Gruppi: quello che penso
1) Quello che inizialmente è successo.
Mi sono avvicinato alle dinamiche di gruppo alla fine degli anni ’60 quando la psicoanalisi da terapia (in Italia) che si occupava quasi esclusivamente di pazienti nevrotici trattati nello studio privato dell’analista, iniziò a coinvolgere psichiatri (soprattutto) che lavoravano in Istituzioni cliniche, specie universitarie ed erano quotidianamente a contatto con la realtà delle psicosi, degli elettro-shock e dei primi psicofarmaci.
In quegli anni pochi analisti che avevano avuto esperienze cliniche con psicotici e che si erano dedicati alla pratica e alla nascente teoria sul come e perché degli stati psicotici iniziarono, direi inevitabilmente, ad approfondire la conoscenza delle dinamiche di gruppo e a utilizzare i gruppi a scopo terapeutico.
Questo perché l’avvicinarsi alla psicosi attraverso il vertice psicodinamico, ovvero tentando di penetrare i livelli più arcaici della mente dell’uomo, si rivelava in qualche modo vicino a certe dimensioni dei gruppi (specie i piccoli gruppi) che, in determinate condizioni d’osservazione apparivano governate da funzioni della mente gruppale massificanti, primitive e tendenti ad annullare il pensiero autonomo dei vari componenti. Ovvero, in qualche modo il gruppo tendeva a proporre all’osservatore-terapeuta osservazioni fenomeniche e vissuti contro-transferali non dissimili da quelli provocati dagli stati psicotici.
Non dimentichiamo che proprio in quegli anni o poco prima erano arrivate in Italia le prime traduzioni di Autori che si stavano non da molto (dal dopo-guerra, quasi tutti) occupando della teoria del trattamento degli stati psicotici (ricordo il gruppo kleiniano, Rosenfeld, Segal in Inghilterra e negli Stati-Uniti Sullivan, la Fromm-Reichmann, Arieti, Searles).
Cosa accadeva in quegli anni in Italia? Il processo al Manicomio era in pieno svolgimento e il percorso di Basaglia e di Psichiatria Democratica era in atto. E’ interessante ricordare che Basaglia, nel ’62, visitò il primo ospedale psichiatrico aperto, gestito come una della prime Comunità terapeutiche da Maxwell Jones, instaurando la pratica delle riunioni di gruppo tra pazienti e personale curante. Per quanto riguarda il nostro tema in Italia, a Firenze una psichiatra-psicoanalista, Graziella Magherini, aveva , a metà degli anni ’60, iniziato a occuparsi della formazione degli infermieri, coniugando la dimensione del piccolo gruppo con l’esperienza psicoanalitica (non certo con la tecnica psicoanalitica). Come ho ritrovato nel libro della Babini (2009)[1] in quegli anni alcune Cliniche Universitarie (Pavia, Genova, Roma, Napoli) si aprono alla psicoanalisi e alcuni medici (parlo adesso della Clinica di Genova) iniziano il faticoso percorso verso l’apprendimento (a Milano) della psicoanalisi individuale e/o di gruppo. Anch’io salgo in treno ma è innanzitutto la terapia di gruppo a stimolare i miei interessi, immaginandola terreno terapeutico sia con i pazienti istituzionalizzati che ambulatoriali, nell’ambito delle attività terapeutiche che insistono sulla Clinica.
2)
Qualche cenno sulla nascita della psicoterapia di gruppo.
Trascurando il “prima” (Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’io, 1921),
l’avvio della terapia analitica di gruppo avviene in Inghilterra tra gli anni ’40 e ’46, durante la guerra, quindi, e a causa della guerra , in particolare. Alcuni ufficiali medici di orientamento analitico, Bion (in analisi con Rickman dal ’38), Main, Rickman stesso, Foulkes, vennero chiamati ad occuparsi della psicopatologia dei militari reduci da situazioni assolutamente traumatiche. L’esperimento terapeutico più audace é quello promosso da Bion, presso l’Ospedale psichiatrico militare di Northfield, che viene da allora proposto come l’inizio
della psicoterapia di gruppo e delle impostazioni delle prime Comunità terapeutiche. Per non dilungarmi eccessivamente su l’avvio della attività di Bion, ricorro a un suo scritto sul Bulletin of the Menninger Clinic del 1946[2]:
<<…in sostanza era essenziale individuare quali problemi interessavano la comunità in quanto tale, in opposizione a quelli relativi ai singoli individui…Bisognava bloccare la fuga dal disturbo nevrotico e cercare un modo diverso di liberarsi del disturbo…A questo scopo si organizzarono discussioni in piccoli gruppi. In questi gruppi fu lasciata libertà simile a quella di libera associazione: non ne fu fatto abuso. Questi incontri…divennero spontaneamente il luogo ove studiare le tensioni intra-gruppali. Questo studio fu considerato il fine principale dell’intero gruppo e dei gruppi più piccoli al suo interno… Obiettivo del reparto era lo studio delle tensioni interne, col fine di mettere a nudo l’azione dei meccanismi nevrotici, come cause di frustrazione, spreco di energie e infelicità in un gruppo>>.
Naturalmente il lavoro di Bion e di Rickman disturbava e metteva profondamente in discussione l’operatività di quella gran parte dell’Ospedale che seguiva metodi tradizionali, esprimeva dissenso nei confronti dell’autoritarismo medico e suggeriva come terapeutico il percorso alla ricerca di uno spazio per pensare piuttosto che l’obbedienza regressiva all’autorità del medico . Così l’esperimento di Northfield ebbe fine. Non certo le idee che lì erano sorte. L’attacco distruttivo della Istituzione venne avvicinato da Sutherland al concetto di sabotatore interno da poco coniato dallo psicoanalista scozzese Fairbain e lo stesso Bion parlerà a questo proposito di “Mentalità di gruppo” a proposito degli impulsi distruttivi volti a proteggere lo stato del gruppo da ogni cambiamento. Nello stesso anno Main scriveva a proposito della sua gestione pionieristica di un ospedale psichiatrico gestito come comunità terapeutica ([3]da Trist, op.cit.):
“I pazienti appartengono alla comunità che li deve curare e che possiede loro e i medici…. I pazienti, come il medico, devono essere liberi di discutere il senso della vita quotidiana in ospedale, di identificare e analizzare i problemi, creare premesse per progetti nuovi e attivare entusiasmo per la vita di gruppo.” Peraltro in questo mio lavoro non mi occuperò ulteriormente di Main, alle prese nel suo lavoro con le dinamiche del gruppo allargato, come scrisse in un lavoro del ‘75[4] , in cui il numero dei membri raggiunge o supera i 20 ed in cui governano i processi proiettivi , portando a situazioni caotiche e a punti morti. Bion, al contrario, conclusa l’esperienza bellica, si ispirò, nel suo lavoro clinico-teorico, alle dinamiche del piccolo gruppo e di questo tipo di gruppo ora mi occuperò.
