Commento alla notizia apparsa su La Repubblica il 07 settembre 2015
L’accusa in questo processo è la mancanza di riproducibilità dei risultati.
Sicuramente essa è connotato fondamentale della ricerca del “vero” naturale e delle sue regolarità: credo che il primo a porre con forza questa esigenza sia stato, quattro secoli fa, uno degli Autori che hanno messo le basi del metodo scientifico, Francis Bacon; e ancor oggi un risultato sperimentale non riproducibile da altri che dal primo proponente non può essere preso in considerazione.
La difficile riproducibilità è certo uno dei motivi per cui la psicologia è, non da oggi, “sotto processo”. Ma occorre intendersi.
L’articolo evidenzia con chiarezza una serie di cause inficianti non specifiche della psicologia ma comuni ad ogni disciplina scientifica: la difficoltà di riprodurre esattamente le condizioni dell’esperimento; il non completamente eliminabile fattore “soggettività” dello sperimentatore; l’inquinamento legato ad ambizioni di carriera o a vantaggi economici, che portano – più o meno consapevolmente – a far considerare e mostrare significativi risultati che non lo sono.
Ma nel caso della psicologia il discorso si fa ben più complesso, per l’intervento di numerosi fattori. Alcuni sono essenzialmente pratici, come le particolari difficoltà di un campionamento casuale e di una attendibile sperimentazione in doppio cieco, e anche i limiti (malgrado Pavlov e Skinner) di ciò che la sperimentazione animale può fornire di trasferibile all’uomo. Altri elementi, più fondamentali, sono relativi allo statuto epistemologico della psicologia, e ben anteriori alle concrete difficoltà della sperimentazione.
Fondamentale è la particolare natura dell’oggetto di studio: già il termine “oggetto” è improprio, perché il nostro oggetto è in realtà il soggetto, e nessuno è riuscito a superare questa ambiguità.
Non possiamo mettere in dubbio che il cuore della ricerca psicologica, il suo centrale campo di intervento sia il vissuto, l’Erlebnis: i sentimenti, le emozioni, i pensieri, i ricordi… Ora, tutto ciò ha il piccolo difetto di non essere direttamente coglibile nell’Altro, cioè a meno che si tratti del vissuto dell’osservatore stesso, in una totale e ardua identificazione fra soggetto e oggetto. Il ricorso alla introspezione ha certamente una sua utilità, ma ovviamente è esposto a mille bias e non consente alcuna generalizzazione.
La psico(pato)logia come scienza trova in ciò un grosso ostacolo.
Jaspers definiva così l’oggetto della psicopatologia, in modo riferibile anche alla psicologia: “vogliamo sapere cosa e come sperimentano gli esseri umani”. Però sottolineava la difficoltà del compito, scrivendo: “possiamo concepire e investigare solo ciò che ci si è trasformato in oggettivo. L’anima come tale non è in alcun modo un oggetto. Si trasforma in oggetto in ciò che si mostra percettibile nel mondo: nelle manifestazioni somatiche concomitanti, nelle espressioni comprensibili, nel comportamento, negli atti; inoltre si mostra in comunicazioni verbali, dice quel che vuole e pensa, produce opere. …L’anima stessa non è un oggetto per noi”.
Ammirevole questo rigore metodologico, che in qualche modo ci ricorda Eraclito: “La natura non mostra né nasconde, ma indica”. Potrebbe sembrare un approccio ancora in qualche modo obbiettivante, tendente a considerare il vissuto come un “dato” obbiettivo purtroppo nascosto, e cui sarebbe bello poter accedere. Ma in realtà l’Autore precisa il suo pensiero: “l’anima non si può captare come oggetto con qualità, ma come esser nel mondo, come un insieme del mondo interiore e del mondo circostante”. E’ dunque ben consapevole del connotato specifico dei vissuti mentali: le loro essenziali intenzionalità e relazionalità.
Queste sono colte pienamente dalla psicoanalisi, mancante nei suoi procedimenti della rigorosa riproducibilità richiesta dal metodo scientifico, ma volta a ricercare il vissuto nell’ambito che gli è proprio, quello della relazione. Certo, le è sempre necessaria la mediazione degli effetti percepibili e in qualche modo secondari e derivati, quelli indicati da Jaspers; ma ciò a cui tende è sempre il contatto con il vissuto, più o meno consapevole.
Al contrario, come fa notare Recalcati nello stesso numero di “Repubblica”, le ricerche oggi prevalenti sembrano interessate quasi esclusivamente proprio a ciò che “si mostra percettibile nel mondo”; certo perché in qualche misura replicabile e quantificabile. Così si lasciano sfuggire, per amore dello scientismo, l’essenziale del loro bersaglio. Viene in mente la vecchia barzelletta: un passante vede un tizio intento a cercare vanamente le sue chiavi smarrite, sotto un lampione, e gli chiede se è certo di averle perse lì. Risposta: “no, sono in un altro posto, ma le cerco qua perché è meglio illuminato”.