cui l’interpretazione psicoanalitica della paranoia è costruita sulla storia clinica, autobiografica, del presidente Schreber. Nel primo “ Il significato dei traumi sessuali della fanciullezza per la sintomatologia della dementia praecox” Abraham scrive:
“..ritengo comunque che la predisposizione individuale sia il fatto primario. Le esperienze di tipo sessuale, abbiano esse il valore di un vero e proprio trauma o siano impressioni meno violente sulla sessualità infantile, non costituiscono la causa della malattia ma determinano i sintomi della malattia. Esse non sono la causa per cui compaiono idee deliranti o allucinazioni, ma danno a queste un contenuto individuale. Non sono responsabili della comparsa di stereotipie verbali e di comportamento, ma ne condizionano solo la forma in cui si manifestano nel singolo caso patologico”.
Nel secondo contributo “Differenze psicosessuali fra isteria e dementia praecox” vi è una interessante nota a piè pagina:
“Devo l’impulso alle esposizioni seguenti, che vanno considerevolmente al di là delle opinioni di Freud pubblicate, a comunicazioni scritte e orali del professor Freud. Vari aspetti hanno assunto forma più sicura nella discussione con il prof. Bleuler e il dr. Jung durante la mia attività alla Clinica psichiatrica di Zurigo”.
Ricordo che Freud nel lavoro del 1910 cita questo contributo di Abraham aggiungendo in nota:
“In questo lavoro l’autore mi attribuisce scrupolosamente il merito di avere, attraverso una corrispondenza scambiata tra noi, influenzato lo sviluppo delle sue vedute in proposito” (Freud non fa menzione della Scuola di Zurigo).
Cosa afferma Abraham nel suo contributo? Innanzi tutto a sua volta scrive:
“Tutto ciò che di teorico includerò in questa relazione sulla sessualità dei malati mentali cronici rientra nell’ambito della teoria sessuale di Freud”.
In realtà la sostanza notissima del lavoro è la conclusione che la dementia praecox distrugge la capacità di traslazione, di amore oggettuale e i sintomi della malattia costituiscono una forma di attività autoerotica. In molti casi il persecutore sarebbe stato originariamente l’oggetto sessuale e il delirio di persecuzione avrebbe un’origine erotica. Aggiunge che nell’isteria si avrebbe un eccessivo investimento sessuale mentre nella dementia si assiste al ritiro della libido e conclude che la costituzione psicosessuale (nella dementia), innata, si fonda su una inibizione dello sviluppo con persistenza patologica dell’autoerotismo.
L’APPORTO DI FREUD
Del contributo più celebrato, l’interpretazione della Dementia Paranoides costruita utilizzando le Memorie del giudice Schreber (1910), mi permetto un paio di rilievi.
Il primo, in realtà, è il modo con cui Freud annuncia il suo progetto:
“L’interesse dello psichiatra di professione per formazioni deliranti di tal genere si esaurisce comunemente con l’accertamento di quali siano i prodotti del delirio e con la valutazione dei loro effetti sul comportamento generale del malato…Lo psicoanalista fa derivare, invece, dalla propria conoscenza delle psiconevrosi l’ipotesi che formazioni mentali tanto inconsuete e così lontane dal nostro comune modo di pensare traggano origine dai più comuni e comprensibili impulsi della vita psichica e la sua aspirazione è di imparare a conoscere i motivi e i processi di questa trasformazione”.
Non starò qui a riesaminare il percorso di Freud, troppo noto, ricorderò le conclusioni:
“La causa fu dunque un assalto di libido omosessuale il cui oggetto fu in origine, con ogni probabilità, il Dr. Flechsing, facendo risalire all’atteggiamento di Schreber bambino verso il padre quello adulto verso Dio. La lotta contro questo impulso provocò il conflitto che generò le manifestazioni patologiche. La persona agognata diventa ora il persecutore e il contenuto della fantasia di desiderio diventa il contenuto della persecuzione”.
