Vaso di Pandora

Effimeri entusiasmi e quotidiane sofferenze

Effimeri entusiasmi e quotidiane sofferenze

Introduzione al libro “Effimeri entusiasmi e quotidiane sofferenze, Storia del manicomio di Racconigi” di Moraglio Massimo, editore Araba Fenice

di Giuseppe Gazzera e Alessandro Vallarino

 

L’idea di approfondire lo studio della storia locale della psichiatria sorge da motivazioni di ordine diverso, che potremmo definire «collettive» e «personali».

Innanzitutto, la scoperta di un ingente patrimonio bibliografico e archivistico da salvaguardare e rendere fruibile. Questo patrimonio racconta la storia centenaria dell’Ospedale psichiatrico della provincia di Cuneo, nel più ampio contesto nazionale della disciplina e sullo sfondo degli avvenimenti di storia locale, dall’ultimo trentennio dell’Ottocento alla fine del «secolo breve».

 

In secondo luogo, l’esperienza del convegno A vent’anni dalla legge 180, promosso dal periodico «Il Racconigese» e dal comune di Racconigi alla fine del 1998, sulla scia delle numerose manifestazioni che a livello nazionale si sono succedute in occasione del ventennale della riforma psichiatrica.

Infine, l’idea di far crescere l’assistenza psichiatrica nel nostro territorio, fondata sul recupero della storia dei rapporti intercorsi tra i due termini della questione: la tutela della salute mentale e la realtà culturale e socioeconomica espressa da questo particolare contesto territoriale.

Il sorgere di questa idea coincide con un momento importante per la psichiatria sul piano normativo, tanto a livello nazionale quanto a livello locale: basti ricordare il definitivo superamento dell’istituzione manicomiale, ma anche l’approvazione di un nuovo Progetto Obiettivo «Tutela della Salute Mentale», che indica alcune linee guida per il triennio che si concluse nel 2000, nonché la diffusione del nuovo sistema dipartimentale di organizzazione dei servizi psichiatrici. A ciò corrisponde, sul piano locale, la chiusura dell’ospedale psichiatrico di Racconigi, l’individuazione dei criteri per l’applicazione di un nuovo progetto sanitario regionale, l’articolazione di un’ampia serie di servizi e strutture in dotazione al Dipartimento di salute mentale che serve il nostro territorio (unità operative previste dal piano sanitario regionale, tra le quali il centro di terapie psichiatriche residenziali che è in fase avanzata di costruzione proprio a Racconigi, e servizi originali, «leggeri», studiati appositamente per le caratteristiche del territorio e dell’utenza locali).

Non è questa la sede per approfondire il discorso intorno all’attuale predominio del paradigma bio-medico in psichiatria, frutto di una più generale ripresa delle concezioni del positivismo.

Vale la pena ricordare, però, che i manicomi ebbero grande diffusione proprio sotto la spinta delle teorie positivistiche, a cavallo tra Ottocento e Novecento, in piena belle époque, accanto all’imperialismo, al sorgere della «questione sociale» ecc. Siamo perciò in grado di individuare i rischi ai quali va incontro il riduttivismo di un’impostazione bio-medica in psichiatria che releghi in secondo piano le fondamentali considerazioni di ordine psicologico, antropologico e sociale intorno alla sofferenza psichica.

Sono quindi particolarmente appropriati i tempi per uno sguardo all’indietro, al contrasto stridente tra gli effimeri entusiasmi che accompagnarono la nascita del manicomio di Racconigi e la tragedia delle pratiche quotidiane consumate al suo interno.

Analizzando la pratica manicomiale – ormai lontana nel tempo, ma pur sempre ancora resistente nell’immaginario per via della sua prossemica architettonica e dalle sue ideologie – possiamo imparare a riconoscere quanto, forse inavvertitamente, dell’ospedale psichiatrico e del suo stile tuttora rimane nell’approccio terapeutico. Un’eredità, o forse una rifondazione, divenuta più rarefatta, subdola ed eterea, con il rischio, sempre presente, di «essere agiti» nel nostro fare psichiatria di tutti i giorni. Solo interrogando la storia possiamo sperare di riconoscere con maggiore consapevolezza questo rischio.

Questi anni di psichiatria senza manicomio ci hanno infatti insegnato come il manicomio non fosse solo un luogo geografico, un edificio, ma abbia rappresentato una modalità di relazione, alla quale quella particolare organizzazione degli spazi era funzionale. Una modalità che oggi può riprodursi nei contesti più svariati, «fuori» e «dentro» la psichiatria (l’ospedale civile, le strutture intermedie, il Centro di salute mentale, l’assistenza agli anziani e alle fasce deboli, l’integrazione dei cittadini stranieri).

