Vaso di Pandora

Il gruppo multifamiliare: una nuova relazione di cura

Intervento di Michele Solari e Monica Acquasanta al Seminario:

a cura di G. Giusto, C.V. Valenti
CTR La Tolda, Varazze, 29 Aprile 2016

PREMESSA

Michele Solari

La nostra conoscenza con il Prof. Badaracco risale a circa dieci anni fa.
Fu un’incontro illuminante ed indimenticabile.
Non solo per quanto teorizzava e mostrava, grazie all’abbondante documentazione video che portava con sé, ma anche per i modi squisiti e per l’umile delicatezza con la quale si rivolgeva indifferentemente a Pazienti e colleghi.

Già in questo cogliemmo un primo insegnamento: il modo di porsi, l’atteggiamento di ascolto, la curiosità attenta e rispettosa che con lui si confermava come un fattore terapeutico ineludibile.

Da allora abbiamo sempre pensato che il suo modello, nato in modo semplice, ma in realtà molto raffinato, proponesse uno strumento di comprensione e trattamento delle patologie gravi, ed in particolare delle psicosi, straordinariamente chiaro ed efficace.

Per chi lavora alla cura delle patologie gravi è comune osservazione che qualora il trattamento sia stato apparentemente efficace nel restituire al paziente margini di autonomia e benessere, il rientro a casa, talvolta considerato come uno dei risultati più soddisfacenti, ben presto si rivelava disastroso determinando drammatiche ricadute.

In tanti anni di pratica ci è capitato molto frequentemente di ritrovare in Diagnosi e Cura, con sorpresa e delusione, persone che avevamo dimesso poco tempo prima ritenendo che fosse stato fatto “un buon lavoro”.
Si pone, quindi, una prima riflessione sull’appropriatezza delle nostre pratiche in merito al mantenimento dei risultati acquisiti.
Le risposte più comuni alle domande che ne seguono, prese a sé, non sono abbastanza convincenti.

Con molto semplicismo si tende, infatti, ad individuare nelle insufficienti risorse dei servizi la causa di un inadeguato sostegno a questi pazienti non abbastanza solidi e organizzati per poter mediare, se privi di aiuto, tra richieste interne ed esterne.
Questa spiegazione trova buon gioco nella constatazione che non vi sono ancora appartamenti assistiti in numero adeguato e che si propongono, talvolta, offerte terapeutiche rigide entro percorsi obbligati, sulla base di idee convincenti per gli operatori ma non sempre per i pazienti.

In alternativa si possono assumere posizioni più fataliste dando per assodato che la malattia non guarisce e che il nostro paziente sarà per sempre soggetto a crisi e regressioni e a qualche tempo dalla dimissione, non resterà che attendere che venga nuovamente inserito in comunità per ricomporsi e ripartire verso altre strutture ed altre ricadute.

Altri ritengono, invece, che nel nostro campo la straordinaria e ricca proliferazione di teorie e tecniche abbia determinato una babele di orientamenti e linguaggi, tale da rendere difficile l’integrazione delle conoscenze. Ne può conseguire che il nostro paziente, che proprio di un lavoro che riduca la dissociazione attraverso l’integrazione, in viaggio fra idee e risorse disparate, stenti ad essere aiutato coerentemente in questo cammino.

Infine, constatazione amara, le comunità terapeutiche nelle quali si lavora “al fronte”, con un impegno straordinariamente oneroso e non sempre riconosciuto, si prendono cura dei propri pazienti ma non sempre riescono a curare. Anche e qualora siano dotate di risorse sufficienti si debbono misurare con tanti e tali bisogni da esaurire ogni sforzo, con risultati alterni.

Va detto, inoltre, che l’attuale deriva custodialistica, a causa della quale gli invii rispondono in grande parte ad esigenze di tutela sociale nella necessità allontanare dal territorio persone presunte pericolose per sé per gli altri e per i curanti stessi, induce le strutture a misurarsi, spesso in solitudine, con situazioni di emergenza permanente che ne esauriscono forze e passioni.
Riteniamo, posto che come diceva un grande comico “è la somma che fa il totale”, che ognuno di questi fattori abbia un suo elemento di verità ma che nessuno sia sufficientemente esaustivo.
C’è altro che, come tutti abbiamo tante volte osservato, entra in gioco.

Si tratta di qualcosa di noto che nel corso del tempo si è cercato di trattare con svariate tecniche e con risultati non sempre soddisfacenti.
Il paziente psicotico è, infatti, bloccato in una situazione simbiotica con uno dei genitori, o con entrambi, che gli impedisce di formare la propria identità.
Tale condizione costituisce la causa della psicosi stessa.

