Il termine craving deriva dall’inglese e non è mai stato tradotto in altre lingue, entrando a far parte del vocabolario della psicologia nella sua forma originale. Indica il desiderio impulsivo di un determinato principio attivo. Non è difficile scatenarlo quando si è dipendenti da una sostanza. A meccanismo di condizionamento innescato, il trigger (grilletto in italiano, altra parola anglosassone utilizzata e accettata nel linguaggio dell’analisi) può infatti scattare in seguito a svariati eventi o come conseguenza di numerose circostanze.
Che cos’è il craving?
Tipicamente, la parola craving si associa alle sostanze psicoattive. Il concetto, ad ogni modo, è valido anche quando si parla di cibo o qualunque altro comportamento, oppure oggetto, si ritenga gratificante. Di fatto, parliamo di un comportamento additivo, malsano e che spinge verso la compulsione. Quando ci chiediamo cos’è il craving, possiamo risponderci che si tratta di una serie di comportamenti tutti finalizzati a fruire dell’oggetto del desiderio. L’appetizione indotta è talmente forte da diventare irrefrenabile. Qualora il soggetto non riesca a procurarsi la sostanza di cui ha bisogno proverà sofferenza fisica e psichica accompagnate da astenia, anoressia, ansia e insonnia. Non solo. Gli esperimenti dello psichiatra veneto Mauro Cibin, tra i massimi esperti italiani di dipendenze, hanno evidenziato che il craving non soddisfatto apre le porte a irritabilità, aggressività, depressione e iperattività.
L’urgenza di utilizzare la sostanza è normalmente connessa con un conflitto nell’ambito cognitivo tra la motivazione all’assunzione e la consapevolezza del rischio che ne deriva. In quest’ottica il craving diviene funzione di diversi fattori. Questi interagiscono in un mutevole equilibrio con il mondo intrapsichico e le interferenze ambientali. Il primo elemento che entra in gioco è, naturalmente, il desiderio verso la sostanza. Esso è sostenuto dall’esposizione a stimoli condizionanti (anche detti cue), dallo stress e dal tono dell’umore (trigger mood), forse il più importante tra i fattori di rischio. Lucidamente, una persona afflitta da craving possiede un buon grado di consapevolezza di questo rischio. Quando però il craving agisce è molto difficile rallentarlo e tale lucidità va smarrita.
Alla base del desiderio stanno le esperienze pregresse. Chi ne soffre ricorda di aver utilizzato una determinata sostanza e di averne tratto beneficio, gioia e relax. L’impiego eccessivo della sostanza, e l’innalzamento a esso connesso della soglia di gratificazione, producono stati affettivi negativi, stimolando il cervello a mettere in azione i comportamenti di richiesta di quanto lo faccia stare meglio, quello a cui è ormai assuefatto. Ecco cos’è il craving: una pericolosa fase della dipendenza, la quale mette in moto una serie di azioni e reazioni che ci spingono a fare di tutto – letteralmente, nei casi più gravi – pur di poter mettere mano a quello che ci fa stare bene.
Due forme di craving
Il craving si può identificare in due forme differenti, distinte dal punto di vista delle aspettative del paziente. Da un lato, la preoccupazione di assumere la sostanza per evitare l’astinenza resta sempre presente. Questa forma è quella tipicamente definita negativa, a partire dagli studi di Alexis Petrakis risalenti al 1999. Si tratta infatti di una tipologia lesiva, tipica del dipendente che non riesce a staccarsi da quanto gli dia dipendenza e soffre se resta troppo tempo lontano dalla sostanza.
Cos’è il craving positivo? Questa è la seconda forma riconosciuta. Si definisce così perché legata al reward del consumo della sostanza, all’aspettativa di una incentivazione e gratificazione. È una sfaccettatura che ad alcuni potrà sfuggire ma il consumo della sostanza da cui si dipende mostra due risvolti: uno è legato all’aspetto tremendo del non poterne fare a meno, l’altro al senso di equilibrio e benessere che pervade il dipendente non appena la introduca nel proprio corpo. Sono due facce di un’unica medaglia.
La natura della dipendenza: cos’è il craving e cosa lo caratterizza
La psicologia è oggi in accordo sul fatto che il craving sia il risultato della combinazione di più fattori. Tra essi vi sono la situazione emotiva, la reattività agli stimoli, la capacità di controllo e l’autoefficacia. Incidono però anche la situazione fisica e le cognizioni sulla propria condizione. Questa varietà di fattori trova il suo corrispettivo neurobiologico nella cosiddetta cascata neurotrasmettitoriale, quella che modula la secrezione di dopamina.
Qualora un deficit o uno squilibrio interrompesse il flusso della feniletilammina, o ne distorcesse la liberazione, il risultato finale sarebbe la percezione di ansia o angoscia. Per combatterla, l’organismo potrebbe originare un intenso desiderio di assumere una sostanza in grado di alleviare tali sensazioni. Il craving altera la psiche e ci rende schiavi di una sostanza, tanto da farci star male in sua assenza. Il problema delle dipendenze sta tutto qua: esse diventano il nostro principale, se non unico, scopo di vita. Il fatto che si possa star bene soltanto quando si è sotto l’effetto di una sostanza è già di per sé sufficiente ad ammonire chiunque sui rischi dell’assunzione di determinati principi attivi.