Commento alla notizia del 3 luglio 2015
Appiah elenca una serie di usanze un tempo riconosciute dalla legge e più o meno accettate dalla coscienza collettiva, che oggi giustamente le respinge senza appello: matrimoni dei bambini, delitto d’onore, fasciatura dei piedi, lapidazione delle adultere, uccisione degli omosessuali, selvagge punizioni della poligamia; ciò, per giungere a paragonarvi usanze che oggi pratichiamo pur se sempre meno tranquillamente: trattamento degli animali nell’industria agroalimentare, aggressione all’ambiente, impiego massiccio del carcere, accumulo di armi nucleari. Evidente l’auspicio, e la previsione, che anche queste prassi subiscano la stessa sorte delle prime.
L’auspicio è sicuramente condivisibile, poiché non possiamo considerare “buona” alcuna di queste pratiche. Ma richiede una serie di approfondimenti: intanto, per così dire, di tipo “tecnico”. Ad esempio, quali sono i modi possibili per cessare l’iniquo trattamento degli animali e l’aggressione all’ambiente, aspetti entrambi di un approccio violento al mondo che accoglie la nostra specie? Quali ne sarebbero le conseguenze, nel quadro dell’ ininterrotto accrescimento della popolazione mondiale? Avrebbero anch’esse risvolti etici intollerabili, come l’ulteriore aumento della fame nel mondo? Specialmente se non si esce dall’attuale assurdo e iniquo squilibrio economico e sociale fra le sue diverse aree?
Non sono problemi nuovi: più di 80 anni fa Aldous Huxley (Brave New World) paragonava il nostro rapporto con l’ambiente a quello di un agente infestante, di un parassita che, lungi dal convivere con l’ospite, lentamente lo uccide. Una scorciatoia per arrivare prima a questo esito può essere l’olocausto nucleare, anch’esso in qualche modo preannunciato ancor prima, e prima che le armi nucleari esistessero, da un altro grande: Italo Svevo nell’ultima pagina della Coscienza di Zeno. Ma il denunciato armamento nucleare, e la disponibilità a usarlo se ritenuto necessario, fa parte della natura essenzialmente criminale di ogni potere evidenziata da tanti, da Machiavelli fino a Foucault; e senza la canalizzazione della violenza offerta dal potere statale, sarebbe probabilmente la hobbesiana guerra di tutti contro tutti. Finora nessuno ha trovato il modo di uscire da questo dilemma. Non abbiamo imparato a convivere in (relativa) pace senza un potere, capace di violenza virtuale e al bisogno reale, che ci controlli.
L’altro risvolto fondamentale suggerito dall’intervento – che elenca una serie di leggi positive in forte contrasto con le nostre attuali posizioni etiche – è il rapporto fra leggi ed etica. Con grande lucidità Sofocle impostava il problema mettendo in bocca ad Antigone: “Io non credevo poi che i tuoi divieti fossero tanto forti da permettere a un mortale di sovvertire le leggi inalterabili, fisse, degli dei: quelle che non da oggi, non da ieri vivono, ma eterne: quelle che nessuno sa quando comparvero”.
Qualcuno, mi pare nientemeno che Hegel, ha contestato questa posizione: insistere, come fa Antigone anche costo della propria vita, per sotterrare i fratelli contro il divieto del potere politico incarnato da Creonte, significa anteporre i rapporti familiari all’ossequio alle leggi: quello che oggi definiamo familismo amorale, vagamente mafioso.
Ma per Hegel, si sa, lo Stato era etico per definizione, e in ogni caso la sua obiezione riguarda più la specifica materia del contendere – peso relativo degli obblighi familiari e di quelli sociali – che non il problema generale: queste benedette leggi eterne, anteriori a ogni legislazione, esistono oppure no? Un cristiano lo pensa certamente, e lo si può pensare anche in un’ottica laica e razionalista, quella giusnaturalistica di Grozio, Hobbes, Locke: ci sono norme etiche valide sempre e per tutti, e sono il metro di giudizio anche per le leggi positive. Naturalmente, non è facile conciliare questa posizione con il dato osservazionale che molte pratiche oggi da noi rifiutate incondizionatamente – Appiah le ha elencate – sono state o sono accolte non solo in certe legislazioni ma anche nella coscienza collettiva storicamente determinata che le ha sostenute, verosimilmente consentendo l’attuazione delle legislazioni stesse e rispecchiandovisi. E’ plausibile ritenere che, senza pretendere di trovare una universale uniformità delle norme etiche, si possano cercarne e identificarne linee generali comuni, una sorta di grammatica etica, un background comune alle diverse posizioni.
Ancora attualissimo sotto questo aspetto Kant, che nella sua teorizzazione sulla ragion pura pratica non si astiene dal suggerire addirittura contenuti dell’imperativo categorico, molto generali e come tali di assoluta validità: “Agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere nello stesso tempo come principio di una legislazione universale”, e: “Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo”; “fa’ quel che devi, accada quel che può”.
Forse richiamarci a questi criteri ci servirebbe ancora…