Vaso di Pandora

Terrore e terrorismo

Segue un commento di C. Conforto, G. Giusto, R. Antonello, P. Pisseri

…All’indomani delle “stragi” sembriamo tutti un po’ dei reduci di guerra affetti da PTSD: alcuni piangono rassegnati e impotenti di fronte all’orrore dei corpi in pezzi mostrati in tv; altri “si mettono a dare calci a destra e a manca” per la rabbia e rischiano di tornare in sé soltanto dopo che si sono resi conto di “aver sfondato nel frattempo la faccia a qualcuno in mezzo ad una strada”, nella migliore delle ipotesi. Siamo stati “addestrati” per diventare macchine per dissociare e razionalizzare. Siamo come bombe ad orologeria: prima o poi le nostre reazioni fatidiche all’orrore consueto scoppieranno ancora puntuali e con effetti sempre più deflagranti…

Sento ancora il bisogno di dibattere sulle vittime dell’ennesimo genocidio terrorista. Qualcuno dice che dovremmo abituarci a “convivere” con questi fenomeni orripilanti, un po’ come abbiamo accettato l’idea del “tasso di disoccupazione frizionale” al 4% come naturale e ineluttabile esito dell’attuale organizzazione del mercato del lavoro. E allora quanti disoccupati ci aspettiamo statisticamente nel biennio 2016/2017? E quanti morti per terrorismo nello stesso periodo? Morti e disoccupati, nient’altro che statistiche, mere variabili, anzi costanti imprescindibili della nostra vita quotidiana, ormai. Può apparire stucchevole sinceramente stare qui a discutere sulle motivazioni psicologiche se non psichiatriche o politiche e sociologiche che possono aver spinto queste persone a diffondere morte e distruzione senza ritegno.

Questo genere di spiegazioni sempre puntuali all’indomani di atti terroristici non ci hanno messo al riparo purtroppo, mi sembra, dagli attentati stessi. Questo non significa che voglio rinunciare a “comprendere” nel senso di “capire” cosa abbia prodotto l’attentato in quanto fenomeno complesso. Vorrei sottolineare che “comprensione” qui non significa tolleranza, giustificazione, indulgenza, sottomissione, passività, ma è il tentativo di mettere la potenza dei neuroni ancora funzionanti “al servizio dell’intelletto, con l’obiettivo eventuale di provare a chiarire le cause che potrebbero aver prodotto un dato evento”. Un invito direi alla “responsabilità tragica” e a fuggire la “logica della colpa”. Assumere una “posizione depressiva” in questi casi ha il vantaggio almeno di restituirti tutta la complessità della realtà che stiamo vivendo e comunque è sempre meglio di certe “posizioni schizoparanoidi” che tagliano la realtà con l’accetta del “pensiero dicotomico” che certo non ci aiuta granché nei momenti di grave lutto come questi.

E proprio allo scopo di approssimarmi alla complessità del fenomeno delle “stragi terroristiche” mi serve richiamare l’ultimo capoverso dell’articolo del Prof. Giusto “Perché si muore per uccidere” quando propone che “il problema da individuale diventa collettivo …sociale, economico, politico e culturale e nessuno se ne può sentire estraneo come nessuno poteva né doveva sentirsi estraneo al nazismo”.

Quindi, l’autore sembra voler prendere in considerazione, proprio in virtù della complessità della realtà stessa, la prospettiva degli “Altri” cioè di coloro che sono vittime dirette e indirette delle stragi terroristiche e di chi finisce per essere semplice spettatore di simile violenza. Tralascio di approfondire, ma solo perché lo ritengo scontato, il fatto che, insieme al rafforzamento dell’intelligence e delle misure di sicurezza e della collaborazione tra gli stati ecc., questo tipo di approccio sistemico, per così dire, mi pare l’unico atteggiamento sensato e idoneo, pur nella sua ampiezza potenziale di intervento, ad arginare concretamente questo genere di violenza (e comunque sempre più sensato di chi all’indomani della strage di Bruxelles ha proposto come da copione l’ennesima “chiusura delle moschee o delle frontiere” spacciandoli senza vergogna come possibili atti risolutivi).

Mi soffermo in particolare, sul richiamo a “non sentirsi estranei al problema”. Non è una chiamata di “correità” quella del Prof. Giusto evidentemente, però è interessante, secondo me, porsi il problema di quanto “effettivamente” “Noi-Altri” (“non-terroristi”) siamo parte (in che misura responsabili o colpevoli) del problema medesimo in un’ottica di “comprensione” nell’accezione più sopra richiamata e lungi da me qualsiasi tentativo giustificazionista, ribadisco.

Premetto che per la disamina mi servirò anche di alcune concettualizzazioni psicanalitiche con la consapevolezza che se è vero che “occorre grande cautela nell’introdurre i concetti psicanalitici nelle aule giudiziarie”, altrettanta prudenza occorre nell’utilizzare determinate astrazioni psicanalitiche nell’indagine del fenomeno terrorismo in quanto manifestazione complessa a cavallo tra l’aspetto psicologico individuale e quello sociologico collettivo.

