di Antonio Maria Ferro e Valentino Ferro
PREMESSA: La pubblicazione dell’articolo è possibile grazie all’autorizzazione del Direttore della rivista Gruppi, Flavio Nosè, e della Franco Angeli, Casa editrice della rivista Gruppi. La rivista ha dedicato il numero XIV,n.1 del 2013, a Paul Claude Racamier. Il titolo è stato “Attualità del pensiero di P. C. Racamier” e comprende contributi di: P.C. Racamier, F. Nosè, G. Di Marco, S. Taccani, M. Sassolas, A.M. Ferro e V. Ferro, M.L. Drigo e L. Boccanegra.
1. INTRODUZIONE
I “mattoni” del nostro operare, sono inevitabilmente “stili di vita”, non possono funzionare come “tecniche” se non sono profondamente vissuti come abituali ed inevitabili pratiche relazionali con l’altro da noi, straniero che incontri, amico, paziente. Vi è una base che caratterizza uno “stile dell’essere”, “dell’essere con”: poi è evidente come nelle nostre cure siano fondamentali le nostre tecniche, la competenza, la formazione, la capacità acquisita di cogliere la “natura psicologica” di ogni pensiero, azione, movimento relazionale che si sviluppano nel gioco istituzionale, così come nelle dinamiche di una relazione duale e/o di gruppo (Racamier, 1970).
Infatti nel lavorare per la salute mentale, la vita e le nostre attività non sono mai così disgiunte. Così nacque l’idea del libro “La bottega della Psichiatria” (Ferro e Jervis, 1999). Racamier era un artista, o meglio un artigiano raffinato che ha in-segnato lo spazio mentale necessario per questa “bottega” dove teoria e pratica possono crescere in modo sinergico, grazie all’esperienza, la sensibilità, la curiosità mai sazia, il talento individuale dell’artigiano e della sua Scuola (il gruppo di lavoro/équipes).
Un padiglione dell’Ospedale di Santa Corona di Pietra Ligure, ospedale con circa 600 letti, porta il suo nome: il padiglione Racamier è una struttura piuttosto bella, comprende un servizio di psichiatria, un CDAA, studi per attività ambulatoriali e spazi per i due Day Hospital. In questo spazio quotidianamente si pratica la terapia istituzionale che Racamier ha insegnato con tanta attenzione e passione.
2. GLI INSEGNAMENTI
Tra i molteplici aspetti di analisi psicopatologica e clinica che il Professore ha attraversato ed approfondito, in questo testo ne sono ripresi e approfonditi tre, che sono:
– La terapia istituzionale
– Il lavoro sulla “maternalità” e sulla “maternalità psicotica”
– La comprensione dei meccanismi psicopatologici della perversione narcisistica.
3. LA TERAPIA ISTITUZIONALE
Per Racamier la terapia istituzionale si connota per la sua natura sia collettiva sia psicologica.
Nella terapia istituzionale quindi “l’attenzione terapeutica, la comprensione psicodinamica, il sostegno emotivo sono rivolti tanto ai curati quanto ai curanti” (Racamier, 1996) perché nel campo istituzionale è un insieme di persone dalle diverse competenze che amministrano la relazione col paziente, come peraltro spesso i pazienti interagiscono come gruppo nella relazione con i curanti.
È molto utile e importante tenere sempre presente la prospettiva secondo la quale il paziente grave, come sono i pazienti psicotici e quelli affetti da forme più critiche di disturbi del comportamento alimentare, tende ad impegnare ed impregnare del suo essere il contesto terapeutico e la comunità nel suo insieme. Inevitabilmente quindi l’oggetto della cura è quel particolare contesto, dato dall’insieme di pazienti ed operatori, che rappresenta l’Istituzione curata (Ferro, 2004-2007).
Il concetto di istituzione curata, come fondamento della terapia istituzionale, è uno degli insegnamenti più significativi di Racamier. Egli si riferisce qui alla capacità di leggere la natura psicologica di tutto ciò che afferisce all’assistenza in psichiatria, o meglio alla capacità di “prendersi cura” (Racamier, 1999), alla curiosità ed al rispetto per il linguaggio dei pazienti: a questo proposito rimane, dopo tanti anni, fondamentale il lavoro di Racamier e Nacht sul delirio (1958). Per sviluppare questo modello di cura è evidente come sia necessario da un lato un continuo e ben temperato lavoro di formazione, di discussione clinica insieme, dall’altro creare lo spazio gruppale, fisico e mentale, per permettere una costante metabolizzazione delle esperienze interattive che si sviluppano nel nostro lavoro clinico nelle istituzioni.
Infatti “istituzione curata” significa anche tutelare gli operatori dal rischio del restare pietrificati, nella cura di pazienti gravi, dalla Medusa della follia.
Racamier ricordava come il lavoro istituzionale promuova un cambiamento nei pazienti che sono aiutati gradualmente a “calare” il ponte levatoio del dia-logo con noi ed il mondo rinunciando così all’utilizzo di meccanismi di difesa massicci e granitici come la scissione ed il diniego che avevano comunque loro evitato l’esperienza, quasi incompatibile con la vita, della angoscia psicotica. Per fare questa scelta occorre offrire ai nostri pazienti motivazioni più che valide: solo attraverso un prendersi cura, non caritatevole ma pre-vidente, anche di molte cose pratiche della loro vita, li si potrà convincere a lasciare il castello che li separava dall’angoscia psicotica per aprirsi con un minimo di fiducia ad un mondo finalmente abitabile. Scrive Racamier: “prendersi cura dei pazienti psichiatrici significa interessarsi di molte cose pratiche nei settori più diversi. Ci si occupa anche della salute fisica. Ci si occupa di cose che possono sembrare loro indifferenti, ad esempio il colore delle pareti, la disposizione degli spazi in cui vivono o sono ricoverati”. E tali operazioni così concrete presuppongono tuttavia una particolare attenzione ai movimenti consci e inconsci che promuovono.
Tutto va osservato con attenzione perché la nostra cura utilizza sempre oggetti concreti che hanno una loro esistenza, qualunque sia l’importanza che gli attribuiscono i pazienti. Mentre in psicoterapia analitica gli “oggetti” sono comunque trattati come “fantasmi”, nella cura istituzionale non si può mai annullare il carattere di realtà e così nessun “oggetto” è privato del proprio significato reale, anche perché è proprio il paziente psicotico che di per sé tende a non cogliere il carattere reale degli oggetti come cose altre da sé. Infatti il mondo intorno a lui è sempre anche il suo mondo interno lì proiettato, dove talvolta “trasferisce” parti ancora sane che sente di preservare così dalla propria distruttività, dove più spesso si libera di parti troppo dolorose o distruttive.
