Storia di vita quotidiana
La C.T. “Redancia 1” si trasferirà definitivamente ma noi ne siamo certi lascerà un segno profondo nella società sassellese. Il lungo tempo di permanenza ha plasmato e forgiato, insieme alle Persone fuori della “Casa”, un intreccio di sentimenti ed emozioni molto forte, un suggello che ha trasformato il Luogo che ci circondava in un Operatore in più. Avevamo la spontanea collaborazione di Persone (tra le quali ricordo i Carabinieri, il Maresciallo, la “Davidina” del bar di Palo, la locanda “Carolina”, gli autisti degli autobus, ecc.) che abituatesi alla diversità, al disagio psichico avevano calibrato una relazione poi divenuta una vera e propria attitudine Culturale dagli effetti virtuosi. È questa la perdita più grande per il nostro Gruppo.
Però non ce ne andiamo a mani vuote lasciamo qualcosa del nostro “esserci stati” perché sebbene la nostra presenza sia sempre un po’ estraniante, in quanto l’insieme delle attività e del lavoro su cui si articola una C.T. è in gran parte inafferrabile e imponderabile, è anche vero, però, che la frequentazione di questo “oggetto” misterioso genera inevitabilmente una riflessione vera, intensa, molto profonda e concreta, sicuramente non scolastica, i cui effetti, i cui fermenti si evidenziano nell’incontro inaspettato con una forma mentis veramente inedita, nuova, una Cultura di vita di cui se ne giovano tutti. Le C.T. emanano, diffondono intorno una cultura che è molto potente.
Alcuni abitanti di Sassello lavorando in C.T. con impegno e capacità hanno contribuito a questo particolare clima Culturale. La loro forza innovativa e terapeutica non si esaurisce all’interno della “Casa”, (tra gli esperti del settore che si nutrono di questi stili di relazione che poi faranno l’eredità , il bagaglio culturale, dei giovani terapeuti), ma lo hanno portato, lo portano e lo porteranno anche al di là delle mura come una linfa vitale: sono Loro l’eredità Culturale che lasciamo al Paese, perché sono Persone ricche di un valore umano enorme, che hanno fatto onore a Sassello e che continueranno a diffondere questo sapere.
Le cose cambiano? Certo, nessuno è indispensabile. Quando mi hanno fatto leggere e firmare insieme ai miei colleghi la lettera che accompagnava il regalo di commiato a Pierangela alla frase “…sei stata come la nostra Mamma…” sono rimasto un po’ perplesso ed ho subito ironizzato sulla differenza d’età che c’è tra me e Lei: è poca, ma il motteggio ha lasciato poco dopo lo spazio ad un sentimento di amarezza perché essendo questo incontro, questa cena sostanzialmente l’ultimo atto ufficiale della sua carriera mi sorgeva la sensazione fastidiosa che l’uso di espressioni così rutilanti, sgargianti, stracariche di affetto assorbissero il tutto della figura di Pierangela mettendo in sordina il fatto che è stata una Professionista, un tecnico di pregio.
Anni di lavoro mi sembrava precipitassero dietro quei discorsi, che sono una via di mezzo tra il panegirico e l’encomio, in cui si ingigantiscono particolari momenti del passato che aspirano a erigersi a simboli che la stigmatizzeranno nella sua particolarità e nello stesso tempo categorizzeranno anche la sua funzione… indispensabile… (ma ben si intende anche )… che fu indispensabile, che fu molto utile, che fu fruttuosa, …ricordo, si giura, che si conserverà per tutta la vita.
Il “dire” delle feste di commiato è fatto di parole che nascondono sensazione della perdita e contemporaneamente la necessità di porre un sigillo sulla porta del passato sicché tutto dovrebbe finire lì, ognuno si porterà tra sé e sé quello che ha incontrato e nulla cambierà.
È questa un’Analisi che è frutto della mia modalità di vedere certi eventi, di sentire la Storia, le Storie di vita, che mi sembrano mortificati se conchiusi in poche parole, come se mancasse qualcosa di cruciale che renda il senso ad una collaborazione così prolungata nel tempo, come se il “segno” profondo, il concreto del suo passaggio fosse sfumato tra le righe, da doversi intendere nell’euforia della festosità… Ma nemmeno si può pretendere di trovare l’essenza ultima e di generalizzarla per il gruppo, si può però dare la propria testimonianza agli altri, indicando dove Lei si trovi e rimane, quale funzione attivi nell’esperienza culturale in questo caso della Mia. Questo si può fare. Questo è il mio regalo. Lo scritto che segue è questo impegno in onore di Pierangela.
