Vaso di Pandora

La famiglia nella patologia grave: l’esperienza della Comunità terapeutica

Voglio proporre alcune riflessioni sulla famiglia del paziente psichiatrico, nella mia esperienza di direttore di comunità.
Mi interessa precisare che l’attività clinica quotidiana in comunità a confronto con quella che viene comunemente considerata patologia grave, e con le loro famiglie rappresenta un importante territorio di osservazione e pratica terapeutica, che mi ha consentito di confrontarmi con elementi teorici significativi del pensiero psicoanalitico e della sua applicazione a contesti differenti (ma ugualmente accostabili) all’attività privata.

Il trattamento in comunità terapeutica del paziente, quale che sia il suo inquadramento psicopatologico, ci mette in contatto con il nucleo famigliare in maniera inevitabile e a tutto tondo, non consentendo filtri o distanze, ed esponendoci alle vicissitudini reali, concrete della famiglia oltre che del suo ovvio e articolato svolgersi in senso psichico, nei vissuti emotivi spesso complessi e di difficile comprensione che questi pazienti e le loro famiglie si portano dentro.

Già la mia formazione medica mi aveva abituato e convinto della grande importanza della raccolta anamnestica, della storia di chi sta di fronte a me e sta cercando di mettermi a parte della sua vita, della sua sofferenza. Così le prime fasi della vita, le proprie origini, il clima (fisico e psichico) della famiglia in cui si è cresciuti sono elementi carichi di informazioni non trascurabili.

La psicodinamica, la psicoanalisi poi ha ampliato ancora il campo di significatività delle “origini”, sia nel suo proporsi co-fattore etiologico della psicopatologia nella complessità dello sviluppo infantile, sia nel suggerirci quanto lo stesso trattamento della sofferenza mentale richieda di attingere a quelle esperienze affettive e psichiche che il malato mentale ha sofferto (vissuto) nel suo rapporto con le figure primarie.

Date queste premesse, vediamo cosa accade dentro la comunità ,quella in cui lavoro, e probabilmente anche quella di altri: accade che il paziente vive, porta la sua vita qui dentro.
Perché qui mangia, beve, dorme, parla, legge, ascolta musica, talvolta si ammala, e sta a letto con la febbre, e porta i suoi oggetti, i suoi vestiti, pezzi della sua casa.
Così porta la sua famiglia: la porta nei suoi racconti, nei suoi gesti, nei suoi sintomi, nella sua rabbia, nell’aggressività, nel suo chiudersi in camera, nel suo “facciamo cambio” con altri ospiti, ma cambio di che ? Vestiti, sigarette, soldi, che viaggiano come improbabili figurine.
Così porta i tempi e i modi dei suoi legami, sua madre, nelle richieste inesauribili, suo padre, nello smarrimento della perdita di senso, i suoi fratelli, nella goffa ricerca di alleanze.

E poi porta ancora sua madre, quella reale, nelle telefonate allarmate per quel permesso in più, che forse non dovevamo dargli, e nella maglietta sporca, e poi “quelle unghie!” e ancora sua madre, quella che piange e non riesce a resistere alla festa di Natale, e quella che invece lo insulta (il paziente) perché “insomma sei sempre il solito, ma guardati un po’”.

E poi porta suo padre, che è talmente disperato che sembra feroce e così come un felino entra in comunità senza farsi vedere e non guarda nessuno e spera che nessuno lo veda, così anche lui non c’è, non esiste , come sua figlia che appena può dice che se ne va e non tornerà mai più e non si sa dove intenda andare, ma un po’ lo si intuisce.

E poi porta quei due, tutti e due insieme, suo padre e sua madre che parlano due lingue diverse, ma che tentano ancora di parlare e figurati se riescono a parlare di lui, il paziente, che ne parla una terza.
E poi qualche volta porta la mamma, quella che cerca quando ogni tanto mi (ci) chiede di parlare, e intravedi in qualche gesto, occhiata, frammento di parole che l’ha avuta una mamma e che la conserva in qualche angolo nascosto del suo “corpo che attende” e questa “attesa” gli da sollievo e speranza , così sai che ritornerà a parlarti, magari tra un po’ di giorni, settimane.

E poi porta il papà, che lo aveva portato in giro, anche lui, da bambino a giocare a pallone, o al mare, e così ce lo porti anche ora,(in comunità), a giocare, a confrontarsi con se stesso, a diventare grande, se ci riesce, senza soffrire troppo.

Questo accade, in comunità.