Richiamiamo i punti essenziali dell’insegnamento di Racamier sulla terapia istituzionale:
– Il concetto di istituzione curata;
– La capacità di leggere la natura psicologica di tutto ciò che afferisce all’assistenza psichiatrica;
– La tutela fisica e mentale degli operatori: formazione, dialogo in équipe, confronto con altre esperienze, condivisione dei progetti terapeutici e delle decisioni;
– Esistenza di un leader ben formato e riconosciuto come tale dall’équipe;
– Cogliere le valenze auto terapeutiche dei sintomi psichiatrici, soprattutto il delirio, per ridurre l’angoscia psicotica;
– Utilizzare l’aiuto delle terapie farmacologiche, anche come tutela psicofisica degli operatori;
– Lavorare sul gruppo complesso formato da operatori-pazienti e saper cogliere i transfert e i contro-transfert che si animano nel lavoro istituzionale, non solo nei pazienti ma anche negli operatori;
– L’attenzione alla famiglia, alle famiglie passate, alle famiglie introiettate nella mente, alle storie transgenerazionali, ai miti familiari delle origini (Racamier, 1985).
– Garantire il tempo-spazio fisico e mentale per tutto questo, sopra ricordato, nel lavoro istituzionale.
Ciò permette di capire un po’ di più il paziente, che non è mai solamente la mera somma di sintomi.
4. LA CRISI DELLA MATERNALITÀ
Negli ultimi anni l’interesse verso le problematiche psichiche che una donna può sviluppare in gravidanza e nel puerperio è molto cresciuto; studiosi noti della psiche hanno effettuato molte ricerche per indagare i fattori predittivi e di rischio nell’insorgenza dei quadri psicopatologici della maternità e la loro influenza sullo sviluppo socio-emotivo del bambino.
In Europa uno dei primi autori che si è interessato alle problematiche psichiche della maternità è stato Paul Claude Racamier e nonostante siano passati più di cinquant’anni dalla pubblicazione dei suoi lavori, le sue proposte teoriche e terapeutiche hanno influenzato e influenzano molti clinici e ricercatori, che lavorano in questo campo.
Un tema importante nel lavoro di Racamier è il concetto di crisi, che sul piano psichico è vissuta e si sviluppa come una distruzione interna, un sentimento di fine e di morte seguiti, nella maggior parte dei casi quando evolve positivamente, da un sentimento di rinascita. Dunque il processo di crisi rende la personalità più fluida e da una possibilità maturativa (Racamier, 1985; 2010).
La maternità, come l’adolescenza, è un momento di crisi per la donna, momento che rappresenta una fase del suo sviluppo psicoaffettivo. Facendo riferimento alla Mahler (1975) la gravidanza diventa, dopo l’adolescenza, il terzo processo di separazione-individuazione, dal momento che la donna dovrebbe raggiungere una maggiore individuazione e differenziazione di sé nei confronti della propria madre, del partner e delle altre figure rappresentative della sua esistenza.
Il vissuto della maternità ha in sé le modalità con le quali la donna ha interiorizzato e strutturato le sue prime esperienza relazionali, sia cognitive sia affettive. La maternità, in quanto crisi fondamentale della vita della donna, è una vera e propria tappa dello sviluppo, dove l’istinto materno è storicizzato in relazione all’evoluzione psichica, la storia personale e la relazione con i propri genitori, in particolare la propria madre. Racamier sottolinea come la relazione della madre con il suo bambino si svolgerà nella sua realtà concreta “sulla tela di fondo” delle relazioni interne interiorizzate (Racamier, 1961).
L’attenzione che l’autore pone al rapporto concreto e immaginario della madre con sua madre e come dopo la nascita, la donna sia madre e figlia nello stesso momento, ha alcuni punti in comune con il lavoro di Selma Fraiberg. Questa autrice nel 1975, dopo numerose osservazioni dirette del rapporto madre-bambino nei suoi primi anni di vita, ha coniato il concetto di “Ghost in the nursery”, riferendosi al fatto che a volte i genitori, nell’accudimento e nell’interazione con i figli, facciano “entrare” il loro passato nella relazione presente. Secondo l’autrice i “fantasmi” del passato, ovvero gli oggetti relazionali interiorizzati, possono ripresentarsi interferendo, anche massicciamente, sulle prime relazioni dei genitori con il bambino (Fraiberg et al., 1975).
Nella gravidanza, la donna si orienta progressivamente “in senso narcisistico”, in modo tale da amare il suo corpo in trasformazione e il bambino che accoglie in sé nello stesso modo. Il tempo della gravidanza è stato definito da Winnicott (1953) “area transazionale o spazio potenziale”, questa è l’area del rapporto tra due persone, si colloca fra realtà e immaginario, fra la donna in transizione verso la maternità e il bambino fantasmatico, quest’ultimo nasce dalle dinamiche inconsce e consce della madre. Inoltre, noi oggi sappiamo che per la futura madre il delinearsi dell’immagine del figlio nella sua mente e i sentimenti che sperimenta verso queste fantasie, costituiscono le basi dell’attaccamento prenatale (Riva Crugnola, 2012).
Il parto segna la conclusione di questa fusione: per la mamma e il neonato, la separazione data dalla nascita è sia gioia per l’incontro con l’altro, sia esperienza traumatica; ma la separazione è solo parziale perché la madre, nei primi mesi dopo il parto, vive in un regime d’identificazione profonda, quasi totale, con il suo bambino; Racamier definisce questa relazione “anaclitica”. Winnicott (1956) similmente parla di “preoccupazione materna primaria” per descrivere quello stato mentale della donna che inizia durante la gravidanza ma s’intensifica nei primi mesi di postpartum, durante il quale si assiste a una benevola chiusura su se stessa della madre che la aiuta ad aumentare la sensibilità nei confronti del proprio bambino, in modo tale da capire i suoi bisogni e anticiparli. L’Io del bambino si strutturerà, secondo entrambi gli autori, a partire da questa relazione primaria. Durante il percorso di crescita il bambino comincia a distinguere l’esterno dall’interno e la mamma comincia a vederlo e sentirlo come una persona “a sé”. L’autore definisce questa fase dello sviluppo maternalità, in francese “maternalité” e in inglese “motherhood”.
Il termine maternalità è coniato dall’autore per sottolineare l’importanza del processo psichico e affettivo che si sviluppa parallelamente a quello biologico corrispondente alla maternità. La maternalità è un passaggio cruciale della vita della donna che comporta una crisi d’identità, si potrebbe definire come: il percorso di nascita del senso materno nella donna. L’attenzione non è posta solo sul livello biologico del divenire madre, ma questa parola-contenitore racchiude in sé diversi elementi come: l’importanza dello sviluppo socio-emotivo di questo periodo durante il quale la donna è estremamente vulnerabile, i vissuti intrapsichici, le relazioni con le persone significative, le paure e i timori dell’interazione con il bambino che dipende totalmente dalla donna e il definitivo passaggio da “figlia di madre a madre di figlio” (Racamier, 1961; Racamier e Taccani, 2010).
In tutte le fasi di passaggio e soprattutto durante la maternalità, le strutture psichiche sono più mutevoli, labili e devono armonizzarsi anche con importanti modifiche somatiche e ormonali, che la gravidanza e il parto portano con sé. In questa fase c’è la potenzialità per un cambiamento creativo e felice, ma possono anche esserci la paura del cambiamento, smarrimenti esistenziali fino a sviluppare veri e propri quadri psicopatologici. Secondo Racamier la maternalità è una fase in cui il funzionamento psichico si avvicina normalmente, ma reversibilmente, a una modalità psicotica, perché l’identità diviene più fragile, meno definita (Racamier, 1961). Dunque questo stato mentale permette alla donna d’instaurare una relazione con il bambino di tipo fusionale e questa è fondamentale nei primi mesi del neonato per la sopravvivenza fisica ed emotiva di quest’ultimo (Bowlby, 1969). Quando la crisi della maternalità non viene superata, secondo Racamier, si può assistere a fallimenti di stile nevrotico e o di livello psicotico. Le psicopatologie della maternalità che l’autore individua nella sua pratica clinica sono: depressione da svezzamento, depressione malinconica dell’allattamento e gli stati deliranti (Racamier, 1961).