E forse anche tradursi nel rischio di abbandono in un qualche «altrove» umano, relazionale, sociale o culturale. Se non saranno i rapporti all’interno dello staff, – sosteneva Franco Basaglia, – tra operatori e pazienti e tra lo staff e la società civile a cambiare, i risultati saranno uguali a quelli dei vecchi manicomi: queste parole credo possano estendersi oltre lo stretto ambito della psichiatria, soprattutto nella fase storica improntata al neo-liberismo che stiamo attraversando. Per questi motivi mi sembra importante assecondare il rinnovato interesse per la storia della psichiatria, che è storia anche (e forse soprattutto) delle continue mediazioni tra corpo sociale e follia, tra società e s-ragione.

Nella riflessione storica sulla psichiatria e sull’assistenza psichiatrica si possono individuare, con Andrew Scull e Fabio Stok, tre fasi principali.

Dapprima una fase celebrativa, sostanzialmente tesa a cogliere un percorso di razionalizzazione e di liberazione culminato con la nascita della psicoanalisi; si tratta di una storiografia spesso dalle smaccate caratteristiche agiografiche.

Un secondo periodo, di stampo revisionista, per molti aspetti originato dagli studi di Foucault, contraltare del precedente e collegato alla crisi della psichiatria. Si tratta di una storiografia dagli accesi elementi contestativi verso il sapere medico, capace comunque di operare una critica radicale del sapere psichiatrico; fino a negare talvolta, portata dai suoi stessi eccessi polemici e iconoclasti, la possibilità di una funzione emancipativa della psichiatria e delle discipline correlate.

Tra queste due storiografie, non solo in Italia, è esistita un’opposizione netta e pronunciata, che ha prodotto talvolta risultati notevoli, soprattutto per il confronto interdisciplinare che a volte l’ha caratterizzata. Dopo il sensibile calo di interesse espresso dagli storici e dagli psichiatri, soprattutto nella seconda metà degli anni ottanta, da alcuni anni si sta assistendo a una terza fase della storiografia psichiatrica, quella dell’attuale rinascita dell’interesse per la disciplina, «dentro» e «fuori» l’ambito degli addetti ai lavori, apprezzabile anche localmente.

Si tratta di una rinascita concentrata su studi focali e analitici, attenti ad aspetti particolari (la storia di una singola istituzione o di un determinato passaggio storico; di un concetto nosografico; dell’opera di un medico o di un internato ecc.), oppure rivolta a quella parte della follia, nascosta ma certo non trascurabile, che, a fianco di quanto accade nelle grandi istituzioni pubbliche e nei centri urbani maggiori, rimane a carico di istituzioni private, agenzie sociali, famiglie, piccole collettività di provincia.

Questi nuovi settori di indagine, che vanno ad arricchire una già eterogenea documentazione e una metodologia inimmaginabile negli anni settanta del Novecento, sono oggi da porre in relazione alla vicenda politica, culturale, economica della società.

Ma anche con i rapporti, subalterni, conflittuali o di collaborazione, tra psichiatria e potere civile, giudiziario, religioso e amministrativo, e tra la psichiatria e le altre discipline non mediche come l’antropologia, la filosofia, la religione, l’economia, il diritto. Gli indirizzi di studio, quindi, certamente non mancano.

Tra storia e medicina La riappropriazione della dimensione storica, scriveva Ferruccio Giacanelli, «si manifesta con tutta evidenza come un momento

essenziale per la comprensione dell’identità della psichiatria [e dello psichiatra] e la discussione su basi reali dei suoi strumenti concettuali ed operativi». A sua volta Fabio Stok metteva in luce l’esigenza di approfondire soprattutto la storia recente della psichiatria, la sua evoluzione nel corso del ventesimo secolo, gli intrecci fra il dibattito psichiatrico e quello, più in generale, relativo alla scienza medica e alle politiche sanitarie.

Anche sulla base di queste considerazioni abbiamo pensato che la storia del manicomio di Racconigi, che si dipana a partire dal 1870, possa offrire una prospettiva interessante sul senso che assume oggi una ricognizione del passato della psichiatria.

Molti, tra psichiatri e operatori, avvertono infatti l’esigenza di questa ricognizione, non tanto come accessorio erudito della collocazione professionale, quanto per la necessità di un esercizio critico della pratica e del sapere medico. Del «golem psichiatrico » occorre conoscere le origini e lo sviluppo nelle sue componenti sociali e umane, liberandosi dalle icone illuministe (come la liberazione dei folli dalle catene attribuita per tradizione a Pinel) ed evitando il rischio di proporre una storia a tesi, a uso ideologico, o peggio, una storia istituzionale, che consideri la psichiatria una mera branca della medicina. Senza queste operazioni, tra le altre cose, conseguirebbe un riassorbimento acritico, neanche troppo sorprendente alla luce di quanto sta

accadendo, della «rottura» epistemologica realizzatasi quarant’anni fa, a partire dalle esperienze di Gorizia, Arezzo, Trieste.

La strada da imboccare rimane quella della storia sociale, in grado di rileggere la storia del manicomio dalla parte di coloro che vi furono reclusi – i pazienti, in primo luogo, ma anche per molti aspetti gli infermieri e, in qualche caso, gli stessi psichiatri – e nel suo inscindibile legame con le vicende quotidiane del centro urbano di cui quel manicomio ha costituito ingombro, risorsa, imbarazzo e ricchezza.