3)
BION e la psicoterapia analitica DEl GRUPPO-
Bion ritorna dopo la guerra a lavorare alla Clinica Tavistock e si occupa di Gruppi terapeutici.
Ricordo che in precedenza Bion aveva intrapreso un’analisi con Rickman e si stava avvicinando a Melanie Klein, con cui fece un’analisi (1945-1953) che gli permise di essere accettato come membro della Società Britannica di Psicoanalisi. Ricordo questo aspetto del percorso di Bion[5] per sottolineare che le sue prime intuizioni teoriche sui gruppi si svilupparono in un periodo antecedente al rapporto con la Klein e forse da ciò nasce l’originalità e l’indipendenza del pensiero di Bion. Ho detto che il suo lavoro con i gruppi viene definito psicoterapia analitica DEL gruppo, differenziandola da altri contemporanei come Foulkes che propone un’analisi dell’individuo NEL gruppo. Ritornando a Bion credo difficile dire quanto dei suoi lavori sui gruppi è espressione di una sua libertà di pensiero (come è in gran parte vero) e quanto risenta della relazione (analitica e non) con le nuove teorie della Klein. E’ indubbio che i contributi che Bion produsse in quello che Bléandonu [6]chiama “Il periodo psicotico” (1950 Il gemello immaginario – Attacchi al legame, 1959), furono lavori che pur nella loro originalità risentono della presenza dei modelli kleiniani . Peraltro è noto che la data di pubblicazione del libro Esperienze nei gruppi, 1961, può ingannare, in quanto i lavori presenti in esso vanno dal 1943 al ’49, mentre l’ultimo capitolo, Una revisione, è del ’52.[7] Marcoli (in un libro assai interessante) sostiene(1988[8]) che Bion abbia pubblicato in ritardo il volume a ridosso della pubblicazione di due saggi fondamentali Apprendere dall’esperienza e Una teoria del pensiero (1962), ovvero in un momento in cui il suo nome stava acquistando un forte prestigio in seno alla Società Britannica. Con quella sorta di umorismo che lo caratterizza Bion inizia il suo Esperienze nei gruppi (di cui cercherò di inseguire in non facili passaggi) in questo modo: “Agli inizi del 1948 il Comitato tecnico della Tavistock mi chiese di istituire dei gruppi terapeutici, utilizzando le mie tecniche personali. Non sapevo in realtà a cosa si riferisse il Comitato, ma era evidente che a suo giudizio avevo già ‘diretto’ prima
dei gruppi terapeutici….Era sconcertante scoprire che il Comitato sembrava credere che i pazienti potessero essere curati in gruppi del genere….Ciò nonostante accettai…[9]”.
Il suo ruolo di conduttore è centrata su la funzione di osservatore partecipe, che da un lato lo costringe a controllare i suoi vissuti nei confronti di ciò che il gruppo gli rimanda , a compiere
un continuo lavoro di auto-analisi (potremmo dire, richiamando l’analisi individuale, lavoro sul contro-tranfert). Questo atteggiamento di apparente distacco e osservazione (che io stesso ho rilevato partecipando ad una serie di seminari tenuti da Bion a Roma nel 1977[10]) è indirizzato in primo luogo “a illustrare il lavoro mentale del gruppo”, rendendosi conto della propensione dei singoli individui a essere coinvolti in questa massiva attività del gruppo.
Questo primo tema, che diverrà poi centrale attraverso l’individuazione degli Assunti di base, verrà peraltro da Bion messo al centro del suo modo di vedere il conflitto di fondo d’ogni individuo. Scrive nel 1959 in Cogitations[11] (raccolta di appunti sparsi in circa 20 anni) : “ Una divisione fruttuosa ..è tra il narcisismo da una parte e quello che chiamerò socialismo dall’altra. Con questi due termini intendo indicare i due poli di tutti gli istinti. Questa bipolarità degli istinti si riferisce al loro funzionamento come elementi nel compiersi della vita di ogni individuo e come elementi della sua vita in quanto animale sociale, o, come avrebbe detto Aristotele, come animale ‘politico’. Tornando a “Esperienze..”, cercherò di mettere a fuoco quelle Bion ha colto come tematiche fondamentali nel piccolo gruppo.
– Il desiderio e la ricerca di una capo, non necessariamente rintracciato nella figura del terapeuta (pensiamo all’atteggiamento d’attesa delle associazioni e dei movimenti affettivi del gruppo da parte del conduttore, atteggiamento che può apparire deludente al gruppo ove “tutti si aspettano che faccia qualcosa”.
– Bion inizia a interpretare: “Dico al gruppo che mi sembra che siamo intenzionati ad avere un capo e che il capo che vogliamo sembra possedere certe caratteristiche, con le quali mettiamo a confronto quelle dei vari individui che via via passiamo in rassegna.|….| Nello stesso tempo sarebbe molto difficile dire, sulla base dell’esperienza fatta fin qui, quali siano queste caratteristiche desiderate”.
– L’apparente futilità dei temi trattati dal gruppo si associa a uno stato del gruppo carico di “emozioni che esercitano un’influenza potente, e spesso inosservata, sull’individuo. Il risultato è che vengono stimolate le sue emozioni a tutto danno delle sue capacità critiche”.