La depressione da svezzamento è una particolare forma di depressione del puerperio, durante la quale la mamma tende a mantenere una simbiosi stretta e prolungata con il piccolo, affascinata dal mito della “madre perfetta” e del “bambino perennemente appagato”. Spesso la donna è alla prima gravidanza e l’allattamento è vissuto come una fase idilliaca, ma i problemi compaiono nello svezzamento che viene vissuto come una “privazione personale”; a causa di un narcisismo fragile della madre questa fase diventa un vero e proprio trauma. Secondo Racamier in questi casi la donna dovrebbe essere aiutata nei compiti che riguardano il lattante e sollevata dalle altre problematiche che la potrebbero riguardare; è molto importante in questa fase valorizzare le realizzazioni materne, in modo tale da decolpevolizzare la neo madre dalle sue difficoltà emotive. Inoltre è necessario comprendere nel lavoro terapeutico il padre e i familiari più vicini alla madre: Racamier sottolinea l’importanza degli interventi psicoeducazionali, che dovrebbero essere dati preventivamente.
La depressione melanconica dell’allattamento secondo l’autore si sviluppa nei primi tre mesi dopo il parto ed è contraddistinta da: precedenti stati depressivi, una gravidanza problematica, rifiuto inconscio del bambino ma spesso anche conscio, sentimenti di colpa e una relazione interiorizzata con la propria madre caratterizzata da un’aggressività inconscia e colpevolizzata. In casi estremi in queste psicopatologie, la donna può avere idee deliranti rispetto al bambino come: è stato ucciso, lo rapiranno, il latte non lo nutre, siamo ambedue minacciati dal male o fatti male. Per Racamier questa forte identificazione negativa di tipo malinconico con il bambino può porre il rischio del suicidio a due.
La descrizione della depressione melanconica dell’allattamento ha forti somiglianze con la depressione post-partum, psicopatologia della maternità individuata soprattutto a partire dagli anni 80/90 sulla quale negli ultimi anni si è posta molta attenzione. Considerando la descrizione della depressione post-partum effettuata da Raphael-Leff e successivamente da altri autori (Raphael-Leff, 1991; Murray and Cooper, 1999; Nonacs, 2005), si possono notare molti elementi in comune fra queste due psicopatologie. Questi individuano i sintomi della depressione post-partum in: sentimenti di inadeguatezza, incompetenza, vergogna, disperazione, collera, ipersensibilità, ansia, odio verso se stesse o il bambino, disturbi dell’appetito, del sonno, calo del desiderio sessuale, pensieri suicidari, pensieri di carattere ossessivo verso il bambino, paure immotivate non legate alla realtà di poter fare del male al figlio, fino in casi estremi, pensieri infanticidi.
Negli stati deliranti, già alla fine della gravidanza, sono presenti dei disturbi psichici che si accentueranno dopo la nascita del figlio. Questi stati si sviluppano velocemente nei primi giorni di puerperio, il quadro clinico può oscillare dal delirio paranoico allo stato onirico, ma ciò che lo contraddistingue è una coscienza di sé alterata. In queste pazienti l’esperienza della maternità non è supportata dall’entourage familiare e spesso ci sono relazioni interpersonali tumultuose soprattutto con la propria madre. Il bambino in queste donne è vissuto, già dalla gravidanza, come un corpo estraneo; le cure di cui il bambino necessita sono un impegno troppo gravoso e difficile per la madre che non riesce a vivere la relazione (fusionale) della diade. La famiglia di queste donne appare spesso fragile: i padri hanno difficoltà a sostenere la compagna e le madri delle puerpere sono assenti o poco vicine.
Per quanto riguarda la cura della psicopatologia del puerperio, soprattutto delle ultime due descritte, Racamier è stato il pioniere del concetto di ricovero congiunto madre e bambino. I ricoveri congiunti sono stati sperimentati nelle Unità di Crisi inaugurate negli anni ‘60 a Parigi da Racamier, in questi luoghi le pazienti con psicopatologie del puerperio possono essere curate adeguatamente, ma al tempo stesso viene evitata la rottura della relazione madre-bambino, che è anzi supportata da un ambiente protettivo e molto attento. L’autore sottolinea come non si debba separare la diade madre-bambino e come al tempo stesso non si debba lasciare sola la donna. La puerpera va aiutata, sostenuta da una persona, o meglio da un’équipe accogliente, sicura e valorizzante. Nei ricoveri congiunti, secondo Racamier, sono utili azioni parlanti, piuttosto che interpretazioni di tipo analitico, che riducano le angosce e favoriscano il percorso verso l’assunzione della maternità. L’autore sosteneva come la separazione netta della diade madre-bambino fosse un fattore praticamente certo di esito negativo per la prognosi. Dunque il trattamento delle donne che soffrono di psicopatologie del puerperio, deve essere centrato sull’osservazione e sulla cura della relazione madre-bambino (Racamier, 1961, 1970, 2010).
La creazione delle Unità di Crisi e il lavoro clinico di Racamier sulla relazione madre e bambino, ha fortemente influenzato gli studiosi che dopo di lui si sono interessati alle psicopatologie perinatali: questo lavoro ha messo le basi teoriche e metodologiche per la successiva creazione dei “Mother and Baby Unit”. Queste strutture prevedono il ricovero congiunto della madre con una psicopatologia e il suo bambino e il trattamento, che si svolge articolato in molte attività, è centrato sulla relazione madre-bambino. La prima“Mother and Baby Unit” è stata creata negli anni ottanta dal Professor Kumar, uno dei massimi studiosi della psicologia dello sviluppo in Gran Bretagna e nel mondo, a Londra presso il Bethlem Royal Hospital (Kumar, 1995).
Dunque, il contributo di Paul Claude Racamier sulle psicopatologie della perinatalità è stato molto importante grazie alla creazione del concetto di maternalità e delle Unità di Crisi; l’autore negli anni ’50 ha posto alcune basi teoriche e metodologiche che sono state fondamentali per il lavoro negli anni successivi di molti studiosi della maternità a rischio come: Tronick, Sameroff, Field, Milgrom, Murray, Bydloswky, Guedeney, Ammaniti e Kumar.
5. DALL’AGIRE CHE TACE ALL’AZIONE CHE PARLA OVVERO DALL’ANTIPENSIERO AL PENSIERO RIFLESSIVO ED AFFETTIVO
Per Racamier (1992, 1995, 1996) l’agire “domina” nelle patologie gravi. Egli distingue: un agire/passaggio all’atto modesto, comunque contenuto, e un agire che funziona come uno tsunami, ovvero esplosivo, debordante, apparentemente “assoluto”.
