Il rapporto tra desideri e pubblicità è, da sempre, uno dei principali motori del mercato. Negli ultimi tempi, a causa di una serie di fattori tra cui l’esplosione di internet e dei social network, la pubblicità è molto cambiata. Il progresso tecnologico ci ha portato a evolvere il marketing passando dalla necessità di rendere pubblico un prodotto (réclame tradizionale) a quello di farne risaltare l’unicità (unique selling proposition – USP). Ormai abbiamo infatti accesso a milioni di proposte di vendita. Ogni volta che guardiamo il cellulare, o ci rilassiamo sui social, siamo letteralmente bombardati di pubblicità. Eppure, la leva è sempre rimasta la stessa: creare un bisogno, un desiderio e influenzare così la domanda di quel prodotto che si vuole vendere.
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L’importante è che se ne parli
Mai la abbiamo richiesta in modo esplicito, eppure non possiamo evitare di averci a che fare. La pubblicità è da sempre compagna della nostra vita e, c’è da scommetterci, lo sarà per sempre. Camminando per strada, scrollando la bacheca della piattaforma sociale online che preferiamo, nella cassetta della posta oppure all’interno di riviste e quotidiani: ovunque troviamo spot e annunci pubblicitari. Per molti di noi è una vera e propria seccatura, eppure dobbiamo comunque farci i conti. Ogni spazio pubblicitario ci manda un messaggio, ci invita a un acquisto e, spesso, lo fa in modo subliminale.
Secondo Vance Packard, sociologo statunitense molto influente nel corso del ‘900 ed esperto di persuasione, la pubblicità è in grado di manipolare gli impulsi mentali delle persone. La forza di questo veicolo di comunicazione sta nel fatto che lo fa in maniera totalmente irrazionale. Riesce così molto spesso a forzare acquisti perfettamente inutili, all’insegna di un consumismo sfrenato e difficilmente spiegabile. Le sue vittime predilette, naturalmente, sono i bambini. Essi sono ancora privi di autocontrollo (devono costruirsi un proprio super-io, direbbe qualche psicologo) per via della loro tenera età. Rappresentano dunque un terreno di caccia fertilissimo, una vera e propria terra di conquista per i subdoli pubblicitari e le loro potenti leve.
Desideri e pubblicità: come la seconda riesce a generare i primi
I pubblicitari, e gli esperti di comunicazione che li affiancano, conoscono molto bene la psicologia del loro target privilegiato. Essi sanno bene che spot semplici, capaci di colpire, accompagnati da musica orecchiabile e slogan accattivanti entrano facilmente in mente e vi permangono. Man mano che navigano nel nostro subconscio, questi messaggi simpatici e divertenti creano un desiderio, un bisogno che in realtà non avevamo, quello di possedere l’oggetto a essi collegato. Ecco che lo spot ha fatto effetto. Ciò vale principalmente per i bambini, ma anche numerosi adulti finiscono in questa trappola, se così vogliamo definirla, e si lasciano convincere dalla réclame a effettuare un acquisto del quale potevano benissimo fare a meno.
Desideri e pubblicità sono fortemente connessi. Specialmente nel caso dei bimbi, ma anche in quello dei loro genitori, si sfrutta il cosiddetto meccanismo di identificazione. Definito dal noto teorico Robert Cialdini, esso si riferisce all’importanza di creare un setting pubblicitario nel quale il potenziale acquirente si possa immergere, diventando protagonista della situazione, magari perché gli ricorda la sua famiglia o ritrae uno status cui aspira. Compiuto questo passo, egli probabilmente realizzerà – erroneamente – di aver bisogno di quello specifico prodotto per poter trasformare la scena che vede nella sua realtà quotidiana.
Miti, simboli, desideri e pubblicità: la psicologia del marketing
Il successo delle tecniche pubblicitarie si deve a studi di neuromarketing, strategie persuasive e all’accortezza di centellinare le informazioni in modo da veicolare un messaggio promozionale che colpisca e attiri. Una leva psicologica di cui molto spesso si servono i pubblicitari è quella dell’associazione simbolica. Tramite questo espediente i prodotti pubblicizzati acquisiscono un significato molto più potente, diventando altro rispetto a quello che sono e ponendosi come strumenti forieri di prestigio e soddisfazione. Un automobile sportiva, o lussuosa, per esempio, non è soltanto un veicolo capace di portare il suo guidatore dal punto A al punto B, bensì una sorta di trono che vale riconoscimento, prestigio e potenza.
Questo è un importante punto di contatto tra desideri e pubblicità: non si tratta tanto di vendere oggetti, bensì status symbol. Il possedere questo prodotto ti rende la tale persona, altrimenti sei molto meno interessante. Per quanto consapevoli siamo che il processo in atto sia questo e soltanto questo, continuiamo a cascarci. La pubblicità genera miti e simboli in quantità industriale, poi li associa a quello che si debba vendere. L’acquirente non compra uno strumento, bensì un valore. I più affascinanti sono quelli che vediamo mostrati più spesso: giovinezza, velocità, bellezza, salute e forma fisica. Se associamo un prodotto al fatto che possa farci stare meglio, siamo molto più disposti ad acquistarlo.
Nell’inconscio del consumatore si verificano principalmente due processi, quando entra in contatto con uno spot ben fatto: identificazione, di cui abbiamo già scritto, e compensazione. Quest’ultimo sfrutta una debolezza psicologica molto comune, la paura di non essere all’altezza. Se vediamo un bell’orologio al polso di personaggi famosi, imprenditori potenti o sportivi di successo, potremmo pensare che quel prodotto possa portarci a somigliare a loro. Naturalmente, si tratta di un’assurdità perché lo status di quelle persone non ha nulla a che fare con il modo in cui s’informano su che ore siano. Se ci pensiamo un momento, ce ne rendiamo subito conto. Qualora però non riflettessimo su questo aspetto, il gancio pubblicitario potrebbe già avere raggiunto il suo obiettivo.
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