Mi fermerò ancora un momento su una autodescrizione di Schreber che Freud trascrive e che peraltro non si soffermerà a commentare o interpretare:
“Egli riteneva di essere morto e in parte già putrefatto, malato di peste, vaneggiava che il suo corpo fosse oggetto di orribili manipolazioni di ogni genere…Lo tormentavano a tal punto che invocava la morte, sicché egli tentò ripetutamente di annegarsi nel bagno e esigeva il ‘cianuro destinatogli’.”
Ho ricordato la trascrizione di questo passo così drammatico immaginando che non sia stato casuale e riguardi l’esigenza di Freud di prendere contatto non solo con le osservazioni utilizzabili a sostegno del suo modello teorico, ma con una dimensione più ampia della modalità di Schreber di proporre la sua dimensione tragica, quasi un’anticipazione della “presenza al mondo” del paziente che verrà prospettata dalla antropoanalisi .
Ricorderò brevemente altri due lavori di Freud, “Nevrosi e psicosi” del 1923 e “La perdita della realtà nella nevrosi e nella psicosi” del 1924, ove si riferisce soprattutto al distacco dalla realtà. La nota formulazione riguarda il conflitto fra Io e Es nella nevrosi e quello tra Io e mondo esterno nella psicosi. Il primo dei due lavori si conclude con un passo che ritengo di gran rilievo e che ritroviamo in Lacan.
“In conclusione scrive Freud bisogna concentrarsi sul problema di quale possa essere il meccanismo, analogo alla rimozione, in virtù del quale l’Io si distacca dal mondo esterno. Ritengo che a questo problema non possa essere data una risposta se non vengono effettuate ulteriori indagini; mi sembra però che, al pari della rimozione, tale meccanismo dovrebbe consistere in un ritiro dell’investimento che promana dall’Io (Verleugnung , disconoscimento o rinnegamento)”.
Freud distinguerà rimozione da disconoscimento sopratutto nello scritto sul “Feticismo” (1927), in cui viene “rinnegata o disconosciuta” l’evirazione nella donna.
Ancora nel “Compendio di Psicoanalisi” del 1938 differenzierà ulteriormente rimozione (Verdrangung) da disconoscimento o rigetto ( Verwerfung), affermando che la rimozione è usata per difendersi dalle richieste pulsionali provenienti dall’interno, mentre del rinnegamento ci si avvale per difendersi dalle richieste della realtà esterna. Tuttavia l’importanza di questa differenziazione, ho l’impressione, abbia lasciato il passo al contemporaneo discorso sul meccanismo della scissione dell’Io, onnipresente nelle psicosi.
E’ Lacan, allievo di E. EY e profondo conoscitore delle psicosi, che riprende la differenziazione di Freud tra rimozione e disconoscimento, che egli chiamerà Forclusion (Preclusione). Ricordo brevemente che Lacan, influenzato dal linguista svizzero De Saussurre, propone la nota collocazione dell’inconscio utilizzando la formula significante/significato e definendo l’inconscio “il luogo dell’Altro: ovvero è il luogo da dove deve emergere la verità, il luogo del discorso interindividuale, ovvero il luogo in cui l’intervento dell’Altro (analista) svela il significato Altro”.
(In effetti già Freud nella “Traumdeutung” parla del luogo dell’inconscio come di “un’altra scena”).
Lacan ritiene che nello “stadio dello specchio” Figlio e Madre aspirino ad una Fusione Immaginaria che viene evitata dal sottoporsi al terzo termine del triangolo immaginario, il Padre portatore del Fallo-Legge che Lacan propone di leggere come il Significante fondamentale dell’inconscio (4).
“E’ nel nome del Padre scrive Lacan che dobbiamo riconoscere il supporto della funzione simbolica”, e ritiene che la condizione per l’insorgenza della Psicosi sarebbe l’assenza del significante fondamentale, appunto la Legge del padre (che non ha nulla a che fare con la presenza o l’assenza reale del genitore).
Nel caso del giudice Schreber egli deve diventare donna non per essere privato del pene ma per essere il fallo che manca a dio, ovvero ritornerebbe allo stadio dello specchio diventando il fallo della madre. Così Lacan ribadisce che il meccanismo fondamentale della psicosi è la Preclusione ( Forclusion) del significante paterno, che ritroverà anche nel caso de “l’uomo dei lupi”.