L’agire “continuato” può divenire il modo prevalente di essere nella relazione con sé e il mondo. Per Racamier questo “agire” più grave è il fondo costante che caratterizza l’essere di questi particolari pazienti, che “agiscono” la loro sofferenza, liberandosi così da pensieri e sentimenti che non sanno sostenere e contenere. È una vera modalità d’essere, dove il mondo è negato nella sua alterità.
Questa dinamica può interessare individui, gruppi, famiglie ed anche intere società, in particolari momenti prolungati della loro storia.
Per comprendere queste modalità relazionali Racamier introduce il concetto di una nuova “topica” della mente.
Egli scrive di “spazi”, “spazi vissuti” come:
1. Lo spazio interiore, che rimanda all’intrapsichico, ai “fantasmi” (rappresentazioni relazionali-oggetti interni, famiglie interne, miti e storie transgenerazionali);
2. Lo spazio transizionale che apre al registro dell’interpsichico dove i fantasmi sono rappresentazione del desiderio (amore, odio), la capacità di rêverie…. di simbolizzazione: essi aprono ai rapporti con il mondo, con le altre menti. E’ lo spazio dell’interpsichico;
3. Lo spazio del transpsichismo a fronte di una mente, di un apparato psichico che sembrano alienati, privati dello spazio corporeo dell’essere;
4. Racamier insiste spesso su come lo spazio transizionale, intermediaire, sia necessario anche se virtuale, fantasmatico, per permettere la dimensione relazionale-sociale dell’interpsichismo dalla quale scaturisce la possibilità di sviluppare abbastanza stabilmente la capacità di “produrre esami di realtà”(Racamier, 1996).
Lo spazio terzo dell’interpsichico è quindi registro di realtà perché la realtà non è “una e indivisibile” ma “multipla e polivalente”, inevitabilmente ambigua dimensione mentale positiva per il Professore.
Quando invece prevale lo spazio del trans-psichismo, il super agire costante diviene un’organizzazione difensiva, narcisistica maligna, totalizzante.
Si tratta di un processo che Racamier chiama l’arte del cortocircuito (1995). A questo proposito egli mette a fuoco due regole dell’”agire perverso e della sua messinscena”:
1. il blocco del funzionamento intrapsichico (autoriflessione, il pensar su di sé);
2. usare l’ “altro” come vettore, come strumento: il fine di questo agire, “criminale”, è negare i desideri, i fantasmi interni, una possibile rappresentazione di sé e così negare l’autonomia della realtà esterna, come irriducibilmente altra rispetto a noi.
L’arte del cortocircuito opera attraverso “vettori”, che sono persone che vengono depersonalizzate, spogliate d’individualità propria. L’ “activateur”, colui che agisce la perversione relazionale, è solo in parte consapevole di questo suo agire e soprattutto non è consapevole che il risultato sarà anche la negazione di se stesso come “essere che può esistere in relazione con”. Racamier introduce a questo proposito il concetto di thanatoforo “portatore di morte” (Racamier, 1992). È, a nostro avviso, un concetto molto importante ed originale ma non molto conosciuto in Italia.
6. LA NOZIONE DI THANATOFORO
Il termine è coniato da Emmanuel Diet (1996), ma Racamier lo approfondirà soprattutto negli scritti dell’ultimo decennio della sua vita. Thanatoforo è detto il soggetto che è non solo “portatore ma sorgente della distruttività sofferta o constatata”.
Egli esprime, svela la forza del suo “odio agito” soprattutto nella dimensione gruppale, nei gruppi reali e organizzazionali, dove si fa vettore di una “funzione fisica di distruzione” squalificando i soggetti nella loro parola, nel loro desiderio, nella loro identità e nella loro pratica.
Essi colgono le fratture, i conflitti e, con la propria rabbia e l’invidia, lavorano per la mortificazione della vita psichica dei membri del gruppo (da micro a macro) per la frantumazione, la morte dell’istituzione.
I movimenti del thanatoforo saranno allora di distruttività, d’invidia contro ogni tentativo dello staff di dare un senso, una possibilità di comprensione degli accadimenti individuali, gruppali e dell’istituzione verso l’accettazione dei limiti, delle differenze individuali, verso i disvelamenti delle ripetitività transferali per costruire un minimo senso comune del faticoso lavoro terapeutico che si cerca, insieme, di portare avanti attraverso “lo scambio e la collaborazione”.
Il thanatoforo − scrive − come novello Alien, si nutre dei “cambiamenti di posizioni e di funzioni nel gruppo”, di fronte alle debolezze dettate dalla neutralità comprensiva di terapeuti che siano poco inclini ad interventi attivi per difendere il funzionamento mentale del gruppo, ma ancor più la sopravvivenza della istituzione di cura.
Sono necessari terapeuti che, prima di tutto, sappiano cogliere controtransferalmente l’atmosfera distruttiva e poi sappiano “chiamare per nome e localizzare la distruttività e – infine – permettere la reinstaurazione dei confini simbolizzanti” (Diet, 1996). Rimandiamo qui a un lavoro presentato al Congresso Mondiale IAGP a Roma nel 2010, dove venivano portati degli esempi di clinica istituzionale in merito a questa potenza negativa (Ferro, 2011).
Green (1983) parla di “narcisismo di morte” dove predominano meccanismi di diniego e scissione, la negazione della struttura Edipica e dell’elaborazione del lutto che produrranno fobie, paranoia, perversioni e psicopatie e, a livello sociale, trasgressioni e manipolazioni ed attacchi dello stato di diritto e di valori come libertà, fraternità, uguaglianza, laicità, rispetto dell’altro da noi.
Racamier ricorda come per definirlo, individuarlo, dobbiamo però accettare di fare i conti con le nostre parti malate, incongrue, perverse, con il fascino che la megalomania delirante provoca in noi. Un quadro organizzativo istituzionale affidabile, coerente, o almeno l’esistenza di quella che Claudio Neri chiamava “la comunità dei fratelli” (1995), possono “placare” la distruttività di questi “personaggi” che non tollerano, quando sono in gruppo, conflittualità, differenziazioni, (sesso, cultura, età) lutti e separazioni.
7. L’AGIRE CONTINUATO E LE PATOLOGIE DEL “QUARTO TIPO”
Per Racamier l’agire continuato, come modalità prevalente dell’essere, comporta un funzionamento mentale che sta prevalentemente nel registro del “non-umano”: questa modalità malsana produce quella sensazione di estraneità che si prova di fronte a queste persone che non sembrano avere lo spazio del pensiero.
Gli stimoli, le eccitazioni legate al desiderio sono espulsi, evacuati. Sono espulsi come proiettili che “perforano il mondo attraverso deserti mentali ed emotivi dove non nasce lo spazio della libido” (Racamier, 1996).
Ecco allora la grande “miseria”, la “povertà psichica e mentale” di questi pazienti e più in generale delle non poche persone “normali”, forse ipernormali, che si muovono così nel mondo.
La persona/persone/gruppi/una parte cospicua di un popolo possono divenire in particolari momenti di fragilità, di estrema mortificazione materiale e morale nel vivere, strumenti dell’agire perverso (perversione narcisistica) dell’Attivatore.