E utilizzerò tutta “l’ambiguità” apparente dei termini “responsabilità” e “colpa” per esprimere tutta la complessità dei miei dubbi “cosmici”.
Dunque, casualmente (?) qualche giorno fa rileggevo alcuni passi di un articolo di Main “Knowledge, learning, and freedom from thought”, che tratta per la verità delle comunità di riabilitazione. Mi scuso per quello che può sembrare a primo acchito un incauto quanto dissennato accostamento, ma le vie delle “associazioni” sono infinite, come è noto. E con tale balzano collegamento non voglio qui nemmeno riferirmi al terrorismo come ad una “malattia sociale”, né sto proponendo che i terroristi siano vittime di “malattie” comportamentali socialmente e psichicamente determinate, da affrontare in qualche comunità terapeutica, eventualmente.

L’allusione vorrebbe evidenziare tutta la difficoltà di interpretare l’oggetto terrorismo e la sua efferatezza di proporzioni tali che si dice “non ha più nulla di umano”.
I terroristi sono psicopatici incorreggibili, o semplici delinquenti? Criminali intelligenti, o nient’altro che farabutti della peggiore specie? Oppure possiamo interpretare il terrorismo come uno stato psicopatologico che può essere definito al contempo come “disturbo sociale” o meglio “Anti-sociale” nel senso del terrorismo come “sintomo” o espressione di una “società disturbata”. La diatriba può dare un’idea delle difficoltà che si incontrano nella classificazione di questo tipo di violenza.

Uno dei semplici fattori che sconvolge qualsiasi controversia sulla “responsabilità morale” e/o criminale dei terroristi è che, se ammettiamo che il terrorista sia affetto, ad esempio, da un disturbo antisociale di personalità dobbiamo ammettere in linea di principio che le facoltà intellettuali dello “psicopatico-terrorista” siano intatte, e tuttavia il pensiero razionale non ha per lui alcun valore temporale. Il terrorista omicida o suicida sa perfettamente ciò che sta facendo e quali saranno le conseguenze. Ma questa conoscenza non gli serve a nulla “egli non riesce a vedere più in là della prossima mezz’ora”.

Quindi, si può sostenere legittimamente che la violenza terrorista e la disumana infrazione di una legge morale che questa comporta rappresenti una forma di disturbo mentale. Anche se dubito che “un qualsiasi giudice a Berlino” sarebbe disposto ad assegnare la seminfermità mentale ad un terrorista autore di strage. Si può altrettanto legittimamente affermare che atti di irragionevole violenza che infrangono le più fondamentali prescrizioni e disposizioni che regolano la quotidianità della vita civile non sono necessariamente un segno di anormalità.

Certo non si può dire neanche semplicemente che il terrorismo sia una reazione di certi individui alle avversità economiche e sociali come potrebbe essere un qualsiasi reato di furto. Dato che abbiamo scoperto tra le altre cose che in un gran numero di circostanze le cause del furto sono tutt’altre che le costrizioni economiche.

Se volessimo considerare il terrorista come persona affetta da un grave e pervasivo disturbo antisociale (quindi muovendo preventivamente da un’indagine psicologica) dovremmo poi procedere ad una diagnosi sociale o meglio del sociale, ma una tale diagnosi deve essere mutuata per forza da una diagnosi effettuata in base alla psicologia individuale, in linea di principio. Insomma, nel caso del terrorismo come nel caso di qualsiasi altra infrazione del codice morale, etico o “civile” la scoperta del movente-motivazione è importante per la disamina della situazione, ma il “movente” non può prescindere da un accurato esame psicologico individuale. Quindi, la “diagnosi sociale” non può prescindere dall’esame psicologico sul singolo, alla fine. E questo senza l’ombra di voler concedere a questi assassini la benché minima “attenuante”. In definitiva, ritornerebbe la vexata questio “dove finisce l’individuo e dove inizia la società e viceversa”.

A questo punto non so se sia davvero così importante decidere se il terrorista sia un delinquente o un malato o tutt’e due. O meglio sinceramente non lo so! È una cosa troppo grande per me!

Quello che so con discreta sicurezza è che le etichette sociali e/o psicologiche individuali esprimono in molti casi la disapprovazione, il pregiudizio, naturale e sacrosanto della collettività insieme alle sue esigenze di autoprotezione. Attribuire un’etichetta o una classificazione ci difende dall’angoscia dell’indefinito. La catalogazione ti conferisce la percezione del controllo di una data situazione e così facendo si esorcizza la paura. È questione di economia mentale: si ha bisogno di semplificare la realtà per poter sperare di agire su di essa in qualche modo.

Tuttavia, anche provare ad accostarsi ad un fatto emotivamente così straziante con presunta e “laica considerazione della realtà oggettiva”, può essere un’illusione dettata dall’esigenza di liberarsi dallo sgomento. Sperando che questo esercizio di retorica non finisca per apparire offensivo alla memoria delle vittime e alla sensibilità dei loro congiunti per l’aspetto provocatorio che di per sé tale “esercitazione” di pensiero può contenere.

Detto questo, Main, nell’articolo citato sopra, scrive che “le idee possono passare da una persona all’altra e cambiare residenza all’interno della mente, spostandosi dalle aree pensanti dell’Io alla moralità rigida dell’Ideale dell’Io e del Super-Io. Egli suggerisce che questa promozione gerarchica delle idee, dall’Io al Super-Io, operi sia a livello individuale sia a livello gruppale e intergenerazionale”.