D’altra parte Freud già nel lavoro del 1894, “Le neuropsicosi di difesa”, scrive che esiste una forma di difesa molto più energica (della rimozione): l’Io espelle la rappresentazione insopportabile e contemporaneamente il suo affetto e si comporta come se la rappresentazione non avesse mai raggiunto l’Io.
Ritorno all’Autobiografia e a quello che Freud segnala a proposito del grande interesse che dopo il 1906 un gruppo di psichiatri di Zurigo, Bleuler e Jung e altri, avevano maturato per la psicoanalisi, al contrario della scienza tedesca che si mostrò (con la straordinaria eccezione di Abraham) unanime nel ripudiarla.
E’ il caso di Kraepelin, e della sua prospettiva di ricerca, ancora oggi capace di ispirare i criteri classificatori clinici.
Tuttavia, nelle Memorie, troviamo inaspettatamente espresso da Kraepelin il desiderio di dedicarsi non già alla psichiatria clinica, ma allo studio della psicologia, proponendosi come allievo di Wundt, professore di Psicologia a Lipsia dal 1875 e nome di maggior spicco nel campo della Psicologia Sperimentale nei paesi di lingua tedesca.
Kraepelin, concluso l’esame di Stato nel marzo 1878, lavora inizialmente a Monaco, alla corte di Gudden di cui dice:
“Non dava alcuna importanza alle teorie o spiegazioni geniali. L’accurata dissezione anatomica…costituiva per lui l’unica via di accesso al labirinto della psichiatria; non lo era invece l’osservazione clinica, ingannevole e pervasa da mille fonti d’errore”.
Peraltro Kraepelin ammette il suo (iniziale) “totale sgomento di fronte a tutte quelle forme di manifestazioni della follia, escluse da ogni conoscenza scientifica”.
Quello che mi pare riveli la complessità del pensiero di Kraepelin è espresso dal faticoso matrimonio tra la prospettiva psichiatrica, così inizialmente scoraggiante, ed il contemporaneo progetto psicologico, mai abbandonato.
Lo troviamo infatti a Lipsia, nel 1882, ove, inseguendo un progetto accademico, si rivolge a Wundt con l’intenzione di lavorare con lui. Per Wundt la Psicologia si deve interessare dei fatti della coscienza umana, a differenza delle Scienze Naturali che si occupano della realtà oggettiva, e deve prendere la via della sperimentazione.
Kraepelin inizia a occuparsi della “misurazione del tempo psichico”. Scrive:
“Mi interessava indagare le modificazioni dei tempi psichici provocate da fattori esterni, innanzitutto dai veleni.”
Ovvero gli effetti della narcosi da etere, e poi l’alcol e la morfina (5).
Più volte nelle “Memorie” ribadisce il suo impegno con Wundt ma, soprattutto, descrive la figura dello studioso con termini che, dato lo stile privo di retorica e poco incline a idealizzazioni, sembrano indici di un probabile investimento transferale in cui il polo negativo dell’ambivalenza non ha espressione.
Scrive:
“…quando Wundt iniziava poi le sue esposizioni, con la pacata chiarezza che lo contraddistingueva, connettendo logicamente una frase a un’altra e illustrando le sue parole con alcuni piccoli gesti, tutti erano presto in balia di questa personalità intellettuale che…cercava di esplorare dall’alto l’intima essenza dell’uomo”.
E ancora:
“I rapporti tra maestro e allievi erano i migliori che si potessero immaginare. L’indole di Wundt era retta da una semplice dignità, in cui la pacata obiettività si univa alla simpatia personale”.
Ho ripreso quello che Freud scrive nella Autobiografia a proposito di Charcot, ricordando la sua esperienza di élève alla Salpetrière nel 1885. Indubbiamente ha parole di stima per lui:
“Di tutte le cose che ebbi modo di osservare durante il mio soggiorno presso Charcot, nessuna mi colpì tanto quanto le sue ultime ricerche sull’isteria… Charcot liquidò i nostri dubbi mostrandosi gentile e paziente, ma anche molto risoluto”.