In questo modo può strutturarsi la dipendenza dal potere che, manipolando le relazioni, sembra divenire necessario, quasi desiderato: io ti delego il mio pensiero e tu mi liberi dalla fatica del confrontarmi coll’ambiguità conflittuale del vivere quotidiano e dal dolore del riconoscere la complessità dell’esistere, l’esistere emotivo, il lutto, il dolore, il bisogno di relazione.
Racamier evidenzia quindi i rischi di “deriva” della democrazia quando prevalgono tra le persone meccanismi relazionali perversi, che facilitano, come ricordavano Freud in “Psicologia delle masse ed analisi dell’Io” (1921) e Elias Canetti in “Massa e potere” (1981), la mortificazione del pensiero individuale ed il ritorno alla massa non pensante che delega al “prescelto” le decisioni della propria vita. Resnik direbbe che l’individuo delega la propria peculiarità al deus ex machina che da ogni risposta e ci preserva dall’agire pensato (Resnik, 2014 in pubblicazione).
Racamier propone alla fine della sua vita, intuendo l’evoluzione della patologia che si sviluppa dagli anni ’90 e si rafforza e dilata nel primo decennio del 2000: la patologia del quarto tipo, la patologia dell’agire che nega il pensiero e il suo spazio mentale.
A proposito delle patologie “del quarto tipo” si richiama qui il testo “L’epoca delle passioni tristi” di Miguel Benazayag e Gerald Schmit (2003) dove gli autori evidenziano come queste nuove forme espressive della sofferenza psichica si caratterizzino per un sentimento permanente d’insicurezza, di precarietà, talvolta di vergogna e/o di rabbia e frustrazione indicibile, che soprattutto nei giovani, sembra non trovare limiti e contenitori solidi affettivi ed affidabili.
Simona Argentieri osserva peraltro come vi sia sempre più “una sorta di ambivalenza del pensiero che consente a livello individuale e collettivo di eludere la fatica delle proprie responsabilità e delle proprie scelte, in una deriva silenziosa ma inarrestata; dove è considerata ormai normalità una mentalità dominante dove sembra esservi sempre meno spazio per il conflitto, per la responsabilità e forse anche per la colpa, e comunque per l’etica e dove trova spazio sorprendente la malafede e il rifiuto di un tempo e di uno spazio mentale individuale e collettivo per il pensare” (2008).
Racamier, infine, consiglia di porre particolare cura ,nell’incontro con questi pazienti, nel tutelare lo spazio mentale in noi per pensieri, sentimenti, fantasie, perché dobbiamo costantemente cercare di sentire e di comprendere cosa si muove in noi nell’attivazione transferale e contro-transferale.
Un lavoro in noi e tra di noi, prima di animarlo sulla scena terapeutica. Racamier scrive: “niente ci spinge al contro agire come un agire diventato modalità d’essere continuativa (penetrante e perversa), per cui invita all’uso dello “specchio intimo” attivato nelle riflessione di equipe dove il piacere, il gusto per le immagini, il riconoscimento delle emozioni, il desiderio di comprendere, la ricerca temperata di verità sono antidoti al contro-agire: solo attraverso il ri-conoscere la natura del nostro contro-agire, potremo penetrare il nucleo profondo dell’agire continuato, dell’acting, dell’agire che taglia, rompe, separa, distrugge. È allora necessario, per tentare di curare questi pazienti, ri-costituire o costituire per la prima volta lo spazio “intermediaire”, transizionale, spazio di scena dove si possa vedere in azione, comprenderlo e rimodularlo gradualmente, il teatro dell’ “agire agito”, nei pazienti, in noi ed in quel particolare gruppo che è dato dall’insieme di operatori e pazienti: l’istituzione curata.
Abbiamo voluto, attraverso il pensiero del Professore, evidenziare come il nostro lavoro, come peraltro in tutti gli ambiti della medicina, si muova sempre ai limiti dell’impossibile, dell’utopia, del territorio che non c’è… non c’è ancora… ma poi sorprendentemente può nascere. Luc Ciompi, peraltro, ricordava come una speranza tenace, curiosa, creativa, ma ben temperata in chi cura resti un fattore prognostico fondamentale (1984).
Concludiamo così il nostro ricordo del Professore Paul Claude Racamier con la speranza di avere trasmesso anche ai lettori la speranza, la curiosità, l’ardimento scientifico con i quali il Maestro stesso ha sempre pensato, lavorato e insegnato.
BIBLIOGRAFIA
Argentieri S. (2008). L’Ambiguità. Ed. Einaudi. Torino.
Benasayag M., Schmit G. (2003). L’epoca delle passioni tristi. Ed. Feltrinelli. Milano.
Bowlby J (1969), Attaccamento e perdita, vol. 1: L’attaccamento alla madre. Tr. It. Boringhieri, Torino 1972.
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C’è molto da dire e da fare, a partire da queste parole di Antonio e Valentino Ferro, e da quelle di Racamier. sarebbe bello che si aprisse un vero dialogo su questo modo di lavorare e di pensare (che appare ahimè un po’ complesso, dati i tempi)
dal canto mio vorrei dare il mio contributo chiosando il testo con due citazioni, di Peter Brook e da Fanny e Alexander di I. Bergman. A me sembrano entrambe così evidenti, lineari, niente da aggiungere insomma. chissà che non riescano ad aprire a qualcosa. io ci sono
“l’elemento più importante da prendere in considerazione, quello che davvero distingue uno spazio da un altro, è il problema della concentrazione; perché se esiste una differenza tra il teatro è la vita, e potrebbe essere difficile definirla, è sempre una differenza di concentrazione” (I.B)
e poi
“l’unico talento che io ho è quello di amare quel piccolo mondo racchiuso tra le spesse mura di questo edificio e soprattutto mi piacciono le persone che abitano qui in questo piccolo mondo. Fuori di qui c’è il mondo grande e qualche volta capita che il mondo piccolo riesca a rispecchiare il mondo grande tanto da farcelo capire un po’ meglio. In ogni modo riusciamo a dare a tutti quelli che vengono qui la possibilità, per qualche minuto, per qualche secondo, di dimenticare il duro mondo che è la fuori. Il nostro teatro è un piccolo spazio fatto di disciplina, di coscienza, di ordine e di amore »” (P.B.)
