Vaso di Pandora

Il sintomo di Lacan. Dieci incontri con il reale.

Recensione al libro di Alex Pagliardini

Da non lacaniano mi cimento con questa estesa e accurata rivisitazione del pensiero di Lacan. Non è un confronto facile, perché le differenze con le altre scuole di pensiero psicanalitiche vanno al di là delle differenti opinioni, investendo anche la terminologia. Ciò non è un caso perché chi, come questo maestro, vede nel linguaggio la struttura fondante ogni esperienza non può non differenziarsi decisamente dagli altri indirizzi anche sul piano, per lui centrale, dell’espressione linguistica.

Questo dà alla prosa sua e della sua scuola una fisionomia particolare che a qualcuno è parsa legata a una voluta e quasi provocatoria ricerca dell’oscurità. Ne conseguono le forti ambivalenze che il suo nome suscita: tanti anni fa Boudon scriveva sul “Nouvel observateur” che la sua immagine si profila circondata dai “deleteri fumi dell’odio e della adorazione”.

La centralità del linguaggio rimanda, è noto, all’opera di De Saussure, autore di una linguistica strutturalista con la centralità, condivisa con Lacan, del “significante”. Il filone è stato ampiamente ripreso da Levi Strauss che ha definito la linguistica la sola scienza umana con statuto di vera disciplina scientifica, tale da poter fare da modello alle altre; posizione questa condivisa dal Sapir di “Cultura, linguaggio e personalità”.

Questi nel 1949, nel proporre la lingua come guida simbolica alla cultura, accusava gli psicologi del suo tempo di non capire come sia appunto nel campo dei sistemi simbolici che le forme e i processi linguistici contribuiscano di più allo sviluppo della psicologia, in particolare di quella psicologia gestaltica la cui visione non è lontana da quella strutturalista.

Fondamentale il linguaggio intanto, come scrive Pagliardini, per la sua azione sull’essere vivente: l’azione del linguaggio, dell’Altro, sul vivente produce il soggetto umano il quale, proprio per il modo in cui viene costituito, è attraversato dalla perdita della coincidenza fra sé e il proprio statuto di vivente. E’ questo per Lacan il vero senso della castrazione di Freud. Possiamo, credo, intendere l’azione castrante del linguaggio se consideriamo che questo definisce, delimita, esclude. Ciò può legarsi a quella che in altri costrutti teorici si qualifica come perdita dell’onnipotenza ed elaborazione depressiva?

Che il soggetto sia in qualche modo contenuto da un linguaggio che gli preesiste è concezione che si avvicina all’osservazione di Piaget, che la sintassi e la semantica comportano un insieme di regole alle quali deve sottomettersi lo stesso pensiero individuale. Fra parentesi, ciò riguarda, nella visione del positivismo logico, anche le strutture matematiche e logiche, costituenti anch’esse un linguaggio o una sezione di esso. Ma naturalmente quel che interessa Lacan è un’altra estensione del concetto di linguaggio, quella che lo porta di là della struttura del discorso razionale, poiché l’inconscio ha il proprio linguaggio; concezione forse parente di quella di “discorso affettivo” di Bally. Ancora Piaget, citando proprio Lacan, si chiede se l’affettività non abbia il proprio linguaggio.

Il testo di Pagliardini si articola in una serie di capitoli corrispondenti ad altrettante topiche essenziali: il trauma, l’angoscia, il sintomo, il reale, l’inizio e la fine analisi, l’inconscio, lo sguardo, l’etica, il “non tutto”. Fin dal titolo risulta come tema centrale quello del reale. Forse non è superfluo ricordare che questo concetto non è affatto sinonimo di “realtà”, intesa come quella realtà esteriore che l’analisi classica cerca di tener lontana dal setting. Pagliardini ci ricorda che il reale per Lacan è altra cosa: è “uno dei registri della vita, esperienza pura, insopportabile, esigenza pulsionale acefala, problema insolubile, impossibile, cosa in sé, realtà grezza, nuda vita, evento”; l’analisi che non incontra questo reale non è psicoanalisi ma una superficiale psicoterapia. Credo che Badiou avesse in mente questa accezione del “reale” quando ha scritto che il suo secolo era affamato di reale; mi pare se ne trovi una conferma nel nostro, anche in quelle forme deteriori che sono i reality show come il Grande fratello, le inchieste TV sui delitti, e – perché no – le risse nei talk show politici.

Si avvicina, mi pare, al concetto di “reale” quello di “vero” che appare in Proust nella lettura di Deleuze: non solo “ogni atto dell’apprendere è un’interpretazione di segni o geroglifici”, ma “non proviamo che i piaceri e le gioie corrispondenti alla ricerca del vero”. Non si tratta, è chiaro, del vero razionale, scientifico, ma di un incontro anche doloroso con una parte di noi: “la verità non è mai il prodotto di un buon volere preliminare, ma il risultato di una violenza del pensiero … il segno è ciò che è oggetto di un incontro, che esercita su noi quella violenza”.