Per questi accaduti e per molti altri nella mia testa mi convinco di alcune cose e altre me ne vengono in mente.

La prima cosa di cui mi convinco è che non mi basta pensare solo alla famiglia che ammala (tipo madre schizofrenogenica, teoria del doppio legame) o al suo opposto al l’invidia primaria della Klein.

Penso invece che mi serve molto guardare alla teoria dell’attaccamento di Bowlby e poi all’idea della salute che ci propone Winnicott con la semplicità apparente delle sue opinioni sulla famiglia reale, sulla “madre normalmente devota”, sulle sue teorie dell’adattamento ad un ambiente che sostiene o priva o de-priva.

Così mi convinco che dobbiamo entrare dentro queste famiglie perché i loro figli lo chiedono e lo chiedono senza grandi pretese, né grandi aspettative, ma lo chiedono semplicemente perché così è , perché è da lì che provengono.

Mi convinco che l’idea di Winnicott di “madre sufficientemente buona” non sia solo una felice espressione che parla di un moderato (molto inglese) concetto di normalità, ma che mette a fuoco il naturale elemento biologico della cura del piccolo, e che ci ricorda l’opportunità di ritrovare o di “far ritrovare” al nostro paziente, attraverso la cura quella che per l’autore è la salute emozionale dell’individuo e cioè “il senso di sentirsi reali”.

Così mi convinco che la comunità (la stanza della terapia) è il luogo dove i nostri pazienti portano /cercano /trovano, (e in senso psicoanalitico questi movimenti contraddistinguono solo la direzione di un unico movimento emotivo, che ricorda la preconcezione di Bion) la loro famiglia e mi pare che questa (la famiglia) sia “il raggruppamento primario ed è fra tutti i raggruppamenti quello che più si avvicina a essere un raggruppamento all’interno della personalità come unità” (Winnicott).

Mi riferisco al fatto che se si parla dell’esperienza della famiglia “non si tratta semplicemente del fatto che c’è un padre e che c’è una madre e che spesso nascono nuovi bambini… (anche cinque) e che poi c’è una casa con genitori e bambini, arricchita di zii e cugini.

Questa è soltanto l’affermazione di un osservatore. Per i cinque bambini nella famiglia ci sono cinque famiglie; non c’è bisogno di uno psicoanalista per vedere che queste cinque famiglie non devono per forza assomigliarsi ,e che certamente non sono identiche”.

Così mi convinco che in comunità ci occupiamo dei “delicati stadi attraverso cui quel particolare bambino ha acquistato una famiglia”. E delle sue diversità: “Incidentalmente, io conosco una bambina che ha chiamato “famiglia” il suo oggetto transizionale”(Winnicott).

E mi convinco che la comunità con le sue molteplici figure dinamiche che si muovono al suo interno, offre l’opportunità di rianimare gli elementi psichici delle relazioni primarie necessarie a produrre trasformazioni, offre il possibile contatto (incidentalmente, come dice Winnicott) con il proprio spazio creativo, potenziale di crescita.

Ma c’è qualcosa di più, su cui vale la pena soffermarsi e che vorrei provare a descrivere.

È esperienza continua in comunità soffermarsi su ogni elemento del vivere quotidiano dei nostri pazienti, e al contempo il nostro permanente tradurre gesti, fatti, nel linguaggio delle vicende psichiche che abbiamo imparato a conoscere quali fondamentali nello sviluppo di un disagio.
Allo stesso modo è esperienza quotidiana il confronto con le famiglie, in incontri programmati certamente ma anche in contatti informali, frequenti, brevi, spesso fatti solo di rassicurazioni, consigli; talvolta più profondi, intensi, fatti di confidenze, vicinanze emotive, racconti privati di angosce e paure così tanto comprensibili e umane.

Altre volte il contatto è irruento, pesante, e si cerca poi un luogo (il collega, l’équipe) dove depositare questa gravità, dove nuovamente ricercare senso e traduzioni, a quest’altra sofferenza ,quella dei familiari.
È però proprio in questo continuo inevitabile scambio (paziente/famiglia) che si fanno strada alcune idee, e poi alcuni contenuti teorici e così poi alcuni modi di fare terapia.

Mi riferisco al fatto che mi è sempre più chiaro che le vicende infantili siano ritrovabili nella famiglia reale del paziente di oggi, che si presenta nelle nostre comunità e che chiede ad essa di accogliere i personaggi del suo mondo, interno e reale.
E penso anche al fatto che la famiglia condivide (o cerca di condividere) con la comunità la sua difficoltà ad accettare che il proprio malato,”malato mentale” resti (come dice Badaracco) “ a metà strada “, né sano, né malato, né inguaribile, né guarito.