Freud non sembra accettare un ruolo subordinato, lo si intuisce da una frase:
“Prima di lasciare Parigi discussi col maestro il progetto d’un lavoro inteso a stabilire un confronto fra le paralisi isteriche e quelle organiche. Il mio intento era di dimostrare che nell’isteria la paralisi e le anestesie si ripartiscono nelle varie parti del corpo in base alla rappresentazione comune che gli uomini hanno del proprio corpo e non in base alla rappresentazione anatomica” (6).
Come ho evidenziato in nota ben altro fu il rapporto tra Freud e Fliess e non senza significato è l’assenza di ogni riferimento nell’Autobiografia. Tornando a Kraepelin e alla sua curiosa storia di clinico e teorico sono rimasto colpito dal suo parlare in toni assolutamente inaspettati dei suoi progetti. Venne invitato, durante la permanenza a Lipsia (1883) a scrivere un Compendio di Psichiatria (quello da cui nasceranno le 8 edizioni delTrattato di Psichiatria).
Scrive:
“Questo compito non corrispondeva affatto alle mie attitudini. Avrei scritto molto più volentieri un trattato di psicologia criminale, ma seguii comunque il consiglio di Wundt cui ero solito rivolgermi in queste circostanze e mi dedicai a questo compito poco piacevole… In questa occasione mi resi conto con particolare chiarezza dei limiti delle mie conoscenze di psichiatria”.
E’ notevole il fatto che Kraepelin, quasi a ribadire la sua reticenza ad occuparsi di psichiatria, scrive nel 1895 una rielaborazione del saggio del 1885 sulla Psicologia del comico (di cui non ho trovato traccia se non nello stesso Freud), ancora una volta sollecitato da Wundt.
E’ nel 1905 che Freud scriverà “ Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio” in cui un paragrafo si intitola “ Il motto e le specie del comico”. Ebbene, con mia sorpresa Freud cita nell’introduzione, assieme a poche altre opere, il volume di Kraepelin e ricorda che per lo studioso tedesco il motto sarebbe:
“la combinazione o l’unione arbitrari , attuata per lo più mediante il concorso dell’associazione verbale, di due rappresentazioni in qualche modo contrastanti”.
Nelle “Memorie” riparla (finalmente) di psichiatria ricordando come alla fine degli anni ’90 ( è a Heidelberg dal 1891 al 1902) il suo interesse clinico “si rivolse esclusivamente ai due grandi gruppi della Dementia praecox e delle psicosi maniaco-depressive” tenendo sempre in primo piano il punto di vista prognostico.
Nel 1902 arriva la chiamata a Monaco, ove resterà fino al 1922 e scrive che iniziò nell’autunno di quell’anno la revisione del Trattato per la 7° edizione.
Curiosamente nelle Memorie non fa molte parole della sua impostazione clinica, narrando soprattutto dei suoi numerosi viaggi in varie parti del mondo, Africa, America, Asia, per non parlare dell’Europa e dell’Italia. Cosicché si nota un grosso contrasto fra la complessità delle idee esposte nelle varie edizioni del Trattato e la scarsità d’informazioni raccolte nelle memorie.
Ad esempio nella 5°. edizione del Trattato scrive:
“Se possedessimo delle conoscenze del tutto esaurienti… in uno solo dei tre settori, anatomia patologica ,eziologia o sintomatologia della pazzia, non solo si potrebbe trovare una classificazione delle psicosi unitaria e rigorosa a partenza da uno qualsiasi di questi settori, ma ciascuna delle tre classificazioni addirittura coinciderebbe essenzialmente con le due rimanenti. Proprio questo postulato è il fondamento della nostra ricerca scientifica”.
Così, nell’illustrare la sua attività a Monaco, l’accento è messo soprattutto sull’attività didattica e clinica che, scrive con rimpianto:
“mi rendeva sempre più difficile il calarmi nella riflessione di problemi della psicologia sperimentale”.
E’ solo nelle ultime pagine delle Memorie che ritorna a riferire intorno al Trattato, che deve sottoporre a continue rielaborazioni con immenso impegno. Peraltro non dedica spazio particolare, ancora una volta, alla sua prospettiva clinica, che dobbiamo cercare nelle diverse edizioni del Trattato e nelle ultime opere a cui si dedicò negli anni 1918-20.