grazie e a presto
beppe Berruti
Voglio ringraziare Il grande Beppe per le sue belle parole: anch io amo molto Fanny ed Alexander . Penso che finalmente con quel film Bergman lenisse molti suoi dolori. È così quello stile dell accoglienza al vivere con affetti che sappia difenderci e difendere i nostri pazienti dall invidia maligna è uno stile difficile del vivere e del curare……..noi a villa frascaroli come come alla tolda ed in ogni altra struttura del dsm e della redancia dobbiamo essere orgogliosi di cercare quel talento dell avere cura ” delle piccole cose”
Antonio Maria ferro
Parafrasando una celebre battuta di Flaiano direi:“Ci sono due tipi di“malati mentali.I malati mentali e i sani che li curano”.Trattasi di una forzatura che vorrebbe sottolineare un aspetto critico della dottrina di Racamier:l’idea che la sofferenza dei pz“rischi”di diventare la felice o infelice sintesi di“quel particolare gruppo che è dato dall’insieme di operatori e pazienti”:l’istituzione curata. È vero che è importante il“lavoro in noi e tra di noi prima di animarlo sulla scena terapeutica”,soprattutto in virtù del fatto che sempre più spesso in comunità dobbiamo confrontarci con quella che Racamier chiama la“patologia del quarto tipo”quella dell’“agire continuato”che”nega il pensiero e il suo spazio mentale”.Quel genere di sofferenza che rischia di assottigliare sempre più il confine tra curati e curanti e non è un caso che Racamier giudichi di importanza capitale“l’attenzione terapeutica”rivolta“tanto ai curati quanto ai curanti”.Ma neppure credo che Racamier intendesse riferirsi ai“disturbi”laddove presenti,o comunque alla“visione distorta”soltanto del singolo operatore.Quando parla di“istituzione curata”fa riferimento verosimilmente anche al“sistema-istituzione”,ai suoi meccanismi organizzativi che possono diventare a sua volta un“motore di patologia”per op.e pz.Ma se è vero che gli atteggiamenti e i comportamenti di op.e pz.risultano fortemente condizionati dalla struttura delle relazioni in cui essi sono inseriti non si può nemmeno scadere nel mero determinismo strutturale che rimuove il complesso rapporto esistente tra op.e/o pz. e istituzione proclamando la quasi assoluta dipendenza dei primi dalla struttura della seconda.Più equilibrata mi sembra la concezione che professa la natura relazionale della comunità che assume che la spiegazione dei fenomeni“strutturali”vada cercata nelle relazioni che si stabiliscono tra le unità piuttosto che nelle caratteristiche di tali unità considerate separatamente.Allora,mi immagino una“comunità”dove pazienti e operatori siano invogliati sempre più a trovare quello spazio per pensare che per tanti motivi è venuto a mancare nel”mondo esterno”.La comunità come un laboratorio del pensiero cioè“un tempo e uno spazio mentale individuale e collettivo”dove finalmente ci si può fermare a riflettere.Per quei pz. persone in cui è venuto meno lo“spazio per il conflitto,per la responsabilità…per la colpa e… per l’etica…”occorre aumentare quel momento della riflessione in cui possano confrontarsi(senza paura)“coll’ambiguità del vivere quotidiano e con il dolore del riconoscere la complessità dell’esistere…,il dolore,il bisogno di relazione”.A volte mi pare sottovalutiamo che le“esperienze che si sviluppano nel nostro lavoro clinico nelle istituzioni”sono essenzialmente“interattive”.La comunità se“mal curata”finisce per caratterizzarsi per quell’”afflato farmacologico”di vecchia data che proponeva di curare tutti allo stesso modo.Ma è finito il tempo in cui le comunità tendevano a curare tutti come se fossero psicotici tout court(nell’accezione più antica del termine,almeno quella fondata sull’equivalenza tra delirio e psicosi)e lavoravano moltissimo sul versante delle“operazioni concrete”come concreto è classicamente considerato il pensiero degli“psicotici”ma curando meno il versante delle“operazioni astratte”.La nuova comunità utilizza nella cura non soltanto“oggetti concreti”,ma ricomincia a trattare sempre più gli“oggetti”come“fantasmi”:maggiore attenzione è rivolta al mondo interno del paziente.Si tratta di considerare il mutamento delle comunità in un’ottica processuale e di“situazione”molto attenta all’individuo e alla sua storia.È vero che“la manualità sviluppa il pensiero”però è anche vero che“il pensare sviluppa il pensiero”.A volte mi capita di confrontarmi con pz.(dello spettro narcisistico, per così dire)che scarsa fiducia o nessuna confidano in questi“momenti della parola”.Mi dicono:-A che serve parlare?A cosa mi serve pensare a ciò che mi è successo?”,ma soprattutto:-partecipare ai gruppi risolverà i miei problemi?…Preferisco fare dei lavoretti in comunità…così non penso a niente,almeno mi distraggo.Oppure:-nell’altra comunità lavoravo tutto il giorno e ti punivano se non lavoravi bene…Qui parlo,parlo e mi annoio un sacco…-,è una delle frasi proferite più di frequente anche se poi omettono che non gradivano affatto quel regime che spesso definiscono”poliziesco”.Quindi il lavoro,la manualità alla stregua di una droga,come lo sballo che ti estrania da tutto che ti distrae persino da te stesso.Della serie“curiamo i drogati con altra droga”:il principio omeopatico applicato alla cura del narcisismo.Forse non serve a granché,forse pensare non risolve certi problemi,forse è preferibile“sballarsi col duro lavoro”piuttosto che“annoiarsi”,a patto però di non trascurare il piccolo particolare che è proprio dalla“noia”che nasce il pensiero.
io tornerei su quello che diceva Antonio, e porrei l’accento, però, sulla parola cura, (perché le piccole cose si vedono abbastanza), perché mi sembra che nella parola cura ci sono molte risposte a quello che dice Alessandro Spata. cura è una parola importante, all’incrocio tra vita e terapia, tra educazione, (non nel senso del bon ton) e attenzione, e anche rispetto.
e infine la via a quella dimensione dialogica per cui quando riusciamo a fa si che l’altro sia un Tu, allora tante cose non succedono più.
e poi sì, come diceva il poeta, niente è grande come le piccole cose
In un lavoro apparso sulla rivista “Il piccolo Hans”, edizioni Dedalo, nel giugno 1986 dal titolo “Psicoterapia, psicoanalisi, psichiatria nei primi anni sessanta”, Pier Francesco Galli propone alcune note, derivanti dalla sua diretta esperienza sul campo, circa i rapporti tra psicoterapia, psicoanalisi e psichiatria in ambito istituzionale dal dopoguerra fino ai primi anni sessanta, ovvero negli anni che furono di formazione per Paul Claude Racamier e che precedettero la sua definitiva affermazione a livello internazionale. Galli ricorda che il metodo psicoanalitico contribuì a sviluppare l’orizzonte della psichiatria e a rendere il suo modello vincente. In altro passaggio scrive che si evidenziarono, in quegli anni, conflittualità interne alla comunità terapeutica; ricordiamo, a questo proposito, che Freud aveva ritenuto non analizzabili gli psicotici ed i bambini, laddove in quegli anni iniziava, nelle istituzioni di cura pubbliche e private, una sperimentazione in tal senso confortati, in ciò, dalle tecniche di gruppo che permettevano sia di riunire i pazienti in gruppi terapeutici, sia di considerare l’équipe medica come un gruppo di operatori in stretta relazione tra loro.
E così, Pier Francesco Galli, parlando degli sviluppi che si ebbero in seno alla stessa psicoanalisi italiana, e delle polemiche conseguenti, scrive che “uno degli aspetti centrali della psicoterapia psicoanalitica” non risiede nel “curare il paziente a livello individuale” adoperando un metodo piuttosto che un altro, quanto nella “relazione interpersonale e nel lavoro di équipe” (pag. 179).