Basta questo per capire come la psicanalisi per Lacan debba essere impresa audace, pronta a ogni rischio e asperità. Significa anche un punto di distacco dal Freud del “là dove c’è l’Es dovrà esserci l’Io”, implicante la ricerca, come dire, “civilizzante” di un predominio della dimensione razionale su quella grezzamente istintuale; ciò che ha generato contrapposizioni ingenue, e non propriamente freudiane, fra pulsione e civiltà, con necessità di scegliere fra esse. Ma in realtà per Lacan la pulsione non può fare a meno della civiltà, perché strutturalmente è sempre in eccesso, e implica necessariamente rinuncia e limite. Egli ha svincolato la castrazione dall’idea di frustrazione dell’esigenza pulsionale del soggetto, collocandola invece al fondo dell’esigenza pulsionale, come causa della stessa; società e potere reprimono solo ciò che è strutturalmente interdetto, fornendo così una significazione e un alibi alla rinuncia del soggetto. Questo pone questo maestro in posizioni molto lontane dalla c.d. psicoanalisi di sinistra che ha visto in Reich il massimo esponente, esponendolo addirittura a vedersi addebitate posizioni politicamente reazionarie, fortemente contrastanti con i riconoscimenti di una sua posizione rivoluzionaria. Ma questo contrasto non sorprende, poiché nasce direttamente dal pensiero di questo maestro, così spesso ambiguo, volutamente oscuro e programmaticamente destabilizzante.

Tornando all’impostazione freudiana, essa sicuramente aveva una dimensione rassicurante, proprio quella che Lacan vuole scartare; e che pare offrire il fianco alla visione riduttiva della prassi psicanalitica fatta propria dal Levi Strauss di “Antropologia strutturale”: poiché “l’Universo non significa mai abbastanza… mi limiterei a chiedere alla psicanalisi un linguaggio che serva a fornire la traduzione, socialmente autorizzata, di fenomeni la cui natura profonda sia divenuta ugualmente impenetrabile al gruppo, al malato e al mago”. Egli ha in mente un confronto con l’attività terapeutica dello sciamano, dove non si tratta di ricollegare stati confusi ed emozioni ma di articolarli in forma di totalità o sistema.
Tout se tient, ovviamente, nel pensiero lacaniano; e pertanto qui ci si può collegare al discorso sul trauma, anche perché, come si esprime Pagliardini, il godimento senza castrazione, il suo trauma, è il reale secondo Lacan; il trauma sta sempre accadendo; e la pratica analitica deve produrre l’impossibile, incontrarlo come tale. Fin da subito Lacan intende il soggetto come un effetto dell’incidenza dell’altro sul vivente, incidenza che produce uno strappo, una lacerazione, una perdita del vivente, che è dunque il trauma – la rimozione originaria di Freud – e che non può non essere presente nel soggetto umano così istituito. Il soggetto istituito dall’Altro viene strappato dalla coincidenza con il proprio essere vivente, dall’immediatezza e spontaneità della vita e del corpo, pertanto il godimento sorge come ciò che è stato ed è interdetto, come ciò che è andato perduto.

Lacan ha tradotto l’idea della castrazione di Freud in azione del linguaggio sull’essere vivente; possiamo, credo, intendere ciò anche ricordando che il linguaggio delimita, esclude qualcosa, dunque taglia, castra. Il godimento è castrato per il soggetto,è ciò da cui è stato staccato e a cui non può accedere direttamente. Nello schema hegeliano cui questa scuola fa esplicito riferimento, se la castrazione è l’antitesi, la sintesi è il godimento. Per inciso, mi viene in mente che questo termine (“jouissance”) è stato impiegato da Van Gogh a proposito delle proprie opere, esplosioni di energia che trovano faticosamente una forma sempre imperfetta; chissà che non abbia ispirato Lacan.

Per Lacan l’Io è strutturato come un sintomo: è il sintomo per eccellenza, la malattia mentale dell’uomo. Ciò perché, come il sintomo, è un tentativo di ricucire lo strappo nato dalla mancata risposta dell’Altro, che lascia la domanda priva di senso.

Il concetto di “Altro” percorre tutta la storia del pensiero, a partire da Platone che lo considerava una delle forme, o generi, o declinazioni, dell’Essere, affiancato agli altri tre generi: la Quiete, il Movimento, l’Identico. Ha finito poi col divenire una sorta di passepartout, idoneo per i vari Autori a indicare Dio, l’essere, la struttura, il linguaggio, l’Es, il diverso utopico, la differenza, e forse l’alterità in generale, tutto ciò con cui in vari modi il soggetto si confronta. Nel pensiero di Foucault, così vicino a quello di Lacan, esso coincide “con la presenza dell’impensato, con quelle strutture profonde che lo costituiscono da sempre: di quella vita il cui reticolo, le cui pulsazioni, la cui forza sepolta, incessantemente travalicano l’esperienza. L’impensato non risiede nell’uomo, ma è l’altro fraterno e gemello nato non già da lui né in lui ma a fianco e contemporaneamente”.

Si può aderire o meno a questa visione, ma è comunque certo il suo dirompente impatto culturale e la fondamentale lezione della non addomesticabilità del Reale. È, mi pare, soprattutto questo che l’importante lavoro di Pagliardini ci ricorda.

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