I terroristi verosimilmente soffrono di un eccesso di Super-Io?
Non sto tentando di “comprendere” le cause, ma provo a fare delle ipotesi (scientifiche?) sulla condizione presumibile in cui può versare, e senza giustificarlo minimamente, un potenziale terrorista. Allora, costoro devono essere armati soprattutto di un Super-Io sadico e arcaico che si trasmette di generazione in generazione e che “utilizzano” massicciamente per eludere il pensiero, con i sentimenti e le angosce che lo caratterizzano. Un modo per “proteggere l’individuo ed il gruppo dalla sofferenza emotiva, dall’incertezza e dall’ansia di ripensare i propri problemi”. Un modo per deresponsabilizzarsi ed evitare in tal modo di dover trovare soluzioni proprie. Essi utilizzano senza capacità alcuna di critica conoscenze già esistenti. “Quelli che potevano essere strumenti mentali degni di interesse” come certi precetti coranici, si trasformano per bocca e mano di furbi interpreti in “semplici credenze o insiemi di regole che non possono essere messe in discussione da nessuno e che limitano il pensiero” soprattutto degli adepti medesimi. I tentativi di discutere questi “precetti-credenze” si trasformano in sentimenti di persecuzione e di offesa perché le idolatrate regole sono state messe in dubbio. Dai benemeriti strumenti flessibili di pensiero “scaturiscono invece procedure rigide e le idee diventano principi “etici”. Gli individui e le “organizzazioni” passano dal possedere un’idea, all’essere posseduti da essa”…“La tradizione si trasforma in utopia e la consuetudine in mania, e nonostante le capacità dei singoli, l’idea (ossessiva) finisce per avere la meglio sul travaglio personale”.

Allora, i capi, i guru, i santoni di sette e organizzazioni terroristiche sfruttano, presumibilmente, prima di tutto il bisogno degli individui di appartenere ad un gruppo.

Mi tornaqno utili per il mio discorso alcune citazioni classiche di Rupert Brown quando scrive che “una delle prime conseguenze del divenire membri di un gruppo è un cambiamento nel modo in cui vediamo noi stessi”….«L’inserimento in un gruppo esige da parte nostra una ridefinizione di ciò che siamo, la quale, a sua volta, può avere delle implicazioni per la nostra autostima. (…)». Questo tipo di organizzazione criminale non è un caso che preveda la permanenza nelle proprie strutture non soltanto per mere necessità di addestramento, ma soprattutto per il necessario adeguamento del soggetto alle regole ed agli scopi omicidi dell’organizzazione che lo ha reclutato o nella quale ha scelto di militare. A questo punto è essenziale per essere ammessi nel gruppo un processo di svalutazione della propria autostima. Per rinunciare alla mia autostima o per accettare di sacrificarla in nome del gruppo, per accogliere tale “Deminutio” è condizione necessaria riconoscere l’autorità “morale” incontrastata dei capi, rideterminando in tal modo la propria autostima, ma ad un livello decisamente inferiore alla stima degli stessi capi. In questo caso l’aderenza al gruppo criminale ne determina anche l’accettazione incondizionata delle caratteristiche. Quindi, chi aderisce alle organizzazioni terroristiche non capiterà mai che si estranei dalle definizioni proprie del suo gruppo di appartenenza. In sostanza, gli adepti di un “gruppo terroristico” non percepiscono in realtà alcuna forte riduzione della propria autostima: essi hanno rinunciato all’individualità, e il gruppo che li accoglie è sempre percepito come un gruppo di altissimo valore morale.

Immagino, che nell’atto del reclutamento ci sia l’obbligo di consegnarsi completamente e senza riserve. Dare fiducia cieca ai capi di turno! Questo è l’imperativo! L’obiettivo primario è quello di farti uscire dal campo di addestramento come una “nuova persona”, che si è “pentita” ed è pronta ad espiare rinnegando la precedente “immorale e riprovevole” e che da quel momento inizia ad identificarsi con “un altro se stesso” che probabilmente ignorava, ma che albergava latente dentro di lui/lei. Ma allora, se è vero che soffrono di un Super-Io sadico e arcaico l’unico vero “senso di colpa” che proveranno non è mai verso le (potenziali) vittime, non si tratterà della “colpa segnale” (quella intrisa di elementi personali o di senso di responsabilità individuali che favoriscono la socializzazione) ma di un “senso di colpa” più vicino ad un concetto di “responsabilità” legato unicamente alla sensazione di aver tradito le aspettative e gli ideali dei “maestri” quindi relativo soltanto ai comportamenti attinenti ai rapporti con l’organizzazione criminale in senso stretto.

Questa acquiescenza cieca ai capi e alle loro direttive segna la fase iniziale del processo di “scarnificazione” dell’individuo in quanto la persona subisce una vera e propria lacerazione interiore. In termini più sofisticati questa “disgregazione-scomposizione” della persona necessita di una regressione massiccia ad un “Ideale dell’Io” puerile e onnipotente (istanza più “arcaica” e gigantesca del Super-Io in quanto più diretta erede del narcisismo) che in questi termini si esprimerebbe: – fai questo (uccidi!); sii come il tuo leader (ideale e onnipotente); pensa come lui; senti come lui -. Tutto ciò ovviamente se partiamo dall’assunto che questi teorici del terrorismo fanno leva maggiormente sul senso di inferiorità dei seguaci più che su un loro senso di colpa vero e proprio. Dunque, i presupposti sui quali poggiano le organizzazioni terroristiche, ma le associazioni a delinquere in generale prevedono sostanzialmente lo “svuotamento dell’individuo dai contenuti del suo essere”. E dopo che ci si è “consegnati”, si è quindi ridimensionati moralmente al ruolo di peccatori, instillato in loro “un senso della colpa” che prevede soltanto punizioni e dolore per gli “errori” commessi, inizia il percorso che li porta a diventare bombe umane. Quindi il suicidio come mezzo estremo per espiare i propri peccati e l’omicidio come mezzo estremo di conversione e purificazione degli infedeli stessi, ma trasformati di fatto in capri espiatori nient’altro che ricettacoli di tutti il loro risentimenti ed esigenze di vendetta totalmente consci, questa volta.