– La capacità del singolo individuo di utilizzare positivamente la terapia si evince dall’essere scarsamente influenzato dalle coinvolgenti emozioni del gruppo e di trarre allora profitto dall’esperienza “..se diventa più preciso nel valutare il proprio atteggiamento emotivo”. L’osservazione dell’individuo all’interno del gruppo è da Bion sempre alternata all’osservazione dei movimenti del gruppo nel suo insieme, attraverso la capacità di utilizzare quella che chiama visione binoculare. Bion così ne parla: “Ho la sensazione come di guardare al microscopio una sezione troppo spessa. Con un fuoco vedo una certa immagine, forse non del tutto chiara ma abbastanza distinta. Se cambio fuoco lentamente ne vedo un’altra”.
– Ipotizza che la forza emotiva che coinvolge massivamente il gruppo e che definisce “mentalità del gruppo” sia “l’espressione unanime del volere del gruppo, alla quale i singoli individui contribuiscono in maniera anonima”. Cosicchè Bion , proseguendo la sua esposizione, meglio definisce il conflitto tra la mentalità di gruppo e i desideri del singolo. Riporta, per chiarire questo tema fondamentale, alcune interpretazioni: ”Penso che il gruppo in questi ultimi cinque minuti si sia coalizzato per mettere a disagio chiunque volesse dire o fare qualcosa per aiutarmi a dare altre interpretazioni”. Oppure: “ Il signor X ha delle difficoltà perché desidera che venga affrontato un suo problema personale, ma ha la sensazione di potersi urtare col resto del gruppo se insiste nel suo tentativo”.
– Nel fondamentale 3° cap. , che aveva già visto la luce la luce nel 1949 in “Human Relations”, entra meglio nel merito della vita emotiva gruppale scoprendo che “alcuni modelli di comportamento (del gruppo) erano ricorrenti”. Chiama questi modelli “Assunti di base”, premettendo che lo scopo (inconscio) delle persone che si incontrano in gruppo è quello di preservare il gruppo.
– Il termine Assunto di base (di cui Bion tratta nei capitoli 3 e 4) riguarda quindi un progetto del gruppo(nel suo insieme), che ha potere aggregante( pur nel suo essere inconscio) e diretto a uno scopo, che, come prima ho accennato, riguarda l’esigenza di proteggere il gruppo dalla sua distruzione. In questo modo, aggiungo io, implicitamente il riferimento di Bion è a uno stato di continuo allarme che non abbandona mai il gruppo nel suo insieme. Ne possiamo ipotizzare un’origine arcaica, filogeneticamente erede di angosce che si opponevano alla “conoscenza” come oggi la intendiamo.? Potremmo leggere in questa direzione le parole di Bion: “Il singolo sente che in gruppo il benessere individuale è un problema di importanza secondaria: il gruppo ha la precedenza; durante la fuga il singolo viene abbandonato poiché la necessità più importante è che il gruppo, e non l’individuo, possa sopravvivere” (p. 72). Come riprenderà in altro contesto in effetti Bion parla delle massive e coinvolgenti azioni (inconsce) del gruppo in AdB, come di attività mosse dal sistema proto-mentale, inscritto ( a mio parere) nell’inconscio collettivo arcaico dell’uomo e indisponibili alle attività mentali dell’uomo che Bion chiama ricerca della conoscenza (K).
– Come premessa alla descrizione dei tre Assunti, preciso che due di essi, come vedremo, riguardano emozioni e funzioni adulte, la terza propone al contrario bisogni, condizioni affettive infantili.
– Ho parlato di gruppo in pericolo e per questa ragione Bion definisce un Assunto “Attacco e fuga”. In esso è particolarmente presente la rappresentazione di un nemico, sconosciuto in realtà ma attivamente cercato (un membro assente, l’insoddisfazione nei confronti del terapeuta) e, contemporaneamente, l’elezione di un capo che guidi il gruppo (in genere un membro con aspetti paranoicali). L’odio è lo stato d’animo più evidente e la dimensione terapeutica e il terapeuta stesso vengono provvisoriamente destituiti. Un secondo assunto è descritto come “ Accoppiamento” (la “fenomenologia” che Bion descrive è espressa da “.. due membri del gruppo si trovano ad un certo punto coinvolti in una discussione/…/era evidente che erano impegnati in un rapporto a due e che anche il gruppo nel suo complesso aveva questa sensazione”. L’impressione di Bion è che quando si verifica questo tipo di relazione (e il gruppo si mostra consenziente) sembra che si stia assistendo a “…una relazione di tipo sessuale”.
(p. 70). Dirà in altre pagine (“Revisione” p. 160) che in quelle occasioni “..c’era una aria particolare di speranza e d’aspettativa”. Sentimenti che “..si trovano all’estremo opposto da quelli di odio, disperazione” dell’Assunto Attacco-fuga. Nell’A- Accoppiamento, inoltre, non vi è un capo, sostituito da un sentimento di speranza salvifica legato all’attesa che dall’accoppiamento sessualizzato venga prodotto un messia o una nuova idea (messianica) che salverà il gruppo dai pericoli, dall’odio distruttivo.
Infine nel terzo Assunto (Dipendenza) il gruppo si propone con le dimensioni emotive di un bambino fragile, in difficoltà, alla ricerca di un genitore (il terapeuta, questa volta) da cui dipendere e trovare salvezza. La ricerca di un genitore nel terapeuta non implica tuttavia che il potere di quest’ultimo derivi dalla sua scienza quanto dall’attribuzione di capacità magiche (p.92). In questa descrizione Bion parla di atto di fede nella magia, una sorta di religiosità primitiva a cui il gruppo s’aggrappa.
–Il gruppo di lavoro. Questo tema fondamentale è introdotto da Bion nel capitolo 5.
Inizio a parlarne con le parole di Bion: “Vi sono alcune idee che hanno un ruolo preminente nel gruppo di lavoro: è parte integrante di esso non soltanto l’idea di “sviluppo”, al posto di quella dell’” essere dotati per istinto”, ma anche la coscienza del valore di un approccio razionale o scientifico al problema”.