Siccome nella lettera si citava una parola molto impegnativa: Mamma, immancabilmente mi è venuta subito alla mente mia madre, che aveva certo l’amore materno e tutto il corredo affettivo necessario ed opportuno di cui poter godere senza limiti ma c’era anche qualcosa di enigmatico in Lei. Mi ricordo che talvolta quando cercavo di fare il furbo confidando nella complicità che l’amore crea, lei come una indovina, senza troppi giri di parole diretta e precisa, mi rispondeva: “per chi mi hai preso…. smettila di raccontar frottole e va subito a studiare, altrimenti non esci per una settimana…” analoga sensazione paragonabile ad un effetto di verità, come se un occhio silente ed attento andasse oltre l’apparenza, la provavo, quando inaspettatamente credeva alle mie scuse e il suo sorriso bonario, non di condiscendenza, era ancor più esplicito, mi lasciava un po’ tra me e me a riflettere sulla sorpresa di sentirsi soli di colpo per l’inganno inventato nel proprio luogo, un primo esercizio di autonomia dove nemmeno l’Altro materno può garantire. Era sufficiente, questo silenzio bonario, per farmi render conto che si è responsabili di quello che si dice e delle conseguenze, una vera lezione di autonomia incarnata, viva, vera. Ecco per questi ricordi sgorgati in sequenza libera posso annodare l’immagine di Pierangela alla parola Mamma perché fa brillare questi sentimenti che sono il fondamento della maturità emozionale e della consapevolezza dei limiti. Di fatto devo riconoscere che Pierangela non ha mai tradito i sentimenti della chiarezza, della sincerità e della comprensione emozionale messi in atto come barriere, muri netti e forti posti sul ciglio dell’estraneità, della domanda interrogativa, della responsabilità senza rete, e il loro esercizio rendevano autorevole il suo dire, ovvero si capiva molto bene che quando parlava diceva quello che realmente la coinvolgeva, se aveva fatto una cosa l’aveva fatta, se lei non era responsabile diceva che non lo era, se aveva dubbi lo diceva ed erano dubbi veri.
Nel suo parlare si sentiva che non vi era nulla di artefatto, che non puntava ad una verità formale ma che aveva come riferimento il vissuto contingente, l’equilibrio emozionale. Con questa tensione dialettica assumeva una funzione e una posizione molto difficile da occupare e sostenere se non si sa qualcosa dell’umiltà cioè del valore e della riconoscenza nell’Altro.
Essere diretti e schietti senza farne un’arma fallica, significa avere una grande esperienza di vita, sapere che il Reale è come il freddo, così come lo enuncia un modo di dire di Sassello: “Il freddo non se lo mangia nemmeno il topo” per cui te lo devi sopportare, ti devi industriare per “lavorarlo” e non è colpa di nessuno l’impegno che occorre mettere in gioco ed il fastidio iniziale è per tutti così. È l’aspetto tragico del sapere, ma punto di appoggio della libertà soggettiva, è l’unica chance che si ha e bisogna saperla mettere in atto perché sia appresa.
La festa organizzata con una cena, i molti invitati, i regali, gli scherzi ed il motteggio necessari e naturali sono una perfetta insenatura dove i ricordi possono arrivare liberamente come l’acqua di un ruscello che scroscia sempre rinnovata cosicché i racconti delle vicissitudini passate abbellendosi dell’ebbrezza esuberante del presente strappano una risata in più, gli eventi prendono sempre strade inaspettate ma Lei è una gran donna e sa cosa si deve fare in queste occasioni e risponde sempre con una battuta opportuna a sottolineare bene la sua presenza attenta, lungimirante, piena di destrezza, penetrante e assennata portando con sé il segno che le “cose” non sono mai quello che ci si aspetta ovvero… il paziente non è mai quello che ci sembra essere.
