Ci ha lasciato Eugenio Borgna. Perdiamo un Maestro, grande rappresentante di quell’indirizzo fenomenologico che, in alternativa eppure in sinergismo con quello psicanalitico, ha rinnovato dalle basi il nostro approccio alla sofferenza mentale. Ha dichiarato che la psichiatria fenomenologica riguarda i modi di essere della vita psichica, incentrati sulla interiorità, sulla soggettività di chi sta male: e la cura come nutrita di dialogo e di ascolto.
Questo indirizzo non tende a creare, credo, una specifica tecnica (anche se Victor Frankl ha proposta una logoterapia esistenziale); si propone piuttosto come il tessuto connettivo di ogni intervento terapeutico psichiatrico che, nelle sue diverse specifiche declinazioni, non può comunque scordare la centralità dell’incontro fra persone: nel nostro specifico campo, fra paziente e terapeuta. Questi è in ascolto di un messaggio che è come une bouteille a mer: potrebbe arrivare come no.
L’insegnamento di Eugenio Borgna
Questo insegnamento ha le radici nella scuola tedesca di Husserl e Heidegger: in particolare, con i “Seminari di Zollikon”, che vedono l’incontro di Heidegger con lo psichiatra Medard Boss. Viene filtrato e riproposto da persone come Binswanger o Von Gebsattel ( per breve tempo terapeuta di Heidegger!) e sviluppato in Italia da personaggi come Callieri, Cargnello e appunto Eugenio Borgna. Egli riprende fra l’altro la lezione di Karl Jaspers, che invitava gli psichiatri a non accontentarsi di una formazione tecnica (fra l’altro da sempre alquanto debole) ma ad arricchire la propria formazione con riferimenti a quanto ci insegnano la buona letteratura e la filosofia.
Nella terapia psichiatrica – mettendo fra parentesi il ruolo più o meno importante degli effetti farmacologici – il raffronto fra le varie tecniche di intervento psicoterapico e la relativa efficacia non ha dato prove convincenti della superiorità di una tecnica sulle altre. Qualcuno ha parlato di “verdetto di Dodo”: “tutti hanno vinto; ognuno merita un premio”. E’ dunque presente un fattore comune: quello denominato, un po’ rozzamente e con finalità di analisi statistiche, effetto placebo; termine questo aspecifico, che nulla dice sulle dinamiche che lo sottendono. Si può ragionevolmente ritenerlo espressione anche e soprattutto del tipo di rapporto interpersonale che si è stabilito fra paziente e terapeuta.
Eugenio Borgna, in ottica fenomenologica, ce lo ricorda – con una eleganza del dire mai fine a sé stessa – nel continuo riproporci l’incontro di vissuto ed emozioni del paziente con quelli del terapeuta: la ricerca dell’incontro è il filo conduttore di ogni terapia. Ne è la costante, senza dimenticare la differenza dei ruoli nonché le attitudini e capacità personali.
L’orientamento di Eugenio Borgna
Doveroso ricordare che questo orientamento – in una sintesi con il pensiero marxiano – ha stimolato e guidato Basaglia, che teneva a precisare di non essere psicanalista: all’epoca la psicanalisi scontava il “peccato originale” di essere nata in un contesto privatistico, con rapporto economico paziente – terapeuta; successivamente, soprattutto in forma gruppale, essa ha fortemente contribuito al rinnovamento- superamento delle istituzioni. Se la relazione è fondamento della cura, luoghi come i manicomi, dove il rapporto interumano veniva profondamente distorto, come potevano essere luoghi di cura, anche se avevano velleitariamente cambiato il proprio nome in quello di Ospedali Psichiatrici?
Eugenio Borgna, pur senza atteggiamenti militanti, aveva sostenuto concretamente un ruolo operativo nel nuovo assetto della assistenza psichiatrica; e aveva scritto che la psichiatria o è psichiatria sociale o non è psichiatria. Dopo avere avidamente utilizzato il suo sapere e la sua disponibilità in certi convegni, un giorno gli ho chiesto di poter visitare, con un gruppo di infermieri, il SPDC di Novara da lui diretto. La prassi mi è apparsa conforme alle posizioni teoriche: reparto aperto, discreta libertà, atmosfera serena, ambienti decorosi. Quindi Borgna non si è affatto limitato a elaborazioni teoriche: ha saputo sporcarsi le mani nella quotidianità della cura, di cui ha fatto parte anche la cura degli ambienti; tutto ciò, con l’umiltà di non propagandare il proprio lavoro come esemplare.
La centralità della relazione in terapia
La centralità della relazione in terapia presuppone la non radicale difformità del vissuto psicotico da quello di noi presunti sani. Questa visione Borgna l’ha rafforzata anche con un raffronto fra l’esperienza psicotica – in particolare quella degli esordi – con quella del migrante: per entrambi, si tratta di inoltrarsi in una terra sconosciuta e inospite (ricorda, un po’ alla lontana, quel waste land di T.S. Eliot, che ci parla di tutti noi ). In quella terra mancano gli abituali riferimenti, un linguaggio comune, una possibilità di vicinanza e condivisione. E’ un aspetto che Borgna ha studiato in profondità, evidenziando ancora una volta la fondamentale unitarietà di esperienze umane in apparenza difformi: è questa la forza della sua visione.