Mi ritrovo molto spesso con le persone che lavorano con me a condividere momenti di curioso bisogno di capire (per me), di allarmata confusione (per altri) dove collocarsi come curanti, in questa strana partita, tra il nostro/a paziente e la sua famiglia.
Il dolore, il disorientamento, la solitudine, l’incapacità di capire, di essere capiti, è inutile dire, provengono da entrambe le parti.
La richiesta di aiuto, frammentata, ambivalente, confusa, anche questa proviene da entrambe le parti.
Così non c’è giusto o sbagliato, bene o male.

Semplicemente non c’è giustizia. Non c’è stata.

Così mi vengono in mente alcuni concetti da condividere con chi lavoro e mi accorgo che in questo modo si aprono strade e potenzialità di intervento.
Mi viene in mente la straordinaria esperienza di J. Garcia Badaracco, di terapia multifamiliare, che non solo ho letto nei suoi libri, ma a cui ho avuto la fortuna di assistere, in un convegno di parecchi anni fa, dove ha presentato le sue sedute videoregistrate. Questi incontri raccolgono numerosi individui, pazienti e famigliari, non necessariamente presenti entrambi della stessa famiglia, e naturalmente il conduttore ed un osservatore in formazione. Bene, questo tipo di intervento, oggi assai degnamente proseguito con felici esiti da Narracci a Roma e in altri ambiti in Italia, davvero mi aveva lasciato a bocca aperta.

Nel grande (davvero grande!) gruppo si animavano elementi di tale profondità e acutezza analitica, cosicché le più svariate persone di culture, livelli sociali, e patologie diverse non sembravano avere difficoltà a capire che di quello si doveva parlare e nient’altro e che il linguaggio della sofferenza è un linguaggio Inevitabilmente comune, e così anche il linguaggio della speranza, del desiderio di capire. Certamente la personalità del conduttore rappresentava un elemento irrinunciabile, ma la grazia e la semplicità con cui si muoveva in seduta e quella con cui portava al pubblico il suo lavoro mi convinsero di tutte quelle cose che osservavo lavorando in comunità ,che mi spingevano a pensare che il modello analitico, quello che portiamo nella nostra testa, è capace di accostarsi alla sofferenza e di curarla perché accede alla “funzione psicoanalitica della personalità”. E tutti gli esseri umani ne hanno una, potenziale.

Mi è parso chiaro e, ancora oggi lo penso, che è proprio con la patologia grave che lo strumento analitico si mostra idoneo alla complessità del nostro possibile intervento e il lavoro in comunità con il paziente e con la sua famiglia lo conferma.
Vediamo come.

Intanto dobbiamo parlare della relazione di transfert che lo psicotico (ma anche il border, anche i numerosi pazienti “non si sa che” che viaggiano per le nostre strutture, caratteriali, disturbi di personalità, antisociali, autori di reato, deprivati… boh) instaura con i curanti, e più in generale con la struttura che cura. Parliamo quindi dell’intensità di un movimento emotivo di collocazione nell’altro di sentimenti, spesso assai confusi e che lasciano sensazioni controtransferali altrettanto intense e confuse, che necessitano traduzione. Bene, quello che mi interessa di più però di questo è che al di là delle letture che certamente cercheremo di fare e forse restituire al paziente di tutto ciò ,abbiamo comunque la sensazione che (come suggerisce Badaracco): “qualcosa deve essere successo” e che quindi vi siano, dentro quel paziente e dentro le relazioni emotive che propone, significati e potenzialità dinamiche ancora attive e quindi se “qualcosa dev’essere successo”, qualcosa può ancora succedere.

Un altro elemento è l’idea dell’”oggetto che fa impazzire”, concetto che illumina la particolare natura, confusa ma penetrante delle relazioni che il paziente ha instaurato con le figure primarie, la famiglia. Non si tratta di oggetti kleiniani interni, in fondo ben definiti e chiari quanto piuttosto qualcosa di simile alle descrizioni di Winnicott rispetto al vero/falso sé: insomma il paziente attraverso la costruzione di una “interdipendenza reciproca internalizzata” è stato costretto a una relazione imprigionante con se stesso e con l’altro che lo ha privato delle sue parti vitali, ma che per l’appunto giacciono potenzialmente vive dentro di sé.