Certo è una spiegazione che subito mi appare parziale e semplicistica. E comunque vuole essere soltanto un punto di vista. E sorvolo sulle condizioni storiche, economiche e politiche che hanno determinato eventualmente o comunque favorito l’insorgere di questo Super-Io pervasivo e sadico.

Tornando adesso al versante auspicato dal prof. Giusto: “non estraniarsi” non può, secondo me, non equivalere ad una contemporanea “assunzione di responsabilità/colpa”. Ma in che modo “vogliamo” (possiamo) essere (sentirci) “responsabili/colpevoli” della strage di Bruxelles?
In linea di principio gli eventi per cui mi assumo una responsabilità possono essere da me causati intenzionalmente o anche inintenzionalmente. Allora, come posso essere stato “determinante” nella realizzazione del fatto in questione, mi chiedo? Posso dire di essere stato inintenzionalmente determinante con un qualche mio comportamento o idea, ma da ciò dovrebbe discendere che ci sia, più o meno coscientemente, la consapevolezza che ci sia anche la capacità di evitarlo, quindi. E ciò dovrebbe in parte sollevarmi da eventuali sensi di colpa distruttivi. Al contempo però il senso di colpa potrebbe essere determinato proprio dalla consapevolezza che si possa evitare il male, se tale splendida coscienza non è poi seguita da azioni idonee (dunque, possibili, fattibili) a raggiungere lo scopo. In questo caso la “non-azione”, l’inerzia possono essere dettate dal timore di perdere una qualche posizione di privilegio. E allora l’indifferenza diviene una forma di distrazione da un’immagine di sé intrinsecamente “cattiva”. Potrei dire di sentire un “senso di colpa” indefinito “er un evento di cui non dovrei avere responsabilità oggettive, o dirette, quantomeno non di natura intenzionale, ma che ha causato indirettamente un danno a qualcuno”. Quindi, pur avendo agito inconsapevolmente e non esplicitamente nella determinazione del risultato, mi sento comunque responsabile (colpevole?) per quello che è accaduto. E poi come posso effettivamente affermare che il mio agire è collegato indirettamente in qualche modo con il danno subito dall’altro soprattutto quando questo vive a migliaia di km distante da me? In che modo la mia volontà o inerzia possono avere influito nel determinare il nocumento?

Sostanzialmente, qui si tratterebbe di essere responsabile di “invalidazione di scopo” dell’altro. Lo scopo del diritto a vivere, se non altro.
Allora il punto fondamentale è secondo me “Come Sentirsi responsabili in modo efficace e concreto e senza cedere alle tentazioni del “no-globalismo” o “altermondialismo” e senza scadere in forme di culto sincretiche e universalistiche sterili e astratte sinonimo di vocazioni al martirio poco pratiche, se non altro.
Forse il compromesso che ci difende da un’angoscia senza fine di fronte a certa violenza è l’idea di disgiungere la responsabilità dalla colpa in modo che non ci sia tra loro rapporto diretto: nel senso che mi posso sentire responsabile di qualcosa, pur senza necessariamente crearmene un senso di colpa devastante. Così la coscienza è quietata! L’orrore diventa sopportabile. La razionalizzazione è compiuta con successo.

E se fossi “colpevole” proprio di “Razionalizzazione recidiva”, in definitiva? Il “razionalizzatore seriale”! Quali danni può apportare alla società nel suo complesso, dunque?

Quando parlo di “Razionalizzazione” mi riferisco ovviamente ad uno dei meccanismi di difesa di freudiana memoria, ma non voglio fissarmi in questa sede semplicemente sugli aspetti di controllo dell’economia mentale, anche perché successivamente abbiamo imparato che i meccanismi mentali non si risolvono soltanto in reazioni di difesa interne perché l’Io deve affrontare pericoli anche dall’esterno oltre che dall’interno. Tuttavia, l’argomento mi torna utile per chiarire meglio certo pensiero.

Comunque “colpevole o responsabile di Razionalizzazione” merita una spiegazione se non altro per chiarire gli eventuali collegamenti con i temi della colpa e della responsabilità innestati in una cultura che difetterebbe di un “Super-Io sociale”, per così dire.

Da qui si può ipotizzare con le dovute cautele che ad una eventuale “ipertrofia di Super-Io” nei seguaci del gruppo di appartenenti ad organizzazioni terroristiche sarebbe corrisposta una presunta “atrofia di Super-Io” nella “società” nel suo complesso o almeno in quella parte più precisamente che detiene la strapotenza economica e finanziaria di questo pianeta e per ciò stesso maggiore “responsabilità”, quindi.