Nel gruppo di lavoro il terapeuta viene assunto dal gruppo come tale, ma in un’accezione particolare. Ovvero le interpretazioni non vengono indirizzate al problema che il singolo individuo propone: “Quando cedevo alla tentazione di dare delle interpretazioni individuali, la mia leadership del gruppo consisteva più nell’esprimere l’ansia che nello spiegare una realtà esterna percepita con chiarezza”.(p.125). E’ nel capitolo 6, paragrafo Il dilemma dell’individuo e poi nel capitolo 7 che Bion cerca di chiarire (sembra più che affermare, alludere) quale è l’obiettivo dei suoi interventi, cioè “..la lotta che il singolo compie per conservare la sua individualità” (p.145), ovvero per non essere trascinato dalla valenza propria ad ogni individuo a assecondare gli A.B. Nuovamente, con espressioni che sfiorano il paradosso conclude: “ Secondo me uno degli aspetti più sorprendenti di un gruppo è il fatto che, nonostante l’influenza degli assunti di base, il gruppo razionale o di lavoro alla fine riesce a trionfare”.
4- Qualche riflessione ulteriore sui vertici bioniani.
Quello che voglio segnalare è che in “Esperienze nei gruppi” Bion preannuncia, anticipa, quelli che saranno temi fondamentali della sua ricerca. Innanzi tutto, come Grotstein [12]scrive: “Formulò l’idea che un gruppo consiste di individui ma ognuno, seppure individuo a pieno titolo, racchiude anche un Sé gruppale.” (p.209). Poi l’affermazione che ogni gruppo di lavoro è in qualche modo assediato dal gruppo in assunto di base, pronto a scalzarlo e a sostituire all’attività mentale capace di creare pensieri, la massificante azione di stati emotivi protomentali. In questo scontro tra le due condizioni è fondamentale la funzione del conduttore, in grado, scrive ancora Grotstein: “… di esperire, poi di intuire e infine di interpretare le angosce” che costringono il gruppo a ricorrere agli Assunti (op.cit., p211). Bion anticipa qui quelle che nelle opere successive [13]definirà come funzioni specifiche dello psicoanalista (lo penso anch’io), ovvero la funzione di reverie e il rapporto tra contenitore-contenuto. Bion avvia un percorso che trova la sua fondazione nel lavoro con i gruppi e i pazienti psicotici, là dove concepisce la sua teoria del pensiero . L’intuizione, la rivelazione dei proto-mentali assunti di base come dotazione di ogni gruppo (e interni ad ogni individuo) e il loro cedere alla presenza di pensieri (Gruppo di lavoro) anticipano l’ambizioso progetto di scrivere (Blèandonu, op.cit, p-157) una genesi della mente capace (sia pur relativamente) di indagare se stessa.Compaiono gli elementi beta, allarmanti, che rimandano a una sorta di patrimonio (nuovamente) proto-mentale che non produce pensieri ma cose in sé, emozioni confuse, non riconoscibili dal soggetto, proiettabili per essere trasformate. Bion affida questo compito fondamentale, alla funzione alfa, “…pietra portante del processo della conoscenza”(Blèandonu,op.cit, p.165). L’operare attraverso la funzione alfa è originariamente compito della madre, e, viene proposto, ambiziosamente, forse, dell’analista. Il contenitore materno (o analitico) agisce lavorando sugli elementi beta proiettati, attraverso la réverie Questo termine, forse abusato nel nostro lavoro, non riceve da Bion grandi spiegazioni, pensato credo come una funzione implicitamente, filogeneticamente presente nella madre sia pur a livelli inconsci.
Bion scrive: “…il neonato è ancora incapace di elaborare i dati sensoriali; può solo evacuarli nella madre conferendo a lei la possibilità di eseguire quelle operazioni necessarie a convertire i dati in una forma utilizzabile per essere impiegati dal neonato come elementi alfa /…/L’organo recettore di questa massa di dati sensoriali sul Sé raccolti dal neonato per mezzo del suo conscio è costituito dalla facoltà di “réverie della madre”[14](1962,a,p.178).
Proseguo nelle citazioni di Bion, a rischio di apparire noioso. Scrive in “ Apprendere dall’esperienza” (1962b[15],p. ): “..réverie sta a designare lo stato mentale (della madre, dell’analista) aperto a tutti gli “oggetti” provenienti dall’oggetto amato, quello stato cioè capace di recepire le identificazioni proiettive del bambino”(p.73) Aggiunge nella stessa pagina: “ Se durante l’allattamento la madre non può permettersi la réverie– o se può permettersela senza però associarla all’amore per il bambino o per suo padre- questa incapacità, pe quanto per lui incomprensibile, verrà comunicata al bambino e una certa qualità psichica sarà convogliata nei canali di comunicazione, cioè dei legami tra madre e figlio).
Questeintuizioni, che riprendono, chiarendole, le funzioni del conduttore (già intuibili in “Esperienze..), indicano la funzione di fondo del nostro lavoro , sia che ci si trovi in gruppi terapeutici, “esperienziali” (su cui mi soffermerò) o ancora nell’analisi diadica. La réverie è intesa (a mio parere) come un percorso madre- bambino o analista-gruppo/paziente, che viaggia nei due sensi e che si propone come legame (emotivo) di amore (L), odio (H), conoscenza (K) a cui dobbiamo attenzione e risposta. “L, H, K, sono le componenti della passione. La passione deve essere condivisa per qualificarsi come tale; essa veicola l’emozione della sofferenza e quella del calore. E’ una condicio sine qua non della capacità di contenimento dell’analista”. (Grotstein, op. cit. p. 340), Non mi soffermerò sul –K , espressione con cui Bion definisce il percorso che spinge l’analista a restituire al paziente o gruppo formulazioni bugiarde, non tollerando l’angoscia delle emozioni proiettate dentro di lui, intollerabili perché ancora destituite di significato, gravanti pericolosamente sul “contenitore analitico, allora espulse prima che la tolleranza (la “Capacità negativa che Bion riprende dalla lettera di Keats[16]) consenta la percezione della Gestalt intesa come “fatto scelto”.