La ricerca della specificità paradigmatica della psichiatria ha condotto a metterne in evidenza la sua funzione di disciplina chiave nella cultura positivistica e neo-positivistica. C’è una ripresa dei rapporti interdisciplinari, non solo tra psichiatri e storici, rivitalizzata dalla ricognizione e dall’analisi dei fondi archivistici e bibliotecari degli ex manicomi. Emerge una storiografia orientata al quotidiano e alle microstorie, importanti elementi di discontinuità rispetto all’egemonia storiografica del passato, in cui il manicomio era un monolite nella mediazione tra manicomio e società. Tuttavia, è ancora carente lo studio della psichiatria del Novecento, l’esame sistematico della separazione verificatasi tra psichiatria universitaria e psichiatria manicomiale e della «fusione» tra psichiatria e neurologia (che portò ad esempio a denominare i manicomi con l’abbreviativo «neuro»); e infine l’analisi dei legami tra psichiatria e storia italiana, dalla prima guerra mondiale, attraverso il fascismo, al secondo dopoguerra.

Talvolta i tanti interrogativi che gravano sul presente non lasciano il tempo per lo studio della storia dell’assistenza psichiatrica.

Le urgenze odierne dell’azione di assistenza riguardano i modi della definitiva chiusura degli ex manicomi, lo sviluppo di una neo-imprenditoria psichiatrica privata, quella delle strutture intermedie, le trasformazioni dell’utenza che si rivolge ai servizi psichiatrici, i nodi organizzativi prioritari posti dal passaggio dei servizi alla dimensione dipartimentale e dal processo di aziendalizzazione in corso nella sanità.

Eppure alcune domande rimangono sempre aperte. Quale psichiatria vogliamo fare? Quale psichiatria ci chiedono la società, i politici, i direttori generali, le forze sociali, le famiglie, gli utenti? Quale psichiatria è più efficace sulla base delle rilevanze scientifiche acquisite? Quale antropologia fonda e giustifica, oggi, l’agire quotidiano della psichiatria?

Ritengo che a queste, e ad altre, pressanti domande, efficacemente sintetizzate da Luigi Ferrannini e Antonio Maria Ferro, l’indagine storica sulla psichiatria possa (e debba) offrire gli spunti per una risposta che, tenendo in conto l’avvertimento di Cristiano Castelfranchi, suggerisca il passaggio definitivo da un approccio «tecnologico» – quello del controllo farmacologico e della rigida sistematizzazione delle attività nei luoghi di cura – a un approccio «sociale», informale e flessibile, fondato sull’intreccio tra cura e vita. Tutto ciò per ribadire che il segno sotto il quale si debbono compiere operazioni di ri-costruzione della memoria psichiatrica non è quello di una specie di necrofilica o edulcorata nostalgia.

E neppure quello di una sorta di rievocazione apotropaica del «mostro», finalizzata al suo – si pensa, definitivo – esorcismo.

Rimane in tutti noi la consapevolezza, espressa da Del Giudice, che «il manicomio rimane realtà immanente e facilmente riproducibile,

anche se in forme rinnovate: rimane crocicchio da attraversare dentro le nostre teste e pratiche, è imprescindibile lettura della scienza psichiatrica». Non si tratta semplicemente di decidere di prendere le distanze: si correrebbe il rischio di cadere nello stesso atteggiamento degli psichiatri positivisti di fine Ottocento, i quali liquidavano come irrazionali e barbare le pratiche dei loro predecessori prima e durante l’epoca di Pinel, secondo loro incapaci, questi ultimi, di percepire la violenza e l’empirismo di cui era intrisa la loro tecnica manicomiale, una violenza e un empirismo che però, tuttora, occultati dalla ratio di un nuovo progetto scientifico, possono riemergere. Come sostengono Antonio Maria Ferro e Paolo Peloso, «la ricostruzione di un archivio della memoria (orale, scritta, iconografica) del manicomio [è utile] per evitare che più ci se ne allontana e ne sbiadisce l’immagine, più crescano “i rischi che muri nuovi vengano ricostruiti: nuove mostruosità dietro le mura, nuove regole per nuove esclusioni, nuovi confini per nuove separazioni”».

Una raccolta di scritti sull’esperienza della psichiatria nella nostra provincia rappresenta dunque un tentativo di esaminare a fondo lo svolgimento complessivo del fenomeno. L’orizzonte è costituito dal contesto socio-politico delle varie epoche che ha attraversato e dal processo che condusse, contemporaneamente, all’affermarsi della psichiatria come disciplina separata dalle altre. Un dato particolarmente interessante oggi, nel momento in cui la chiusura definitiva del manicomio, ma soprattutto la faticosa definizione di un modello alternativo, seppure qui con vent’anni di ritardo rispetto ad altre zone d’Italia, apre una nuova fase del lavoro in psichiatria, il cui primo obiettivo deve essere una vigile attenzione a non riproporre gli errori del passato, senza per questo esaurire la complessità del problema psichiatrico a sterili battaglie ideologiche.

 

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