Non è troppo bislacco definire alla fin fine l’atrofia o il deficit di Super-Io come una forma di “disturbo anti-sociale” se ammettiamo che certe − “istituzioni mentali” (individuali) vengono sviluppate proprio allo scopo specifico di “governare” i legami sociali dell’individuo −.

Intanto, mi giova ricordare che la mente agisce come un tutto, come un insieme complesso proprio come complessa è la realtà; quindi, dobbiamo ammettere, se non altro in linea di principio, che la Razionalizzazione agisce per forza contemporaneamente e collettivamente con altri meccanismi di difesa. In sostanza, la Razionalizzazione dimostrerebbe, come qualsiasi altro “meccanismo di difesa”, che “le operazioni di qualsiasi processo mentale dipendono dalla contemporanea azione di altri processi mentali” (il virgolettato sta a significare che – qui lo dico e qui lo nego −).

Allora è possibile che a questo ipotizzato “deficit di Super-Io collettivo” (leggi anche come menefreghismo, indifferenza), che contraddistinguerebbe “Noi-Altri” siano corrisposte insieme alla citata Razionalizzazione, un’alterazione di funzione della “Rimozione”, dello “Spostamento”, della “Formazione reattiva”, del Capovolgimento, della Compartimentalizzazione, della Moralizzazione, dell’Isolamento dell’affetto e dell’Identificazione. Insomma, al decremento di funzione del Super-Io sarebbe corrisposta un’alterazione di tutti quei meccanismi che a loro volta hanno finito per alimentare quello che una volta veniva considerato un meccanismo mentale più periferico vale a dire la “Dissociazione”.

Insomma, assistiamo al tripudio di tutti quei meccanismi mentali che fondamentalmente permettono di tenere insieme tutto e il contrario di tutto, di salvare capra e cavoli e senza il minimo scrupolo, senza alcun senso di colpa o sforzo minimo da parte dell’Io; la pace dei sensi in tutti i sensi, l’ “integrazione” dell’Io senza dolore alcuno almeno apparentemente. Si tratta del prevalere di una strana commistione di meccanismi e/o della loro trasformazione, in un certo senso, in quanto permettono da un lato di non escludere i conflitti e gli eventi stressanti dalla consapevolezza, non c’è espressione sintomatica evidente, rilevante, alla fine, necessariamente; l’affetto o impulso originario e il suo oggetto non necessitano di essere cambiati o alterati o spostati; sentimenti, idee, desideri non rappresentano più necessariamente una minaccia per l’equilibrio psichico; al contrario, questi meccanismi consentono una gratificazione soddisfacente nella consapevolezza dei sentimenti, idee, desideri, e delle loro conseguenze. E come se l’organizzazione sociale ed economica della moderna società capitalistico-occidentale (prendo quella occidentale come modello tradizionale ma si sa che anche le società “orientali” si stanno sempre più orientando verso il modello “capitalistico”) avesse condotto alla trasformazione sempre più marcata dei “meccanismi mentali o di difesa” in “stili di coping”. Considero le strategie di coping nell’accezione di risposta positiva o negativa, efficace o inefficace, alle esperienze di stress, che nascono dagli ostacoli al raggiungimento degli obiettivi desiderati (obiettivi non necessariamente sublimi o elevati).

In tal modo si raggiunge un equilibrio seppure precario, ma che ti conferisce il compenso sufficiente per poter continuare a funzionare “normalmente” come richiesto dalla società. E la società ti aiuta a funzionare offrendoti una gran quantità di rappresentazioni potenzialmente “dissociative”. Da una parte la “società” tende sempre più a non suscitare nell’individuo un “piacere sublimato”, non offre immagini-idee in numero illimitato, non gli consente la valutazione di molti punti di vista diversi, in tal modo lo rende meno libero in definitiva; ma, al contrario, suggerisce in modo “perverso” alle persone delle immagini del reale dello stesso tipo (propugna l’omologazione piatta delle idee, dei gusti, dei comportamenti, delle mode, non la ricchezza della diversificazione). Un andazzo emblematico di questo tipo lo si può cogliere nel dilagare illimitato della “proposta pornografica” o nella mondializzazione stile “Mcdonalds”. La pornografia non lascia spazio alla fantasia, alla creatività, è soltanto l’espressione statica e abbastanza ossessiva, sempre uguale a se stessa della nuda e cruda carne, anzi di pezzi di nuda e cruda carne. In sostanza, la tendenza è quella di non suscitare nell’altro rappresentazioni più libere e diverse. Quindi, niente sublimazione eventualmente che allarga e arricchisce l’Io, ma “perversione” tout court se per perversione intendiamo tutto ciò che restringe i processi mentali invece di amplificarli.

In tal senso persino l’idea del tasso di disoccupazione al 4% diventa un’idea globalizzata buona per tutti i gusti e tanto rassicurante perché contiene in sé tutto il vantaggio delle cose accettabili e indiscutibili contro cui non devi neanche prenderti il disturbo di ribellarti.

In definitiva, si afferma sempre più una sorta di monodeismo plastico che consiste sostanzialmente in un’induzione a focalizzare l’attenzione su una sola idea ricca di contenuto emozionale, ma priva di forza ideoplastica cioè che manca di suscitare la componente creativa nell’organismo, ma che induce comunque modificazioni psichiche e comportamentali soprattutto nelle persone più facilmente suggestionabili o tendenti alla dipendenza.