Proseguo proponendo quello che Antonino Ferro (1992) scrive della réverie, definendola come risultato della : “…permeabilità e disponibilità mentale ed emotiva alla comunicazione dell’altro, comprese le identificazioni proiettive, la messa in opera della funzione alfa, dei pensieri onirici della veglia e la capacità di contatto con questi ultimi nel momento della restituzione dello stato emotivo assunto[17]. (p.118).
Da parte mia sottolineo come questa funzione (che è poi la sorgente dell’interpretazione) è proposta, se efficace, nella formulazione iniziale di Bion, come funzione di un legame triangolare. La triangolarità proposta come condizione, luogo della mente (materna, analitica) che consente la creazione di uno spazio psichico dal quale “..osservare le cose.” (Britton, 2000, p.69[18]). Ricordo peraltro che anche Lacan[19], propone la possibilità di accesso al symbolique là dove è consentito l’ingresso del significante del nome del padre, onde avvenga il fondamentale passaggio dal registro dell’ imaginaire, inteso come mondo in cui la relazione a due, funzione materna e bambino, escludono il pensiero, l’apprendere dall’esperienza, a cui è sostituito lo statuto del delirio, dell’allucinazione, di quella condizione difensiva che Freud chiamò diniego o rinnegamento (Verleugnung[20]) (direi, con Bion, l’impossibilità a trasformare gli elementi beta in alfa).
5- I GRUPPI “ESPERIENZIALI”
Scelgo ora di presentare una delle modalità (a me particolarmente cara e di cui ho fatto ampia conoscenza) attraverso cui l’arrivo in Italia di Bion (inizialmente solo i suoi scritti), il suo modo di intendere il gruppo (e, insieme, la psicoanalisi) è stato utilizzato, e, credo, abbia avuto un percorso creativo. Non parlerò della conduzione di gruppi terapeutici (peraltro praticata), quanto di una particolare attività sviluppata in Istituti Universitari e istituzioni private, appunto i “gruppi esperienziali”.
Lo sviluppo dei gruppi “esperienziali” ha una “storia”(in qualche modo resa ufficiale da libri e memorie)[21], i cui protagonisti sono innanzitutto Francesco Corrao, analista palermitano,[22] e alcuni giovani analisti in formazione, soprattutto romani, docenti universitari nel corso di laurea in Psicologia o impegnati come operatori nella Clinica Psichiatrica (siamo all’inizio degli anni ’70 e ricordo che “Esperienze nei gruppi” arriva tradotto nel 1971) interessati all’allora scarsamente conosciuto lavoro di Bion (ricordo tra essi, per esserne stato , pur saltuariamente, un partecipante, Neri, Barnà, Seganti, Correale, Bonfiglio, De Toffoli). Viene trovata una sede in via Pollaiolo, a Roma, da cui il gruppo prese il nome e Corrao si impegnò come supervisore.
Quale il senso del progetto “Gruppo esperienziale”? Come ricorda Longo,[23], uno dei protagonisti, il “contratto” che lega i partecipanti è quello di lavorare alla ricerca della “esperienza” delle dinamiche del gruppo e al loro riconoscimento, lasciando tra parentesi la funzione terapeutica. Scrive Longo: “Nel gruppo sono evidenziabili relazioni dinamiche che intervengono tra i partecipanti e il loro stesso <<insieme>>. Questo si configura come un oggetto unitario transpersonale”- Osserva ancora (seguendo appunto Bion) il procedere del gruppo tra momenti di confusione (Assunti e elementi Beta) e “trasformazioni” in cui si aprono aree di pensiero (ovvero il passaggio nella direzione di K). Cercherò di chiarire meglio questi passaggi e Gestalt del gruppo attraverso la presentazione della mia esperienza.
6) I MIEI GRUPPI “ESPERIENZIALI”
Ho condotto nella Clinica Psichiatrica di Genova, per circa 20 anni gruppi “esperienziali” o di “formazione” con specializzandi, volontari, naturalmente[24]. Ho usato il termine “formazione” poiché non mi sembrava pensabile che uno psichiatra, riconosciuto dall’Ordine come psicoterapeuta, non avesse alcuna esperienza delle passioni che scorrono nel mondo interno proprio e del paziente e del possibile avvicinarsi alla rivelazione del significato. L’esistenza del mondo oggettuale inconscio, allora, si sarebbe limitato ad un apprendimento delegato solo alle conoscenze didattiche, ovvero razionali e memorizzabili, facilmente, a mio parere, utilizzabili come strutture difensive del terapeuta.
La struttura dei gruppi prevedeva una sua attivazione attraverso la lettura di un breve testo, portato di volta in volta da un partecipante. Il compito del gruppo era quello di “produrre associazioni” sul testo , che, ambiguamente, era da me proposto e come sogno di un immaginario paziente sia, inevitabilmente, come produzione del gruppo, significante di significati che si rivelavano portatori delle strutture emotive inconsce del gruppo stesso. Così il gioco associativo e rivelativo che andava instaurandosi tra testo letterale e vita emotivo-fantasmatica costituiva il tessuto sul quale si costruiva il percorso conoscitivo.
Ciò che ho (intra)visto nello svolgersi di tanti incontri in tanti anni mi ha ricondotto nuovamente a Bion e a quanto scrive nella “Revisione” (op. cit.) intorno alla animazione gruppale di una assai primitiva traduzione del mito edipico. Ovvero, al di là della conflittualità triangolare (il conflitto edipico) peraltro spesso occultata nel gruppo di “formazione” , l’incontro con altre componenti del mito, la tragica curiosità di Edipo, la conoscenza del cieco Tiresia, la terrifica immagine della Sfinge, le cui pretese sono apportatrici di sventure.. (p.172). Bion ne parla ancora due anni dopo (1963[25]), ritenendo che la componente sessuale del mito edipico ha oscurato altre componenti che sono comprensibili e illuminanti se ricordati nella sequenza e forma narrativa con cui il mito è proposto. Terrore, curiosità catastrofica, arroganza stupida, inascoltabilità delle emozioni sono gli altri elementi del mito che le dinamiche del gruppo tendono a riprodurre. Il mito edipico (nel suo insieme) rappresenterebbe allora un contenuto della mente dell’uomo (Bion. 1963, p. 63) e come tale presente nelle diverse evoluzioni del gruppo e della struttura psichica di ognuno.
