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Mi colpisce la difficoltà che si ha nel separare gli aspetti clinici da quelli semplicemente umani.
Entrambi fondamentali comunque nella nostra professione.
Rivolgersi a Freud o ai suoi discepoli equivale a far del DSM il riferimento di ogni evento umano.
Cerchiamo di non filosofeggiare ma di valutare ciò che si può fare per alleviare la sofferenza e curare.
I nostri clienti hanno bisogno se non di guarire almeno di star meglio con qualcuno che ne comprenda (insisto sull’etimologia del termine che significa prendere insieme,condividere,partecipare) l’intima angosciosa sofferenza.
Ne più ne meno di quello che succede con un chirurgo o un internista: i pazienti non hanno bisogno di qualcuno che gli racconti suggestivamente e in modo articolato nonché a volte pomposo, perché stanno male. Hanno bisogno di non soffrire.
Se di questo si fossero interessati coloro che dovevano curare la paziente che ha ucciso il figlio, ci saremmo risparmiati una morte e avremmo saputo lenire l’angoscia di solitudine della paziente.
La solitudine non è endemica come non lo è il raffreddore; è invece in grado di uccidere come la polmonite se non viene adeguatamente curata.
Un caro amico, purtroppo deceduto che faceva il cardiologo pediatrico mi diceva: voi psichiatri siete dei parolai… Esagerava forse?
La proposta che faccio col mio gruppo attraverso il Redancia System, che consente di rilevare dati e di confrontarli con i risultati oltre che con le aspettative è di passare dalla autoreferenzialità alla dimostrazione dei risultati possibili.
Ad esempio; quanto tempo specifico (attenzione, comprensione,valutazione clinica, ascolto) è stato dedicato a quella paziente?
Il detto… dal fatto… è svelato dal dato.
Caro Giusto,
difficile non concordare toto corde col tuo appello sul primato della cura e della dedizione in termine di tempo ai malati e alla loro sofferenza come premessa di ogni discorso teorico-clinico comunque condotto. Ispirarsi alla psicoanalisi e ai suoi “modelli” non può sostitursi al contatto col dolore psichico e alle forme di partecipazione o di distanziamento che si producono negli operatori, né la somministrazione di farmaci lenitivi della sofferenza guidata da criteri diagnostici ispirati all’osservazione dall’esterno esaurisce i compiti dello psichiatra. I discorsi che si fanno sui malati non devono sostituirsi al difficile compito della comprensione personale e storica della loro specifica situazione esistenziale. L’amore per il prossimo e il remoto è una condizione necessaria ma non sufficiente per un lavoro clinico efficace. La psicoanalisi e i saperi tecnici devono servire per allargare la nostra comprensione, senza la quale il lavoro psichiatrico rinuncia a gran parte della sua efficacia terapeutica e curativa. L’essere- con deve precedere ogni operazione tecnica, ma proprio questo è un aspetto difficile, che richiede sicuramente tempo (il tempo per paziente di cui l’amministrazione non vuole in genere sentir parlare) e tante altre cose… E’ Giusto che se ne parli in una riflessione di fine anno sull’operato della odierna psichiatria.
Grazie per avercelo ricordato!
Fausto Petrella