Tuttavia, uno degli assunti, per così dire, di questo scritto è che la “società” difetta di Super-Io perché non esiste più “conflitto” (non completamente, almeno) cioè i fini istintuali non provocano conflitto perché rimangono pur sempre compatibili tendenzialmente con le richieste o i dettami della società nel suo complesso.

Mi verrebbe da dire a questo punto che non essendoci un “conflitto” non sarebbe nemmeno necessario l’intervento di “meccanismi mentali” che distribuiscano, aboliscano, riducano o scompongano in quantità più piccole o inibiscano la scarica di questa catexi in qualsiasi punto tra l’eccitazione, per così dire, e la motilità-comportamento.

Quindi, in realtà non ci sarebbe nemmeno ragione che intervenga la Rimozione se con questa intendiamo un meccanismo indotto in linea di principio da una forma di giudizio di condanna; tuttavia, qui assumiamo che non c’è più “sanzione”, né disapprovazione se ti è concesso comunque di soddisfare i tuoi istinti primari (e nell’assoluto anonimato) potendo sfuggire al contempo al biasimo di una società che da un lato stigmatizza pubblicamente certi lati oscuri, ma dall’altro ha in sé, e te li mette a disposizione, pubblicamente, con facilità, dei dispositivi che ti consentono privatamente di dar sfogo alla tua ombra e senza eccessivi patemi d’animo e sfuggendo alla vergogna della riprovazione generale per di più. Consentendo in tal modo pur sempre non una fuga dall’ombra, non la sua “integrazione”, ma una sua “interpolazione”, ovvero “una coesistenza giustappositiva” nella personalità. Si attua in tal modo quella che potremmo definire una sorta di “scissione comunicante” la cui funzione è sostanzialmente permettere a due condizioni in conflitto di esistere senza creare confusione, sensi di colpa, vergogna o ansia sul piano cosciente. Insomma, si attua la “costanza” dell’oggetto pur in presenza di un atteggiamento di ambivalenza nei suoi confronti. Un esempio emblematico è il meccanismo della compartimentalizzazione difesa intellettuale più strettamente legata ai processi dissociativi e sostenuta da meccanismi rivolti ai medesimi scopi come razionalizzazione e moralizzazione.

Paradossalmente persino la sublimazione non sarebbe più necessaria in un simile contesto perché non ci sono più energie frustrate cui dare sfogo. Rimane valido invece il concetto della Rimozione che fa riferimento, più in generale, al ritiro di interesse dagli oggetti esterni. La rimozione “moderna”, e l’aggettivo non contiene ombra alcuna di ironia da parte mia, implica ancora ovviamente un ritiro di interesse dal mondo esterno, ma non tanto “involontario”. In alcuni casi si osserva un bisogno consapevole di cadere addormentati. Non c’è da “rimuovere ”rappresentazioni di pulsioni proibite grazie ad un gioco di disinvestimenti delle rappresentazioni angoscianti, quindi non serve nemmeno il controinvestimento cioè il reinvestimento dell’energia pulsionale disponibile in altre rappresentazioni “autorizzate” (l’oggetto controfobico).

Quindi, esseri umani non più in balia degli impulsi ingovernabili dell’Es, schiacciati da un Super-io arcaico e sadico, mal protetti da un Io debole incapace di dominare le eccitazioni alle quali è soggetto, ma individui accerchiati dalle ingiurie dell’esistenza e che tentano di dominare le sfide e i mali della vita attraverso l’uso più o meno discutibile degli strumenti psicologici, materiali e sociali a disposizione.

Oggi non c’è l’individuo che si strugge nelle sue contraddizioni che “anela al mare, eppure lo teme”, ma l’individuo perfettamente integrato che vive consapevolmente le proprie contraddizioni e senza “senso di colpa” alcuno. La società ti permette una buona integrazione delle tue contraddizioni e non le giudica e non le disapprova anzi le alimenta sapientemente e senza farti sentire un derelitto.

Mi viene da pensare che in una società che ti offre tutto e il contrario di tutto e senza gravarti di condanne particolari, oltretutto, persino sognare durante il nostro sonno notturno diventa superfluo e persino lapsus e atti mancati sono inutili.
Mi chiedo a cosa possa servire, in definitiva, quella valvola di sfogo che fu il “ritorno del rimosso” se non ci sono più conflitti da rimuovere, ma soltanto desideri inappagati da “reprimere”?

In tale contesto il potenziale inibitorio non è più all’interno dell’individuo, ma è trasferito all’esterno delegato alla società medesima che decide alla fine cosa va inibito quando e come e in che misura. Il che se da un lato deresponsabilizza l’individuo dall’altro gli conferisce più che un equilibrio, una staticità sufficiente a consentirgli di non mostrare formazioni sintomatiche eclatanti (i sintomi sono meno clamorosi più intimizzati spesso accompagnati da un tono dell’umore in senso depressivo o ipomaniacale) e al sistema di perpetuarsi senza troppe scosse, quindi.
L’io in altre parole rimane il più vicino alla realtà grazie alla presenza sempre più massiccia di -istinti sempre meno conflittuali- quindi sempre meno la sua attenzione è rivolta alla gestione di impulsi inconsci. In questa visione soltanto l’Es non sembra dare eccessivi problemi in quanto appare non tanto dispotico perché comunque abbastanza soddisfatto, alla fin fine. E questo “Super-Io sociale” (il suo avvento) non si rivela eccessivamente tirannico. In sostanza, il sistema stesso che eventualmente ti causa sofferenza, ti offre al contempo una scappatoia, un rimedio a patto però che tu non metta in discussione il sistema medesimo. È il sistema stesso l’antidoto al sistema. Il sistema autopoietico che si autoperpetua, alla fine! Questo è lo scopo primario.