Racconterò ora una sequenza di due incontri di gruppo, tentando di chiarire quello che ho finora ho detto.
– La prima seduta: il brano che viene letto è la conclusione del “Il vecchio e il mare” di Hemingway, il ritorno del vecchio pescatore con lo scheletro dell’enorme “marlin,”divorato dai pescecani dopo un’immane lotta di cui è vincente e perdente insieme, le cure del giovane, i turisti indifferenti e ignari. Il gruppo si affretta (evita lo stazionare nelle nebbie della capacità negativa) a organizzare il senso della vicenda utilizzando un vertice osservativo saturato da componenti razionali che ostacolano la percezione di destabilizzanti componenti emotive intra-gruppale Ovvero il gruppo con facile rapidità centra l’attenzione sul rapporto di fusionale prossimità tra il vecchio (conduttore) e il giovane (gruppo), rivolge un’attenzione giudicante e avversa nei confronti di chi (colleghi e medici) non ne vuol sapere del nostro gruppo, lo ignora, non vuole avvicinarsi e comprendere (gli ignari turisti) o in qualche maniera sembra opporsi e distruggerlo (la distruttività dei pescecani). Non siamo certo nel “gruppo di lavoro” ma, accanto a elementi propri degli Assunti di base, dipendenza e attacco-fuga, mi sembra di scorgere quello che Meltzer (parlando del setting diadico) chiama “delirio di chiarezza dell’intuizione”, in cui il pensare recalcitra di fronte all’allarmante apprendere dall’esperienza , a cui sostituisce l’immediata soluzione onnisciente. Dico al gruppo che ho percepito << l’impossessarsi della conoscenza>> come modo per evitare le esperienze emotive dolorose che permettono l’avvicinarsi al legame K .
Per chiarire meglio il mio pensiero, ancora una volta cerco il pensiero di Bion, in particolare quello proposto nel libro “ Attenzione e interpretazione”(1970[26]).
Sta a me intuire (è il termine che meglio si adatta a mio parere alla funzione analitica della mente) da cosa il gruppo sta cercando di evitare il contatto mentale. Potrei esprimere questa ipotesi osservando che il gruppo sta evitando di incontrarsi con il luogo della mente (del gruppo) in cui è presente invidia, ingordigia violenta, in cui insomma emergono pescecani distruttivi e turisti indifferenti nei confronti dell’attacco invidioso nei confronti del “vecchio” conduttore.
Allora l’apparente, immediata identificazione gruppo-ragazzo mi è apparsa come un percorso “ bugiardo” (cioè difensivo, evitante il dolore) che nasconde al gruppo “il luogo in cui stava /../ un oggetto perduto”( Bion, op.cit. p.19) ovvero l’immagine sofferente e altra del conduttore. In questo modo, ritengo, pazienti e a volte terapisti tendono a fuggire il dolore dovuto:
–(nel terapeuta) alla non realizzazione di un movimento mentale verso la possibile “verità” che il paziente sta occultando, l’incontro con l’incomprensibilità del significante e l’intolleranza delle condizioni emotive (schizo-paranoidi, cioè persecutorie) da cui nasce il significato nel terapeuta.
–(nel paziente/gruppo) all’incapacità di tollerare la sofferenza di un mancato adempimento dei desideri, l’angoscia del cambiamento, ovvero di una rivelazione catastrofica che la mente teme di non contenere se non a prezzo di tollerare la violenza della trasformazioneche il legame K, ovvero il percorso verso ciò che rivela conoscenza e il legame H (odio) e L (amore) immettono nel contenitore-paziente. [27]
Avviene allora in queste occasioni, (e credo che tutti noi ne abbiamo esperienza) che venga proposto dal terapeuta o dal paziente una comunicazione che è difensiva, che prende il posto della possibile conoscenza e dei suoi legami H, L, K, per avvicinarsi a ciò che Bion, appunto pone come Bugia[28] (p.133). Ovvero comunicazioni, racconti, interpretazioni che sono espressioni delle categorie –L, -K. , pensieri bugiardi che allontanano dal rapporto continuamente scambievole tra Ps ß–àD, cioè dalla persecuzione di pensieri non ancora raggiunti o incontenibili e il breve ingresso nella posizione D, la cui pace è tormentata dalla previsione della sua rapida perdita.
Ritengo fondamentale, per entrare nelle vicende e percorsi del gruppo , cogliere dei nessi tra gli elementi (emozioni, difese espresse dai personaggi e legami emozionali ) che caratterizzano la sequenza delle letture ( e quindi dei significati), come si è rivelata la lettura della seduta successiva.
Il racconto è di Kafka, violento, ambiguo nei suoi significati, allarmante, e gli stati d’animo presenti nello scritto cercano di essere resi significanti nel campo gruppale (che mi include, naturalmente).
Riassumo il racconto riportandone alcuni frammenti: “Sembra che molto sia stato trascurato nella difesa della nostra patria/…/ Quando apro il mio negozio vedo le vie occupate da gente armata. /…/ sono nomadi del nord. /…/ stanno accampati all’aria aperta perché odiano le case/../ Passano il tempo a affilare le loro spade, ad aguzzare le frecce, a compiere esercitazioni a cavallo/…/ Non si può parlare coi nomadi. La nostra lingua è a loro ignota, anzi si può dire che non ne posseggono neppure una propria./../si esprimono come le cornacchie. Il nostro modo di vivere, le nostre istituzioni sono loro altrettanto incomprensibili quanto indifferenti. /../ quello di cui hanno bisogno se lo prendono/…/Anche i loro cavalli sono carnivori ed entrambi si nutrono dello stesso pezzo di carne/…/ credetti di scorgere l’imperatore a una finestra del palazzo. /…/Il palazzo imperiale ha attirato i nomadi, ma non riesce a ricacciarli via. Il portone resta chiuso; la guardia/../ se ne sta dietro le finestre con le inferriate./../ Un malinteso è questo , ed esso ci porta alla rovina.”