Lei nelle riunioni di équipe del Mercoledì ha sempre portato inconsapevolmente nella sua dialettica la categoria del malinteso con una modalità che la avvicinava, si diceva scherzosamente, ah Cassandra, non tanto perché preconizzasse una verità che non si sarebbe creduta, ma ad indicare puntualmente una verità nascosta. Faceva intendere che nella Relazione umana c’è sempre qualcosa dello “Scarto” e del “Resto” che essendo inconoscibile e indicibile perché possa avere la dignità del “segno”, senza rimanere un romantico appello vuoto, occorre dargli parola negli eventi che accadono, assumendosi la responsabilità Soggettiva di evidenziarne la presenza fugace inquadrandolo in un Atto chiaro e ben definito. In questo modo gli effetti del coraggio di prender parola mostrandosi per quel che si è, per l’equilibrio che si ha al momento nella relazione con il paziente, veniva sempre considerato, après coup, con il rispetto che si deve a chi non si vergogna della mancanza (presente anche nella esperienza più ricca) come chiara consapevolezza dei propri limiti. Umiltà che non è un atto di sottomissione né la sfrontata sottolineatura del contrario ma la richiesta perentoria e netta di egual chiarezza e la pretesa della sincerità, solo così l’attenzione a se stessi è sempre presente. Con questo stato d’animo ci fa intendere Pierangela con una sagacia impareggiabile:
“Non trascurare mai dove cade quel resto”.
…perché rimane sempre anche dopo questa cena.
Non posso rispondere anche per gli altri alla domanda indiretta che mi rivolge con la sua presenza, ma posso dire che nel ricordare la sua immagine si associa ai sentimenti della Chiarezza e della Sincerità e nel riconoscerli riflessi mi sento incoraggiato e più forte perché li ho sbandierati come tratti del quadro di riferimento su cui mi sono sempre poggiato il che significa mettere in primo piano la presenza del Reale nella clinica, ovvero usare la divisone strutturale come Attenzione, lasciar spazio a quella tensione del “sospetto intuitivo”, o stress positivo, prendendo parola, assumendosi la responsabilità di far chiarezza nei progetti, e nell’esposizione dei casi, abbandonando le formule del “…procediamo, vedremo…” o del tentennamento misurato e scandito dal timore narcisistico.
Ecco questa serie di parole che si sono messe una dopo l’altra sono legate al nome di Pierangela quando la penso, ed anche se Lei per modestia sicuramente sorriderà, non posso farci nulla questo è il posto che occupa nei miei pensieri è incastonata come un brillante, nell’orologio della mia esperienza, in quella coroncina sul bordo insieme ad altre persone vere che compongono il puzzle di quegli sguardi e di quelle voci di riferimento, lì dove si origina una luce particolare che ha il pudore di non dare mai consigli, al massimo indica genericamente una direzione ma è lì ferma e inamovibile.
In piedi sulla seggiola, fingendosi una modella, per divertirsi con noi Lei ci presentifica che il tempo è arrivato, lei si porterà via quello che le appartiene e con questo farà i suoi conti. È anche naturale che prima o poi ci si lasci portare dal proprio tempo e cullare dai propri ricordi, dal calore verso la madre, ma si lascia negli altri anche quello che non si pensava di avere.
Ciò che è accaduto in questa festa non può più essere annullato dai motteggi, dai discorsi enfatici, né dalla goliardia, né dalla sua infantilità giocosa che fà della seggiola un podio, anzi rendono l’incontro ancor più vero nello sguardo attento, al di là del quale chiede con forza e senza fronzoli dove è Lei, quale posto occupa, quale segno ha lasciato e come chiunque svolga un lavoro fatto di “parole” esige una risposta Tecnica alla domanda:
“Oltre l’affetto cosa è rimasto, di me, di “concreto?”.
Ebbene per mio conto le dico che rimane eccentrica rispetto all’immagine, ha un qualcosa in più e contribuisce ad illuminare i parametri basilari della clinica: Chiarezza, Schiettezza, Attenzione, Sincerità, segni inequivocabili della presenza di un “eccesso” di cui l’umiltà ne raccoglie il segnale passando attraverso la mancanza dell’Altro.
Ora, dopo aver cercato e trovato una risposta alla domanda rivoltami da Pierangela sul segno scientifico, cioè sul fatto che lascia una testimonianza del “Resto” nella relazione e sullo stile per metterlo in atto operativamente, mi sento più felice.