Ammetto che siamo caduti dalla padella alla brace se da un concetto di determinismo psichico siamo passati a quello che è nient’altro che una forma di determinismo o meccanicismo sociale o ambientale.

Ma quale potrebbe essere la mia “colpa/responsabilità, allora? Quella di non aver fatto sufficiente pressione sui miei governanti perché decidessero maggiori e più efficaci misure di sicurezza? O quella di aver contribuito alla realtà di un mondo ingiusto e insicuro? E in che modo? Quello in cui flussi migratori ormai incontenibili di lavoratori cercano in altri paesi una collocazione ai limiti della sussistenza accontentandosi di un misero salario pur di sopravvivere? Reo di non aver contestato abbastanza le aberrazioni economiche, sociali e culturali della globalizzazione? E poco conta se mi rifiuto di acquistare oggetti e indumenti frutto dello sfruttamento disumano spesso di uomini donne e bambini o comunque provenienti da paesi che non danno certezze sufficienti sul rispetto dei più elementari diritti umani (Razionalizzazione?). Poco male! Io posso permettermi di spendere qualche euro in più per quietare la mia coscienza. Ma quanti anche nelle regioni del benessere sono nelle condizioni socioeconomiche tali da potersi permettere tanti scrupoli di coscienza? Responsabile/colpevole della perdita di identità di milioni di persone costrette dalla miseria allo sradicamento per soggiacere a modelli di consumo uniformi che si trasformano in schemi di pensiero fissi e in valori assoluti che si finisce persino per agognare compulsivamente, in definitiva? E cosa centra tutto questo con le stragi terroristiche?

A meno che non pensiamo magicamente che le stragi terroristiche altro non siano che una punizione divina (a cui tutti “Noi-Altri” prima o poi potrebbe capitare di soggiacere) per i nostri peccati ovvero per quelle azioni citate sopra, la spiegazione non può bastare, fatalmente. Sebbene, l’ideologia o la falsa coscienza intrise di “passato, e di mal interpretati miti della razza e del popolo ” sopravvivano nelle pieghe di un Super-Io che “non necessariamente dipende dalle condizioni economiche” e/o sociali. Con questo si vuole esprimere la convinzione che non ci si può appellare semplicemente alle sperequazioni sociali per giustificare certe efferatezze, ma nemmeno può esserci un dio in nome del quale si possono commettere nefandezze inaudite. «L’uomo in tal senso non necessita né dell’autorizzazione, né dell’aiuto divino per scegliere tra il bene e il male, quindi può salvarsi o dannarsi con le sole proprie forze e persino mantenersi immune da ogni peccato».

Forse se devo pensare ad una responsabilità/colpa personale (diretta? Indiretta?) per i fatti di Bruxelles è quella di non avere con i miei comportamenti quotidiani riaffermato un “principio di equità”. Forse è colpevole la rassegnazione all’idea stessa che in questo pianeta ci sia qualcuno che giornalmente muore di fame, di guerra, di malattia o di terrorismo. Non è possibile ancora considerare queste brutture dei semplici effetti collaterali inevitabili del nostro sistema di vita o di produzione. Non è giusto, non è equo! Obiettivamente viviamo a contatto con una realtà che non soddisfa il nostro innato (quindi biologicamente determinato) “senso di equità”? Se è vero che i terroristi “soffrono di un eccesso di Super-io”, allora mi appare sempre più verosimile che noi individui “Altri” soffriamo di un difetto di Super-Io. Altresì, potremmo aggiungere su questa scia che i terroristi da una parte provano il senso di colpa persecutorio di chi si sente minacciato a morte e reagisce con processi di scissione e proiezione che rendono per un verso inclini alla resa e alla sottomissione (o alla ribellione) e per l’altro possono condurre alla follia, al suicidio e all’omicidio (di massa); e dall’altra parte ci siamo “Noi-Altri” che sentiamo il senso di colpa depressivo di chi prova per le sofferenze altrui un forte rimorso che però non è equiparabile tout court ad un sano senso di colpa quello che ci fa sentire responsabili per la sofferenza di qualcuno mettendoci al centro del mondo di quella persona e riconoscendo in tal modo il potere di danneggiare o aggiustare la sua vita. La colpa depressiva ha il brutto difetto di “apparire in taluni casi come una meteora e subito scompare”, quando al contrario quello che servirebbe è eventualmente un’assunzione di responsabilità più duratura che non si limiti al rimorso ipocrita e fuggevole e che al contempo non sfoci nella “follia del sentirsi responsabili dell’universo-mondo”.