Nelle Memorie appare piuttosto il suo interesse per la psichiatria comparata.
Racconta di un viaggio a Giava, nel 1905, con lunghe visite all’Ospedale di Buitezorg ove ha modo di studiare la patologia degli indigeni.
Nota che la maggior parte dei malati, in misura superiore a quanto accade in Germania, soffre di dementia praecox e di contro v’è totale assenza di quadri “marcatamente melanconici” e di “tendenza al suicidio”.
“Anche le formazioni deliranti, che presuppongono dei bisogni affettivi già molto sviluppati, erano molto povere. Da queste e da altre osservazioni ricavai la convinzione che il progetto di una psichiatria comparata poteva far ben sperare in risultati concreti, e mi riproposi di proseguirlo non appena fosse stato possibile”.
E’ possibile che l’enorme fatica di Kraepelin, specie a proposito della dementia praecox, non abbia soddisfatto la rigorosità scientifica a cui ambiva. Cosicché ho l’impressione che la grande notorietà della sua sistemazione clinica, tale da impegnare in dibattiti gli psichiatri del tempo (incluso gli italiani: ricordo fra tutti Morselli, non del tutto in accordo con la sintesi kraepeliniana delle malattie mentali a parer suo troppo frettolosa per il criterio del decorso e dell’esito. Vedi F.Stok, 1989) e da essere recentemente ripresa negli Stati Uniti dal neo-krapeliniano DSM, non tenesse in debito conto la flessibilità del pensiero di Kraepelin.
La sua tesi centrale prevede, come scrive nella 5° edizione, la convergenza di anatomia, etiologia e sintomatologia.
Tuttavia, nella 7° edizione, prende atto della grossolanità e superficialità dell’osservazione clinica.
E’ così che il dato su cui poggia la costruzione nosografia è in realtà uno e così Kraepelin lo descrive:
“…ci sia permesso di riunire provvisoriamente una serie di quadri morbosi la cui comune caratteristica è costituita dall’esito in particolari stati di debolezza mentale”.
Più oltre:
“La vera essenza della dementia praecox è completamente oscura”. E ancora:
“Poiché la nostra conoscenza dei più grossolani fatti di osservazione clinica in questo campo è ancora così superficiale e non si può parlare affatto di una conoscenza, più profonda, etiologica, psicologica o anatomica della malattia (è possibile che) si debba abbandonare la denominazione collettiva, invero molto contestata e molto contestabile di dementia praecox, che ha solo un valore esplicativo e provvisorio”.
Così Kraepelin, all’apice della sua carriera di clinico e di teorico, ammette la relativa inconsistenza dei risultati e il fallimento della tesi centrale, la convergenza di anatomia, etiologia e sintomatologia.
Ho cercato traccia, nelle Memorie, della delusione che Kraepelin fa intendere nelle ultime revisioni del Trattato: ho trovato sostanzialmente un preciso riferimento al grande impegno con cui ha lavorato:
“Nei primi anni ero totalmente preso dal pressante lavoro al mio libro tanto che mi potevo prendere solo ogni tanto al massimo una mezza giornata da dedicare a gite nei dintorni”.
Tuttavia oltre ad aggiungere che la revisione del Trattato lo impegnò per quasi nove anni (siamo intorno al 1915), accenna che:
“Le tesi che esponevo andavano modificandosi spesso nel giro di pochi anni, e da parte mia non riuscivo neanche a verificare costantemente se i colleghi fossero o meno d’accordo, tanto più che non comunicavo loro le basi empiriche delle mie idee”.
Sembra la riflessione un po’ melanconica di un ormai scettico ricercatore solitario, che non cerca il consenso e che neppure ambisce a lavorare in gruppo, accettando senza evidenti flessioni psicologiche la delusione di un progetto non concluso.
Peter Hoff, parlando degli ultimi lavori dello studioso, datati 1918-20, conclusi da “Le forme della pazzia”, osserva che l’ultimo Kraepelin propone la tesi per la quale i processi morbosi attivano reazioni biologiche predeterminate che possono essere simili esteriormente malgrado le origini diverse. Cosicché la sintomatologia clinica non è di alcun aiuto in quanto si dimostra e qui concorda con il concetto di “Reazione esogena acuta” di Bonhoeffer nosologicamente aspecifica.