Ma qui c’è un altro elemento che mi pare sia importante evidenziare: “gli psicotici (forse tutti, aggiungo io) non tollerano di guarire da soli”. Mi riferisco qui alla particolare necessità, non espressa naturalmente ma inconscia e pertanto dinamicamente viva che il paziente ha di “salvare” le proprie figure genitoriali se “salva” se stesso, così di pretendere una relazionalità, nella “malattia” come nella “guarigione” e nella particolare imperscrutabile “etica” di questo suo modo di porsi di fronte al possibile cambiamento.

Questo elemento mi pare non trascurabile se penso ai delicati momenti in cui miglioramenti e/o ricadute rischiano di essere maneggiati troppo bruscamente da chi cura, senza tenere conto della necessità di accertarsi che nessuno dei partecipanti sia rimasto indietro o sia lasciato solo senza capire.
Nel lavoro quotidiano in comunità non è mai troppa l’attenzione che poniamo alle comunicazioni che il paziente ci offre delle sue vicende personali, con la famiglia, sia esso figlio, genitore, fratello, e non è mai troppa la prudenza con cui avvicinarsi ai contenuti emotivi talvolta eclatanti, o esplosivi, o irruenti e violenti che vengono espressi e portati in comunità.
D’altronde ci pare che non sia mai esauribile, ma solo delimitabile, lo spazio che vale la pena dedicare a queste richieste implicite di “presenza” come curanti dentro la personale vicenda della malattia, della cura.

In comunità, e chi lavora con me lo sa, io dedico molto tempo all’ascolto, all’osservazione, alla lettura delle vicende familiari, e sono molto attenta ai movimenti emotivi che si snodano nel corso di un incontro piuttosto che di una telefonata. È sempre con grande emozione che mi ritrovo talvolta ad assistere a scambi di parole, gesti, talvolta semplici frammenti di “fatti” che segnalano cambiamenti, crescite, sollievi.

È sempre con molta preoccupazione che mi ritrovo talvolta a soffermarmi sul perché di quell’empasse, di quella angoscia che impedisce di andare avanti, al paziente, a sua madre, al suo operatore/padre, alla sua infermiera/mamma, sul perché di quella rabbia vendicativa che non lascia tregua e che sfocia in violenza, urla, confusione.

Per questo l’esempio di Badaracco, il suo aleggiare incredibilmente capace di profondità e tolleranza delle emozioni che si animano nel gruppo multifamiliare è sempre dentro di me e nella mia testa quando mi avvicino ai miei pazienti o ai loro familiari. Così come con me sono molti altri concetti, idee, che in questi anni mi hanno accompagnato.
È sempre con una certa curiosità che mi accosto ai miei pazienti e alle loro famiglie, e con la stessa curiosità cerco di far accostare chi lavora con me all’esperienza del conoscere prima ancora che a quella del capire.

Certamente si tratta, in terapia, nella vita psichica, di tempo, il tempo che ci diamo, quello di cui avvertiamo il ritmo e i limiti. Così cerco che questo pensiero, questa percezione del tempo, quello psichico, oltre che quello reale dei fatti ,degli accaduti, passi nella testa dei miei pazienti, dei loro familiari e diventi finalmente il loro tempo di vivere.
Credo che questa percezione, apparentemente semplice, il tempo, sia quella sostanza con cui si produce, cambiamento, inizio, fine. Di qualsivoglia esso sia.

Mi piace concludere così con parole “musicali” come quelle che ho sentito uscire, in spagnolo, dalla bocca di Badaracco e le faccio dire ad un suo conterraneo “musicalmente suo simile”:

In musica l’espressività è data dal collegamento fra le note, che noi chiamiamo con l’espressione italiana –legato −.Il – legato − impedisce a una nota di sviluppare il suo io naturale, ovvero di diventare tanto importante da mettere in ombra la nota precedente. Ogni nota deve essere consapevole di sé ma anche dei propri limiti… quando si suonano cinque note legate, ognuna lotta contro la forza del silenzio che vuole prenderle la vita, e ognuna è in relazione con la nota che l’ha preceduta e con quella che la segue. Nessuna nota può farsi valere, cercando di essere più forte di quelle che l’hanno preceduta; se lo facesse sfiderebbe la natura della frase cui appartiene. Un musicista deve possedere la capacità di legare le note.
Questa operazione così semplice mi ha insegnato la relazione tra individuo e gruppo(Daniel Barenboim).

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