L’incontro col dolore dell’Altro può suscitare angoscia che “scende in noi con balenanti contaminazioni”. Il compito può esser difficile. Ma Egli dedica anche pagine alla felicità, che consiste nella piena accettazione di sé: “diventa ciò che sei” (Nietzsche). Ritiene che una esperienza di felicità sia premessa alla comprensione dell’Altro. Pure ha dedicato, senza contraddizione, un intero volume alla melancolia, condizione trattata non solo da psichiatri e psicologi ma anche da importanti artisti, e in cui la jaspersiana comprensibilità – verstehen – è meno impervia ( anche se con la abituale umiltà ci ha ricordato di non essere un critico letterario e di non averne gli strumenti). Lasciando da parte romantici e postromantici, da Foscolo e Leopardi fino a Baudelaire, riporterei solo Michelangelo: “La mia allegrezza è la melancolia”.
La melancolia clinica
Si cita Galzigna sulle relazioni della melancolia letteraria-filosofica con la melancolia clinica; trascrivo forse non proprio esattamente: “dal patologico nascono figure dell’esperienza che si ripetono nei linguaggi della filosofia e della letteratura; e solo convenzionalmente e scolasticamente questi linguaggi sono considerati incompatibili con i modi di essere (con le forme) dell’esperienza psicotica”.
Ma la scelta di questi temi non è stata certo per Eugenio Borgna una scelta di comodo, poiché la sua riflessione ha riguardato ogni aspetto e manifestazione della sofferenza mentale; anche i più impegnativi. Sull’esperienza propriamente psicotica – nelle aree della melancolia grave o della schizofrenia – cito solo una delle sue tante concettualizzazioni: nei confronti dei contenuti psicotici il paziente può impostare sia una relazione mimetica, l’ideazione e l’identificazione, sia una relazione critica, fatta di distanza cognitiva ed emozionale.
Non mancano indicazioni tecniche, che riconfermano come la riflessione anche filosofica non abbia mai allontanato Eugenio Borgna da quella tecnico – terapeutica: ricorda che una apertura dialogica precipitosa con Gestalt colloquiale troppo intensa e rapida sollecita timore, e al contrario quando è troppo lenta e inerziale alimenta “dissonanze e diserzioni” insostenibili. Ciò ha a che fare con l’alternativa, certamente non psicotica, fra il nostro desiderio di solitudine e quello di comunicazione. La solitudine può essere volontaria e potenzialmente feconda, come nella creatività. Nel testo si riporta Emily Dickinson:
Ha una sua solitudine lo spazio,
solitudine il mare
e solitudine la morte – eppure
tutto questo son folla
in confronto a quel punto più profondo,
segretezza polare
che è un’anima al cospetto di sé stessa –
infinità finita
Si rivaluta quindi l’introspezione, “io stesso con me stesso”, che a lungo era stata svalutata in nome dell’osservazione obbiettiva. Mutatis mutandis, ciò può ricordare l’antica esperienza dell’ascesi.
L’isolamento è pura sofferenza imposta
L’isolamento invece è pura sofferenza imposta. Può nascere dalla paura, e a questo proposito viene citato Zigmunt Bauman: la cosa che suscita più spavento è l’ubiquità della paura”
Questo tema si articola con il rapporto, presente in terapia ma non solo in terapia, fra la parola e il silenzio, alternativi e complementari. Il dialogo necessita dunque una “apertura radicalmente umana” con messa fra parentesi della diagnosi, e confronto con la nostra soggettività. Mi pare che il riferimento a questo confronto richiami il concetto di controtransfert e della sua analisi: uno dei non pochi momenti di incontro fra le due discipline.
L’aderire a queste posizioni ci può oggi apparire cosa ovvia, scontata (peraltro non per tutti); ma se è così è perché è penetrato in profondità, ispirando anche le prassi terapeutiche, l’insegnamento di Lui e di altri come Lui.
La sua grande autorevolezza, espressa in tanti contributi non è mai divenuto autoritarismo: ricordo ancora con che affabilità si rivolgeva a tutti noi. Si è sempre dimostrato persona sensibile, gentile, disponibile: la chiarezza delle sue posizioni teoriche non è mai divenuto oggetto di insegnamento magistrale ma di confronto, certo sempre nel rispetto dei fondamentali del suo pensiero.
Lo rimpiangiamo, come maestro e come persona.
Grazie di questo contributo che mette a fuoco gli aspetti più importanti della lezione di Eugenio Bornia. Vorrei ancora sottolineare come nella sua visione pregnante di un’apertura radicalmente umana, essenziale alla cura, si manifesti la sostanza della nostra costituzione relazionale . Proprio ciò che ci può permettere di accogliere e condividere credo ci abbia mostrato il professor Bornia nel modo di incedere con la gentilezza e il rispetto per i propri e gli altrui valori .