Le idee cui fa riferimento Galli rimandano, ovviamente, alle pioneristiche esperienze di Comunità Terapeutica che si ebbero, a partire dagli anni ’50, nel Regno Unito ad opera di Maxwell Jones, presso l’Ospedale Melrose in Scozia, e da Thomas Maine presso il Cassel Hospital, a Londra. Questo nuovo orientamento metteva al centro la trasversalità del discorso psicoterapeutico perché l’operatore era sollecitato a confrontare il proprio punto di vista con quello di professionisti operanti in discipline affini; inoltre la vita di comunità, riducendo la distanza tra psicoterapeuta e paziente – nonché quella all’interno dell’équipe medica, ovvero tra psichiatra e psicologo o tra medico ed infermiere, in quanto tutti coinvolti in un progetto comune – finiva per far emergere, al di là della sua competenza tecnica, la persona dell’operatore il quale non era più “difeso” dal camice, ovvero da una concezione burocratizzata del suo ruolo. In alcuni casi la responsabilità veniva condivisa anche con i familiari; come scrisse Racamier, a proposito della sua celebre casa di cura “La Velotte” – da lui fondata nel 1968 a Besançon, Francia – in un articolo apparso nel 1997 sul numero 1 della Rivista di Psychiatrie Française,
Noi affidiamo alcune responsabilità ai pazienti e ai loro familiari. E infatti quanto abbiamo fatto sin dalle origini poiché al momento della fondazione di questa struttura, senza peraltro rinunciare al mio ruolo, ho implicitamente attribuito ai genitori dei poteri considerevoli. Non va di fatto mai dimenticato quanto la psicosi è esplosiva. Se noi non coordiniamo tutte le energie positive quelle dei pazienti e delle famiglie quanto quelle dell’équipe e dei responsabili – rischiamo di attivare delle angosce intollerabili. Sono rimasto terrorizzato nel constatare come, in alcune istituzioni, sedicenti terapeuti, pretestuosamente per rispetto ai pazienti e agli operatori, lasciassero gli uni e gli altri nell’abbandono più completo, contentandosi di propinare senza attenzione qualche “interpretazione” selvaggia. Eccomi, in contrappunto, all’importanza della sicurezza: la sicurezza necessaria e sufficiente per poter assumere una certa responsabilità. (pp 137-152. Traduzione di Simona Taccani.)
Il modello di cura delle psicosi basato sull’istituzione di Comunità Terapeutiche era, in quegli stessi anni, sperimentato in Italia da Fabrizio e Diego Napolitani che, da metà degli anni sessanta in avanti, diressero centri ispirati a tale modello sia in ambito privato che in contesto pubblico. Nell’articolo da me citato Pier Francesco Galli ricorda la sua collaborazione con Diego Napolitani presso il Centro di Igiene Mentale di Milano e dello sviluppo che si ebbe, già a partire dai primi anni sessanta, nelle tecniche di gruppo applicate in una istituzione psichiatrica pubblica.
E proprio in uno scritto in memoria di Diego Napolitani, scomparso nel luglio del 2013 a Milano, Antonio Maria Ferro ricorda come questi ammoniva che “noi siamo degli operatori che abitano i territori di frontiera e dobbiamo essere come quei temerari sulle macchine volanti (…) che attraversano diversi saperi”. Pertanto, scrive Ferro,
(…) questa è l’originalità e la bellezza del nostro lavoro perché porta a metterci in rete con tanti ‘altri da noi’, a dia-logare appunto, ad imparare cose nuove per meglio operare, in modo flessibile, adattabile, rimodellabile rapidamente a seconda dei contesti di cura e di vita.
Ed infatti a chi, come Racamier, si poneva il compito di aprire, negli anni sessanta, una casa di cura che andasse al di là dei metodi della psichiatria tradizionale, era necessaria non solo una adeguata competenza professionale ma, anche, una notevole forza d’animo che permettesse di superare le incognite di una modalità di lavoro di cui non erano ancora del tutto chiari i destini. Dal momento che, con il trascorrere degli anni, i riconoscimenti a questo tipo di interventi sono stati formulati con le abituali reticenze a causa del permanere, nelle correnti meno innovative della psichiatria, di diffidenze nei confronti di una organizzazione della cura basata sui modelli su esposti, credo che un analogo riconoscimento vada formulato a chi, come Antonio Maria e Valentino Ferro, proseguono su questa strada, dirigendo e collaborando alle attività di un padiglione dell’Ospedale di Santa Corona di Pietra Ligure che porta il nome di Racamier e nei cui servizi si pratica la terapia istituzionale da lui proposta.
Inoltre, poiché sono stato anch’io, come A. M. ferro, allievo di Diego Napolitani, mi soffermo ancora su questa problematica dell’aspetto personale che sorregge il lavoro del professionista, ed accolgo con interesse l’esordio del saggio “Alcune riflessioni su Racamier” di Antonio Maria Ferro e Valentino Ferro i quali aprono il loro lavoro riprendendo l’idea che i confini tra professione e vita non siano mai netti quando si considera l’esperienza professionale come parte integrante della propria vita vissuta e dichiarano che “i ‘mattoni’ del nostro operare” ovvero il nostro setting, il nostro assetto mentale, deve essere vissuto come stile abituale della nostra vita nella relazione con l’altro, indipendentemente che sia “straniero che incontri, amico, paziente”.
Credo che sia proprio la lunga pratica istituzionale, vissuta in centri organizzati sulla falsariga della Comunità, in cui, come scrivono gli autori, l’intimità del proprio “essere” viene sempre interpretata come un “essere con”, a rendere evidente lo sconfinamento del personale nel professionale, e viceversa. Questo è il punto, tra i tanti sviluppati nell’articolo di A.M. Ferro e V. Ferro, su cui desidero maggiormente soffermarmi.
Nel lavorare per la salute mentale, la vita e le nostre attività non sono mai così disgiunte. (…) Racamier era un artista, o meglio un artigiano raffinato che ha in-segnato lo spazio mentale necessario per questa “bottega” dove teoria e pratica possono crescere in modo sinergico, grazie all’esperienza, la sensibilità, la curiosità mai sazia, il talento individuale dell’artigiano e della sua Scuola.
Gli autori riprendono da Racamier la metafora della “bottega”. Perché?
Il termine “bottega” rimandava originariamente all’idea del conservare ogni genere di cose e, in particolare, cibi; successivamente nel Medio Evo indicò più specificatamente il magazzino dello speziale, ovvero le prime forme di farmacia in cui venivano preparati composti sulla base di ricette. In epoca rinascimentale si indicò poi – e l’uso si conserva pressoché invariato ai nostri giorni – un laboratorio di artigiano o di artista. Pertanto l’uso metaforico di tale parola non indica un laboratorio di artigiano come può esserlo uno caratterizzato dalla frettolosità e dai rapidi cambiamenti dei nostri giorni, ma un luogo prossimo all’abitazione dell’artista, dove questi educava al mestiere i giovani discepoli nel corso di un praticantato che durava diversi anni, in cui i momenti di vita vissuta si embricavano con gli insegnamenti di contenuto più tecnico. A questo proposito gli autori scrivono:
Vi è una base che caratterizza uno “stile dell’essere”, “dell’essere con”: poi è evidente come nelle nostre cure siano fondamentali le nostre tecniche, la competenza, la formazione, la capacità acquisita di cogliere la “natura psicologica” di ogni pensiero, azione, movimento relazionale che si sviluppano nel gioco istituzionale, così come nelle dinamiche di una relazione duale e/o di gruppo.