E’ invece Freud che verso la conclusione della Autobiografia scrive inattese parole di speranza a proposito delle psicosi:
“Capita frequentemente che la traslazione non sia assente in modo talmente assoluto da non consentirci di procedere con essa per un certo tratto: e effettivamente in alcuni casi di depressioni cicliche, di lievi alterazioni paranoiche, e di schizofrenie parziali si sono ottenuti, medianti
l’analisi, risultati indiscutibili. Per la scienza, comunque è stato certamente un vantaggio il fatto che in molti casi la diagnosi oscillasse per parecchio tempo fra l’ipotesi di una psiconevrosi e quella di una “dementia praecox”.
Concludo con questa intuizione terapeutica: Freud fa riferimento (mi pare) alla concezione allargata di Bleuler del “Gruppo delle schizofrenie” ma, soprattutto, mi piace pensare all’intuizione di un lavoro psicoanaliticamente orientato su quella che oggi riteniamo patologia al limite o “borderline”.
Note
1. Ricordo che Freud, nel 1891, scrive un volumetto di notevole interesse, “L’interpretazione delle afasie”, in cui non si allinea con la teoria affermata (di Broca e soprattutto Wernike): “ci siamo imbattuti in alcuni dati di fatto che ci hanno indotto a dubitare della
validità di uno schema basato essenzialmente sulla localizzazione”… “Abbiamo il diritto di confutare dice in sostanza che le afasie dipendano da una distruzione dei centri del linguaggio, per sostenere invece che tutte le afasie dipendono da un’interruzione
dell’associazione e cioè dall’interruzione di una via di conduzione. Per la valutazione della funzione dell’apparato del linguaggio in condizioni patologiche proponiamo la formulazione di Hughlings Jackson che tutti questi modi di reazione rappresentano casi d’involuzione funzionale dell’apparato a organizzazione superiore e corrispondono quindi a precedenti stati del suo sviluppo funzionale. In tutti i casi andrà dunque perso un ordine associativo superiore sviluppatosi successivamente e ne permarrà uno più semplice acquisito precedentemente”. …
2. Lo stesso Baillarger nel volume “Recherches sur les maladies mental, 1890, Masson” scrive il capitolo “de l’aphasie au point de vu psychologique”.
3. Kraepelin scrive nella 7 Ed. del “Manuale”, 1907: “La prima descrizione di alcune forme di Dementia Praecox la dobbiamo a Ecker che, nel 1871, in seguito alle osservazioni di Kahlbaum, descrisse sotto il nome di Ebefrenia quei casi in cui, dopo uno stato
iniziale melanconico, si sviluppa uno stato maniaco che poi passa rapidamente ad un caratteristico stato demenziale. Poiché questa estensione della denominazione sembra prendere piede, anche noi raccogliamo sotto forma di Ebefrenia tutte quelle forme di Dementia Praecox nelle quali, gradualmente o in seguito alle manifestazioni di un disturbo psichico sub-acuto, più raramente acuto, si manifesta uno stato di debolezza mentale di maggior o minor grado. Primi segni dai 14 ai 19 anni d’età (pazzia giovanile). L’Esordio può essere subdolo, in modo così impercettibile e con segni così indistinti da non essere più possibile stabilire il momento del vero della malattia. Considerata anche come colpevole difetto di carattere con atrofia di una personalità psichica in un determinato periodo di tempo”.
4. Faccio notare come l’accesso al simbolico, alla funzione alfa, nel bambino avviene, nell’ipotesi di Bion (1962), grazie alla attivazione della reverie della madre sui contenuti, sulle identificazioni proiettive che il bambino immette dentro di lei. La possibile lettura della
nascita del pensiero-funzione alfa nel bambino, frutto del rapporto del contenuto beta con la funzione di reverie materna come operazione simbiotica o diadica, viene smentita (anche se solo in un breve passo di Bion): egli scrive che la reverie materna avrebbe
effetto solo se si associa all’amore per il bambino e/o per suo padre (1962, Apprendere dall’esperienza). In questo modo, in maniera che Gaburri (comunicazione personale) definisce “implicita”, penso che Bion ritenga che l’accesso al pensiero, al simbolico, alla non-psicosi non possa prescindere da una dimensione di triangolarità, come Lacan.