Questa volta avverto nel gruppo una condizione emotiva assai intensa, che avvolge anche me, naturalmente. Si riconoscono nelle attitudini selvagge, aggressive, avide e predatorie, prive di capacità simboliche, dei guerrieri nomadi, le possibili traduzioni in personaggi delle presenze emozionali, occultate la seduta precedente, elementi beta , svelate dal mio intervento e ora riproposte dal gruppo nella traduzione narrativa. Penso oggi al discorso “post-bioniano” che propone,, attraverso le réverie dell’analista,di immaginare una “scena narrativa” in cui animare personaggi portatori degli stati affettivi presenti nelle associazioni del paziente o gruppo. Su questo argomento ha scritto e discusso recentemente Civitarese[29] (2011,p. 71), osservando che i personaggi (della réverie) sono portatori di stati, ovvero di “emozioni, sentimenti, passioni…: in definitiva sono ciò che muove l’azione”. Io direi: esprimono il senso, il percorso significante della trasformazione narrativa.
Nel modo in cui ho impostato il percorso del gruppo esperienziale, i personaggi e il racconto che li contiene e anima, proposti dai partecipanti, costituiscono in sé la costruzione narratologica da cui estrarre (o occultare) i fatti emotivi che si susseguono come storia del gruppo. Siamo comunque alle prese con comunicazioni il cui ambiguo significato necessita di uno svelamento interpretativo che molto ha in comune con ciò che definiamo funzione psicoanalitica della mente.
Nel racconto di Kafka i partecipanti si avvicinano, colgono, riconoscendo ( seguendo la mia interpretazione) come proprie appartenenze, sia la nomade voracità , avidità distruttiva, pulsionalità non contenuta (elementi Beta ancora non provvisti di capacità simboliche) , sia l’allarmata, impotente, indifesa inquietudine, paura, degli abitanti del villaggio. Lontano e presente nello stesso tempo, inavvicinabile nel suo protetto palazzo, l’imperatore che osserva e non protegge.
Il gruppo (me incluso) sta riuscendo a contenere i contenuti che la volta precedente aveva eluso, come abbiamo visto, aggrappandosi a legami –H (meno-odio), -K (meno-conoscenza).
Il gruppo si incontra, attraverso il lavoro interpretativo, con il cambiamento catastrofico della propria configurazione mentale , trasformando in elementi di pensabilità (elementi Alfa) ciò che il racconto esprime: voracità, distruttività e violenza mentale non sono negati e attribuiti ad un nemico esterno (Assunto Attacco-Fuga) ma riconosciuti come componenti emotive (pur allarmanti e per molto tempo negate) che attengono al gruppo e agli individui che lo compongono. Gli specializzandi riflettono (soprattutto) sulla possibilità che i contenuti Beta possano pericolosamente essere vissute e espresse in maniera non controllata nelle attività di lavoro (nel contro-transfert con i pazienti, nell’hic et nunc della seduta ).
Anche la spaventata inermità (il dolore) raccoglie significati, intesi come inquietudine , sofferenza, nei confronti di queste primitive presenze proto-mentali, improvvisamente rintracciate nel gruppo, forse non elaborabili, capaci di imprigionare inconsapevolmente il neo-terapeuta. La soluzione (difensiva) è allora simile a quella dell’imperatore-conduttore, una indifferenza allontanante ogni emozione, in una malintesa e stravolta ripresa dei concetti freudiani di neutralità?
La seduta, una delle prime dell’anno accademico, termina con domande che ancora non hanno risposta.
7) Brevi riflessioni
Credo che alla base del mio lavoro con futuri psicoterapeuti vi sia e vi sia stato soprattutto (al di là della bellezza che ho scoperto nelle operazioni mentali di gruppo) la convinzione di offrire un percorso che possa portare ad un insight (quanto meno parziale) nei confronti di quegli elementi primitivi ancora privi di pensabilità (elementi Beta), che si affacciano, irrompono nel “contenitore” analista, chiedendo o di distruggerlo e di essere usati per le trasformazioni in elementi Alfa, idonei a costruire pensieri. Nel considerare <<traumatica>> (inevitabilmente) la teoria della conoscenza [30] riprendo il pensiero di Bion (1965, p.18) che , a questo proposito osserva che il cambiamento “ è catastrofico in senso letterale, giacché è un evento che produce uno sconvolgimento dell’ordine o del sistema di cose; è catastrofico nel senso che è accompagnato da sensazioni di disastro nei partecipanti; è catastrofico nel senso che è improvviso e violento, in maniera quasi fisica”.[31] Così è successo nel gruppo, ove non è stato possibile sfuggire all’incontro con l’implacabilità dei primitivi legami emozionali “selvaggi”, in cui H (odio) è immediatamente immesso e espresso da feroce avidità, distruttività, non moderate dalla possibilità di raggiungere un approdo simbolico. Peraltro il pensare, l’indagare su ciò che sta accadendo, il tentativo di avvicinarsi alla conoscenza (K) (teme il gruppo, nella comunicazione narrativa) può non portare ad alcun risultato modificante le proto-emozioni.E’ questa la ragione per cui il gruppo guarda con smarrimento e forse come frainteso modello l’imperatore-conduttore che, nella sua presunta immobilità emotiva sfugge al legame affettivo (-L), manomessa, come ho detto, immagine della freudiana neutralità.
Mi sono chiesto il perché di questo modo di considerarmi, lontano, indifferente emozionalmente. Ho pensato (e non esposto al gruppo) che rappresentante il bisogno dei partecipanti di non essere in contatto con me se non razionalmente, di non attivare il legame L tra conduttore e gruppo, perché capace di innescare una prematura conflittualità edipica con cui è troppo allarmante fare i conti. O, forse meglio, il gruppo di formazione è costretto a proteggersi, rimuovendo le fantasie edipiche (phantasy) dall’impatto con non ancora tollerabili configurazioni della competizione. In questo “rifugiarsi” il gruppo allora sceglie di collocarmi “dietro le finestre”, in uno spazio che preclude contatti vitali. In questo costringersi a negare il desiderio sessuale e quindi il suo appagamento, il gruppo si sposta in una dimensione dell’ organizzazione gruppale in cui gli A.d.B. come l’Attacco-fuga e la Dipendenza proteggono la sopravvivenza del gruppo, il trionfo insomma del –K. intorno a questo tema.