Ma cosa dire della “tecnica” e dei suoi rapporti con conoscenze di ordine più generale? In linea di massima non è possibile distinguere nettamente una competenza strettamente tecnica dalla capacità che permette all’artigiano di produrre oggetti il cui valore funzionale non è mai dissociabile da quello artistico. Ma la compresenza dei due aspetti diventa più evidente quando non si tratta di oggetti, o disconoscenze nell’ambito delle scienze esatte, ma della comprensione dell’umano. Questo veniva chiarito già nel 1913 da Karl Jaspers il quale, riprendendo la distinzione di Wilhelm Dilthey tra scienze della natura e scienze dello spirito, nella sua “Psicopatologia generale” afferma che per comprendere l’umano senza ridurlo a puro oggetto sia necessario “un avvicinamento interumano, dove non c’è la contrapposizione soggetto-oggetto, ma un insieme di relazioni, perché l’oggetto si riassuma nel significato che esso assume per l’Io e e l’Io nell’oggetto in cui la sua intenzionalità emotiva si evidenzia. (Psicopatologia generale, pag. 62)
DA UNA RAPIDA OCCHIATA AI PUNTI SALIENTI DELLA CURA ISTITUZIONALE, FISSATI NELL’ART.DEI FERRO, PARE CHE LA PREOCCUPAZ.PRIMARIA DEL R.RISIEDA NON TANTO NELLA COMPRENSIONE DELL’UTENTE – MESSA A CONCLUSIONE DELL’ITER – QUANTO LA SALVAGUARDIA DEGLI OP. E QS.LO SI DEDUCE PURE DALLA CONTRADDIZIONE FRA IL II E IL VI PUNTO, INFATTI SE SI SOSTIENE LA NATURA PSICOLOGICA DI TUTTO CIO’ CHE RIGUARDA L’ASSISTENZA PSICHIATRICA, COME SI PUO’ RICCORRERE ALLA LOBOTOMIA CHIMICA? SI TRATTA DUNQUE DI UN INTERESSE AGLI OP.CHE RISCHIA DI ANTEPORSI A QUELLO VERSO L’UTENZA.
[b]Sicurezza dell’operatore e “comprensione” del paziente per me pari sono[/b]
La “sicurezza”dell’operatore e la“comprensione”della persona con problematiche psichiche non sono in competizione.Le due cose non si escludono:la“sicurezza”dell’operatore è condizione imprescindibile per poter mettere in atto tutti quei processi della“comprensione”che sono alla base del nostro lavoro di operatori della“salute mentale”(o almeno di quelli che lavorano“in prima linea”)e che tanto bene fanno ai pazienti e anche alla loro“sicurezza”.
La sicurezza è un diritto dell’op. psicosocio-sanitario e rappresenta un elemento qualificante della qualità delle prestazioni erogate a favore dei pazienti.Gli op.si confrontano quotidianamente con persone dalla pericolosità variabile e si dedicano a rapporti segnati da una emotività intensa, travolgente,comunque logorante:operatori e pazienti e i loro familiari,sono spesso accomunati da uno stato di fragilità,avvilimento,paura o potenzialmente da una perdita di controllo.Gli op. sono chiamati a gestire questo genere di emozioni in loro stessi prima di tutto e“poi”nei pazienti il cui stato emotivo non di rado è esasperato dall’effetto di alcol o droga.“L’operatore”con la propria azione è responsabile in buona parte della qualità di vita del paziente che spesso non può contare su nessuno all’infuori dell’istituzione.Se consultiamo un manuale per la formazione degli operatori sanitari e in particolar modo il capitolo che riguarda la“Sicurezza dei pazienti e la gestione del rischio clinico”vedremo che sicurezza e comprensione stanno in un rapporto di reciproca complementarietà,secondo me,ambedue sono questione di“conoscenza e formazione”adeguate.Persino la comprensione è il risultato di“un’educazione” e scaturisce da una efficace presa in carico“sistematica”più che da una“splendida attitudine solitaria”all’empatia dell’operatore.Ovviamente,sono convinto che l’operatore della salute mentale proprio perché a contatto con la sofferenza psichica che è multivariata, debba avere una speciale predisposizione a“comprendere”la persona e i suoi conflitti, però non scadrei neanche nella tentazione esiziale di credere che“l’eroico operatore psicologico”per il solo fatto di lavorare nel campo delle relazioni d’aiuto o per il fatto di avere studiato la“psicologia”in tutti i suoi risvolti anche psicopatologi debba per forza essere l’esperto massimo della natura umana e delle sue dinamiche interne ed esterne perché è proprio questa“pretesa”che rischia di farci esprimere a volte il narcisismo più bieco a tutto danno dei gruppi di lavoro e dei pazienti e degli op.medesimi.Citando qua e là quelli che “ci capiscono” diremo allora che gli operatori della salute mentale non debbono essere né meglio né peggio degli altri lavoratori,ma devono attenersi al pari degli altri lavoratori a delle regole e ad uno“stile di vita”che includono principalmente conoscenza, formazione,rispetto di sé e degli altri,l’umiltà di capire che ci sono sempre un sacco di cose da imparare là fuori.“…La sicurezza degli operatori (e pazienti) nasce dalla individuazione dei rischi,dalla prevenzione,come pure dalla gestione dei danni e delle relative conseguenze.La sicurezza di op.(e pazienti)deriva dal riconoscimento delle implicazioni organizzative del rischio clinico e si inserisce nella prospettiva di un complessivo miglioramento della qualità e scaturisce dall’adozione di pratiche di governo clinico che pone al centro i bisogni dei pz. e valorizza nel contempo il ruolo e la responsabilità di tutte le figure professionali che operano al servizio del pz. In conclusione, se escludiamo i casi in cui il contesto o la tipologia dei pazienti obbliga a dotare gli operatori di comunità di una speciale“armatura”o di barriere architettoniche,la“sicurezza”dell’op. e la“comprensione”dei pz. concernono essenzialmente l’implementazione di risoluzioni efficaci strettamente collegate all’analisi delle criticità dell’organizzazione e dei limiti individuali e presuppone la realizzazione di provvedimenti organizzativi e lo sviluppo di atteggiamenti finalizzati a favorire l’analisi delle situazioni negative e a trarre gli insegnamenti che da questi possono scaturire….”.Insomma individuazione dell’errore e sua riparazione.La“sicurezza-comprensione”nel campo della riabilitazione e cura psicosocio-sanitaria è sempre più il“…risultato programmato e complesso,di un’analisi delle qualità individuali e perizia professionale, delle dinamiche interpersonali e di gruppo e corrispondente grado di collaborazione,delle prassi operative della équipe(analisi di tutti gli stadi decisionali e le dinamiche implicite)che contribuiscono ad un processo terapeutico….”.Quindi, non mettiamo operatori e pz in concorrenza tra loro.La sicurezza degli operatori non è roba da“sceriffi”,né la“comprensione”è peculiarità delle “anime belle”:esse sono questioni sistemiche che non possono essere trattate in modo separato né avulso dalle altre variabili dell’organizzazione.