5. Wundt si impone di lavorare su un Psicologia Sperimentale, ovvero utilizzando, come in medicina, la formulazione d’una ipotesi e la successiva verifica per mezzo di fatti provocati sperimentalmente.
6. Ben diverso l’atteggiamento di Freud con Fliess, al quale scrive:
“Quando parlavo con Lei e sentivo che Ella pensa così bene di me, mi riusciva persino di aver stima di me stesso, e l’immagine di convincente energia da Lei offerta rimaneva non senza influsso in me”.
Bibliografia
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Kraepelin e Freud: osservazioni da due autobiografie
Riassunto
Vengono presentate le autobiografie di due grandi della ricerca psicologica e psichiatrica centro-europea, Kraepelin e Freud, nati lo stesso anno, 1856, e immersi nello stesso mondo scientifico e culturale. Il taglio dato al lavoro si propone di fermare l’attenzione sul tema delle Psicosi, in particolare sulla dementia praecox, poi schizofrenia, cercando di cogliere, al di là dei modelli di ricerca, la storia delle vicissitudini e dei percorsi emotivi dei nostri.
Kraepelin and Freud: comments from two autobiographies KEY WORDS: psychiatry, psychology, psychosis, dementia praecox, schizophrenia
Abstract
The purpose of this paper is to introduce the reader to the biographies of Kraepelin e Freud: two fundamental authors of the Middle European psychological and psychiatric research who were born the very same year and were immersed in the very same scientific and cultural milieu. The paper’s tone is aimed to direct the reader’s attention towards the issue of Psychosis, in particular on the “dementia praecox” (later called “schizophrenia”), trying at the same time to follow – beyond the psychopathological research models – the history of the vicissitudes and of the emotional journeys of those two authors.
ecco l’interesse maggiore , o meglio l’emozione maggiore che ho provato nel leggere questo interessantissimo articolo è il richiamo a non fermerci sugli streotipi.Le maschere di Kraepelin e di Freud, le divulgazioni, i comuni luoghi comuni, i ‘Bignamini’ della storia psichiatrica che ci immobilizzano in posizioni che crediamo vere, ferme, giuste. Questo è giusto, quello no. Quello è cattivo, questo buono. Per fortuna articoli come questo ci sollevano dalla nostra superficialità e maleducazione quotidiana ricordandoci di conoscere, pensare e poi parlare e non l’incontrario.
Bello.
Kraepelin non cita Freud, e questi invece lo cita ma di striscio, più che altro utilizzando le sue diagnosi (pur criticando il termine “dementia praecox) e implicitamente riconoscendo quanto meno la fruibilità di esse. Anche ciò sembra confermare che la nosografia Kraepeliniana ha avuto il successo che ha avuto non tanto perchè largamente condivisa sul piano teorico, ma perchè costituiva, a fini epidemiologico -statistici prima che clinico-scientifici, una classificazione chiara, di facile utilizzazione,capace di offrire qualche utile criterio prognostico. Qualcosa di simile si può, credo dire oggi per il DSM 5.
Cè da dire che difficilmente Kraepelin può considerarsi il tipico campione dell’organicismo: Morselli, fra gli altri, lo accusava di eccessivo psicologismo e di abbandono della via maestra della ricerca anatomo – neurologica: quella che ha condotto anche a quella unità delle cattedre di Psichiatria e di Neurologia che alcuni di noi ricordano.
Certo, le strade di Psichiatria e Psicoanalisi sono state a lungo divise, anche per le diverse popolazioni cui si riferivano: la prima a quella delle istituzioni, la seconda a frange alto-borghesi economicamente e culturalmente privilegiate. Lo stesso Freud ha in qualche modo contributo alla scissione dichiarando l’inidoneità della psicoanalisi al trattamento delle psicosi.
Moltissime cose sono cambiate, ed è bello che uno psicoanalista autorevole come Carmelo Conforto ci parli di Kraepelin.