Se il nostro delitto cioè se il delitto di “Noi-Altri” è il “menefreghismo”, allora il senso di colpa precede il delitto. Il senso di colpa non deriva dall’aver commesso il “crimine dell’indifferenza”, ma lo precede si potrebbe dire parafrasando Freud. L’indifferenza è il risultato dell’insopportabilità di un senso di colpa scaturito dalla nostra incapacità di far fronte al disequilibrio, alla disuguaglianza oggettivi che contrastano vergognosamente con il nostro naturale senso di equità, verosimilmente. Quindi il “peccato del disinteresse” è la conseguenza del senso di colpa, il meccanismo di difesa dalla “colpa” di chi ha deciso di sopravvivere all’atrocità (inevitabile?) delle stragi terroristiche nella convinzione che nulla si possa fare per fermarle. Viviamo questo senso di iniquità ma “non sappiamo” come porvi riparo, apparentemente schiacciati dalle logiche di sistema o semplicemente perché ci fa comodo pensarlo. Perché le cose accadono! Il male esiste! E non puoi farci proprio un bel niente!?

Forse la nostra prima “responsabilità”, il nostro primo dovere sono proprio quelli di sfuggire ad una forma di fatalismo esiziale: quello che vuole che non sia possibile “comprendere” la vita, che ci illude che non si possa operare su di essa, ma che pretende di convincerci che “bisogna accettarla con la semplicità d’un fanciullo”: − Non risiede nella regressione la cura −, non questa volta, almeno. Dall’estraniazione che fa rima fatalmente con acquiescenza e remissività non dobbiamo trarne alcun sollievo e consolazione. L’essere parassitati strumentalmente dal male! Non può essere questa la risposta all’orrore. Se volessimo trasporre la metafora biologica al funzionamento dell’individuo nella società umana, potremmo parlare pur sempre di una sorta di “parassitismo mutualistico” nel senso che l’individuo questa volta trae sì un vantaggio dalla “società-ospite”, ma non a spese dell’ospite, non gli crea alcun danno, anzi promuove “entusiasticamente” il suo sviluppo. Nessuno è immune dal “parassitismo”, anzi si potrebbe dire che quest’ultimo è diventato la “forma associativa” degli esseri umani tra loro per antonomasia o che rischia di diventarlo ad ogni istante. E i rapporti tra gli umani si riducono ad un mero rapporto di competizione/opposizione “interspecifica” fra parassiti-umani di stirpi diverse che perseguono interessi personali (tribalismo), ma che al contempo sono associati dal medesimo scopo di promuovere la sopravvivenza della medesima “società-ospite”. “Pur censurato come anti-comunitario, questo atteggiamento viene poi mantenuto come se nessuno potesse cambiarlo”. Costituisce mera consolazione, forse, pensare che questo genere di parassitismo possa costituire una sorta di specializzazione necessaria che porta ad una evoluzione secondaria dell’individuo rispetto alla società ospite, cioè che l’evoluzione dell’individuo deve necessariamente passare per questa forma di perversa simbiosi con una “società degli individui” dai discutibili parametri e valori etici (ricadendo però in tal modo in una forma di “fatalismo evoluzionista”, per così dire). Per la serie “l’individuo è migliore della società!”. Ma a ben vedere non sono così sicuro paradossalmente che a questa eventuale “evoluzione secondaria” del singolo corrisponda un’automatica evoluzione della “società” che lo ospita, nel suo complesso.

Secondo me, in buona sostanza siamo “vittime” di “un approccio duale alla vita”. Tendenzialmente, “il centro della comprensione dell’esperienza emotiva è cercato all’interno dello spazio tra la coppia… Fatalmente tutto ciò che esula dalla coppia finisce per condurre all’intolleranza della diversità (…). “Vale a dire che “l’assunto di base” è che la società viene compresa, nella mente dei suoi membri, come un insieme di relazioni e affiliazioni basate sulla coppia” che bene che vada sfocia nell’ “allargamento familista” dei propri orizzonti. “Le persone perseguono fondamentalmente un risultato individuale. Ciò è realistico, ma distoglie la loro attenzione dal gruppo”. Insomma, questa trasformazione del sistema socio-tecnico come conseguenza di un individualismo sconveniente non avviene da sola. La partecipazione al “gruppo” suscita una grande ambivalenza: nel migliore dei casi possiamo avere come detto sopra il “parassitismo fatalista” o la “simbiosi mutualistica” che protegge un sistema controverso, irrisolto, criticabile nelle sue fondamenta e sotto molti punti di vista; nel peggiore “suscita risentimento per le costrizioni della vita imposte dall’organizzazione del gruppo: il gruppo viene visto più facilmente come intrusivo e diviene l’oggetto di attacchi con maggiore facilità”. Ma gli attacchi non sono rivolti all’abbattimento del sistema, alla sua messa in discussione. Si tratta di “un’offensiva predatoria” rivolta primariamente all’accaparramento famelico di tutti i privilegi promessi dal sistema stesso. L’utilizzo di certe droghe sembra emblematico di certi assunti: l’eroina come strumento di fuga dal sistema e la cocaina come tentativo di integrazione massima al sistema. E allora, attacco o fuga, separazione o dipendenza, rabbia o rassegnazione. Non c’è scampo! La logica dicotomica del “senso di colpa” che ci accomuna e ci divide fa di nuovo capolino!

Anche quanto scritto qui può essere considerato il tentativo di reagire ad un mio personalissimo “senso di colpa”. Perché quando non si riesce a comprendere come agire esattamente per affrontare una situazione è verosimile che il “senso di responsabilità” lasci fatalmente il posto ad un senso di colpa vago, ma pur sempre consolatorio , tutto sommato. E ovviamente, non mi sento ancora “assolto” dopo tutto!

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