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Ketamina e depressione: lo studio delle sostanze d’abuso in psicofarmacologia

Commento alla notizia ANSA del 4 maggio 2016

È recente il crescente interesse per l’uso della ketamina, un anestetico utilizzato in medicina veterinaria e noto come sostanza d’abuso con proprietà anestetiche e dissociative, nel trattamento della depressione. In particolare l’interesse è stato dettato dalla rapida insorgenza di un effetto terapeutico, ancorché non mantenuto nel tempo. Finora restava tuttavia il problema, oltre che della temporaneità dell’effetto, degli effetti collaterali, fra cui la possibile dipendenza.

Un gruppo di ricercatori del NIMH di Bethesda, coordinati dal Dr. Zanos, ha tuttavia condotto uno studio, pubblicato in maggio su Nature, che ha fatto luce sul meccanismo d’azione antidepressivo della ketamina, riconducendolo ad un metabolita privo degli effetti anestetici, dissociativi e di dipendenza, almeno nel modello animale. I ricercatori sono partiti dall’osservazione che nel ratto l’effetto antidepressivo della ketamina si manifestava nelle femmine di ratto a dosi marcataamente inferiori rispetto ai maschi ma che questo non era correlabile alla concentrazione cerebrale di ketamina.

In realtà questi ricercatori hanno trovato che la differenza risiedeva nel livello di concentrazione encefalica di idrossinorketamina, tre volte più elevato nel cervello delle femmine di ratto rispetto ai maschi.

Per verificare che tale sostanza fosse effettivamente responsabile dell’effetto antidepressivo i ricercatori hanno ingegnerizzato la ketamina in un composto non metabolizzabile, che di fatto perdeva l’efficacia antidepressiva pur mantenendo le altre proprietà. Inoltre hanno verificato che a differenza della ketamina, affine al recettore NMDA dei circuiti glutamatergici, l’idrossinorketamina presentava affinità per il recettore AMPA, il cui blocco impediva effettivamente l’effetto antidepressivo del metabolita. Nel modello sperimentale animale l’efficacia di una singola dose di idrossinorketamina si dimostra a rapida insorgenza e di lunga durata, fino a tre giorni e non si rilevano alterazioni nella coordinazione e motilità dell’animale.

Studi analoghi su questo sistema neurotrasmettitoriale erano già stati fatti in passato anche con il destrometorfano.
Questi i fatti. Le considerazioni al riguardo sono molteplici. Sicuramente la depressione sta avendo un impatto epidemiologico di rilievo e, pur essendo una malattia con storia naturale benigna e spesso autolimitantesi, espone al rischio letale di suicidio ed è fonte di grave invalidità, con danni di grande portata in caso di recidive e cronicizzazione. L’indisponibilità di presidi farmacologici a rapida insorgenza d’azione è sempre stato un problema in questo ambito e anche l’ultimo arrivato, la vortioxetina, antidepressivo a effetto “multimodale”, di fatto non rappresenta una vera novità nell’approccio al disturbo depressivo.

Pertanto vi è la domanda di strategie nuove, più rapidamente efficaci. Ma accanto a questo vi sono anche interessi legati all’industria, non propriamente di carattere clinico. Un problema di salute che sembra diventare epidemico richiede una riflessione sui criteri diagnostici, sulla ricerca dei fattori eziologici e su strategie di intervento multidisciplinari. Anche attenendosi strettamente alle depressioni più gravi sicuramente la necessità di esplorare nuove strade, finora mai tentate anche per remore culturali, può avere un senso. E’ di recente pubblicazione anche l’osservazione dell’impiego dell’allucinogena psilocibina nel trattamento della depressione.

Posto che tutte queste strade devono essere verificate, pensate e testate secondo i protocolli della ricerca clinica e che una cura davvero disponibile, efficace e sicura derivata da questi studi non è poi così vicina, occorrono onestà intellettuale e libertà di pensiero unite ad intuizioni veramente intelligenti che permettano di uscire, in ambito farmacologico, dalla logica del me-too drug, ritoccato solo per occupare una nicchia di mercato.

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