[A seguire un commento di Anna Maria Gioia]
Recentemente ho letto un libro molto toccante scritto da Anne Alvarez, psicoterapeuta infantile della Tavistock Clinic di Londra. Si intitola “Il compagno vivo” e descrive il trattamento psicoanalitico di Robbie, bambino autistico. L’autrice descrive l’arduo viaggio che lei e Robbie hanno compiuto insieme per arrivare ad una comprensione e a una parziale guarigione.
Lo riassumo brevemente; può essere la storia di tanti ragazzi autistici..
Robbie venne inviato a una consulente all’età di 4 anni a causa di un ritardo del linguaggio e di un comportamento molto chiuso in se stesso. Dopo diversi test fu posta diagnosi di autismo infantile e prescritto un percorso psicoterapeutico a 5 sedute a settimana. Siamo negli anni 60 e ben lontani dalle attuali linee guida che prediligono metodi di trattamento cognitivo-comportamentale.
All’età di 4 anni e mezzo Robbie iniziò, quindi, ad essere seguito due volte a settimana da una prima terapeuta. Viene descritto come un bambino grazioso, delicato con l”aspetto molle di una bambola di pezza”, quasi non avesse un apparato scheletrico in grado di sostenerlo. Dopo un anno di trattamento Robbie iniziò ad utilizzare il pronome “io” per riferirsi a se stesso.
Dall’età di 7 anni, Robbie fu preso in carico da Anne Alvarez che continuò a seguirlo sino all’età di 31 anni. L’autrice nel corso del libro, descrive le cadute e i progressi di Robbie nei lunghi e difficili anni di terapia e la propria personale e graduale conoscenza del bambino autistico che aveva davanti, sino ad arrivare a capire che “come madre e padre transferale dovevo muovermi alla sua ricerca, non perchè egli si nascondesse ma perchè era profondamente perduto..la mia funzione era quello di richiamarlo allacomunità umana perchè lui non sapeva più come fare le richieste”. Per Alvarez risultò fondamentale esercitare con Robbie la fuzione di richiamo, che significa richiamo alla vita e al mondo oggettuale, compito che ogni madre dovrebbe sostenere con i propri figli “destare l’attenzione, eccitare e animare”, accanto alla più nota capacità di reverie, ossia contenere, consolare e calmare il proprio bambino.
Ho voluto condividere parte della storia di Robbie, che forse può sembrare obsoleta per i nostri tempi, in cui la terapia corre veloce e la proposta di un trattamento psicoanalitico a un bambino autistico può sembrare una sfida fin troppo ardua e costosa. Ma credo che lo scopo di qualsiasi tipo di terapia, indipendentemente dal tipo di orientamento analitico o cognitivo-comportamentale, sia di promuovere il benessere del paziente e cercare almeno di migliorare la qualità di vita dei pazienti e delle loro famiglie.
Ora l’articolo in questione “avviata mappatura geni all’origine dell’autismo” ci pone davanti a un nuovo traguardo della scienza, a una vera rivoluzione destinata forse a cambiare il tipo di trattamento e di approccio al paziente, prospettando terapie personalizzate a seconda dei geni coivolti. Un traguardo forse ancora lontano e comunque distante anni luce dalla terapia proposta dall’Alvarez. Una terapia genica contro 5 sedute di psicoterapia a settimana di Robbie. Un un bel salto. La scienza avanza e se la nuova scoperta potrà aiutare il paziente, ben venga.
Di sicuro la mappatura servirà a formulare una diagnosi precoce con conseguente avvio di una tempestiva terapia, qualunque essa sia. Altro vantaggio immediato sarà anche quello di scagionare definitivamente le così dette “mamme frigorifero” fin troppo spesso messe sotto accusa o altre presunte eziologie dell’autismo, derivate più dalle tendenze del momento che da reali evidenze scientifiche, a partire dalle intolleranze alimentari per arrivare alle vaccinazioni contro morbillo, rosolia, parotite, che sin troppo spesso hanno creato un allarmismo ingiustificato e pericoloso.