Trovo una forte analogia tra le strategie gruppali e i modi proposti da Steiner ( 1993) [32] nel descrivere e dare senso alle “organizzazioni patologiche” che forniscono al paziente in analisi un luogo della mente ove collocarsi, evitando le angosce persecutorie e depressive (entro cui si trova il conflitto edipico e non solo). ovvero rifugi che permettono di non entrare in contatto con i tormenti della posizione schizo-paranoide e di evitare la dolorosa partecipazione alla posizione depressiva (Steiner,p.29).
NOTE
[1] Babini, V. (2009), Liberi tutti, Il Mulino, Bologna.
[2] Lo scritto di Bion , 1946, “The leaderless Group Projet”, Bull. Menninger Clinic, 10, 3: 77-81. è riportato nel capitolo di Eric Trist , Il lavoro con Bion negli anni ’40: il decennio dei gruppi,p.45, in : Pines, M. (1985) Bion e la psicoterapia di gruppo, Borla, Roma, 1988
[3] Main, T. F. ((1946) “The hospital as a therapeutic institution” Bull. Menninger Clinic, 10,3, 66-70.
[4] Main, T. (1975) “Alcuni aspetti psicodinamici dei gruppi allargati” in : Kreeger L. (a cura) “Il gruppo allargato”, Armando, Roma, 1978-
[5] La intuizioni teorico-cliniche di Bion sono raccolte nel libro del 1961, Esperienze nei gruppi, tradotto in Italia da Armando, Roma nel 1971, dieci anni dopo. Peraltro oltre al lavoro del ‘’46, già citato, ricordo che tra gli anni ’43 e ‘52 Bion pubblicò articoli ( ripresi nel libro citato) sull’argomento sopratutto nella Rivista “Human Relations” .
[6] Bléandonu, G., (1990), W. R. Bion. La vita e l’opera, Borla, Roma, 1993.
[7] E’ interessante notare che questo articolo, “ Group dinamics: a review” è l’unico ad essere pubblicato sull’Int. Journ. Psycho-Anal, vol.33.
[8] Marcoli, F. (1988), Wilfred R. Bion e le “Esperienze nei gruppi”, Armando, Roma
[9] W:R: Bion (1961) “Esperienze nei gruppi”, Armando, Roma, 1971.
[10] W. R: Bion (1988) Seminari italiani , Borla,Roma.
[11] W. R. Bion (1992) “Cogitations”, Armando, Roma, 1996.
[12] Grotstein, J. S. (2007) “Un raggio di intensa oscurità”, Cortina, Milano, 2010
[13] Mi riferisco a “ Una teoria del pensiero”(1962), “Apprendere dall’esperienza” (1962),” Elementi della psicoanalisi” (1963), “ “Trasformazioni”( 1965),
[14] Bion, W. R.(1962a) “Una teoria del pensiero”, Armando, Roma, 1970.
[15] Bion, W. R.(1962b) “Apprendere dall’esperienza”, Armando, Roma, 1972
[16] Keats, J. (1817) In : “Letters”, Oxford press, 1952. Nell’opera di Bion la capacità negativa viene attribuita non più al poeta ma all’analista, intendendo con essa la tolleranza al dubbio, all’incertezza dei significati, alla frustrazione,e forse, aggiunge Grotstein, l’assenza cosmica di significato dell’essere (dell’esserci in quanto dasein , aggiungerei).
[17] Ferro, A. (1992), “La tecnica della psicoanalisi infantile”, Cortina, Milano.
[18] Britton, R. (2000) “Credenza e immaginazione”, Borla, Roma, 2006.
[19] Lacan, J. (2005) “ Dei nomi dei padri”, Einaudi, Torino, 2006.
[20] Freud, S.(1927) ,“Feticismo”, OSF, 10Boringhieri, 1978 – Freud, S. (1924) “ La perdità della realtà nella nevrosi e nella psicosi”, OSF 10, Boringhieri, 1978
[21] Vedi ad esempio i capitoli di Neri, Longo ed altri in : E. Croce (a cura di) “Funzione analitica e formazione alla psicoterapia di gruppo” , 1985, Borla. Roma.
[22] Corrao (Palermo 1922- Roma 1994) , Presidente della S.P.I. dal 1969 al 1974, fu il primo a cercare di introdurre, insegnare e sviluppare il pensiero di Bion, specie nella direzione del gruppo. Come accennerò raccolse a Roma una serie di giovani analisti interessati al pensiero di Bion (che allora iniziava a germogliare in Italia) e al modo in cui Corrao lo proponeva.
[24] Vedi ad esempio: Conforto, C. (1991) “Processi riparativi e gruppo di formazione :una illusione?”, ‘Prospettive psicoanalitiche nel lavoro istituzionale’, V° 9, 1, 1991.
[25] Bion, W. R. (1963), “Gli elementi della psicoanalisi”, Armando, Roma, 1973.
[26] Bion, W. R. (1970) “Attenzione e interpretazione”, Armando, Roma, 1973.
[27] Questo argomento è trattato da Dario Sor , come capitolo del volume: Corrente, G. (a cura di), 2009, “Con Bion verso il futuro”, Borla, Roma.
[28] Bion, W. “La bugia e il pensatore” In “Attenzione e interpretazione”, op. cit.
[29] Civitarese, G., 2011, “La violenza delle emozioni”, Cortina, Milano
[30] Vedi Sarno, L. ,2009, Introduzione, In: Corrente,G. (a cura di) “Con Bion verso il futuro”,Borla,Roma.
[31] Bion W, 1965, “Trasformazioni”,Armando, Roma, 1973.
[32] Steiner, J. (1993) “I rifugi della mente”, Bollati Boringhieri, Torino, 1996
I gruppi esperienziali tenuti in clinica psichiatrica dal prof. Conforto hanno consentito la formazione di clinici maggiormente consapevoli d quanto le loro emozioni ed ideologie influenzano il rapporto col paziente.
L’approccio clinico migliora con la consapevolezza di sè e permette di non essere ancora medici alienisti seppur sotto moderne spogllie