Sorge quindi il problema per cui, se non si lavora anche su queste dinamiche relazionali e se a farlo non è la stessa agenzia o struttura che cura il paziente, gli si riproporrà la stessa matrice patogena con le conseguenti ricadute.
Le identificazioni patologiche e patogene, infatti, intrappolano lo psicotico e lo paralizzano.
Queste identificazioni, come ci ha insegnato Badaracco, si organizzano come parti scisse della mente, come “oggetti che fanno impazzire”, che costringono il paziente a ricorrere a identificazioni mimetiche con le figure parentali, impedendogli un soddisfacente percorso di individuazione e separazione.

Monica Acquasanta

E’ stato un grande piacere per me in questi giorni, recuperare vecchi quaderni di appunti e rivivere il ricordo delle emozioni provate durante l’incontro con il prof Badaracco e la moglie Elena.
Ho avuto la fortuna di conoscere Jorge Garcia Badaracco ed Elena, moglie amatissima e sua grande sostenitrice, in occasione di un loro viaggio di lavoro in Italia.

E’ stato per me un incontro magico nel quale col Dott. Solari abbiamo trascorso alcuni giorni, assieme al professore e a sua moglie, tra Genova e Firenze.
All’inizio ero un po’ intimidita di trovarmi al cospetto di un grande Maestro, ma Jorge ed Elena hanno subito saputo mettere me ed il collega a nostro agio.
Invece la grande semplicità e capacità di accoglienza di entrambi aveva prodotto in me quasi l’impressione di essere NOI loro ospiti e NON il contrario.
Tutto è stato straordinario.

Badaracco ed Elena hanno mosso sin da subito in me intense emozioni transferali facendomi sentire come se fossi una di famiglia, come dei parenti che si incontravano nella terra delle loro comuni origini dopo tanti anni di lontananza.
Assistendo alle sue conferenze e visionando i video delle sue sedute ho subito compreso la straordinaria portata clinica del suo lavoro.

Quando gli abbiamo, timidamente proposto se sarebbe stato disponibile a partecipare ad un convegno sul suo modello, che abbiamo poi organizzato a Genova a Santa Maria di Castello nel 2005, lui ha subito accettato con entusiasmo dando vita ad una giornata memorabile.

In seguito, dopo il convegno di Genova, decisi di andare a trovarli a Buenos Aires. Volevo assistere dal vivo alla sua tecnica.
Mi sono fermata un mese a B.A., assistendo ai suoi gruppi all’Ospedale Psichiatrico Borda, nell’Ospedale Civile, nelle strutture semi-residenziali e presso la Associazione Psicoanalitica Argentina.

Molte cose mi hanno colpita ma, sopra a tutte, la qualità dei rapporti che Badaracco riusciva a stabilire sia con i pazienti che con i suoi collaboratori, improntati sempre al massimo rispetto.
Una dimensione etica, umanissima ed accogliente.

Badaracco aveva organizzato la mia permanenza nella capitale Argentina, nei minimi dettagli. Dagli accompagnamenti, all’ospitalità in casa sua, agli appuntamenti clinici, 40 ore alla settimana sempre con lui.
Pur cambiando i luoghi Jorge era sempre inappuntabile, dolcissimo e attento.
Il primo incontro presso l’Associazione Psicoanalitica mi aveva sbalordita. Saranno state presenti almeno 200 persone con la Tv nazionale che riprendeva.

Il contesto era elegante, in una palazzina d’epoca addobbata da tanti fiori e i partecipanti a questo enorme gruppo erano pazienti, famigliari, conoscenti, operatori e forse curiosi, attirati dall’evento televisivo, straordinario, di quella serata.
Il giorno dopo al Borda il contesto era del tutto diverso, persino peggio di ciò che restava dei nostri manicomi. Quello che non cambiava era lui, il Professore.

Il medesimo atteggiamento, il grande rispetto nei confronti dei ricoverati, la calma di chi sa l’importanza di quello che sta facendo, mantenendo la stessa semplicità e naturalezza della sera prima.
Al Borda, in una apparente confusione, i pazienti entravano ed uscivano dalla stanza mentre Badaracco, senza scomporsi, teneva le fila del gruppo con la massima inapparente attenzione.

Ricordo che ad un certo punto è entrato un paziente con la sigaretta accesa, nonostante non si potesse. In quel momento parlava un medico collaboratore di Badaracco.
Il paziente, molto irritato, si è alzato dicendo che, visto che parlavano solo i medici, lui che non lo era non aveva niente da dire ed è uscito dalla stanza.
Nonostante questo atteggiamento, provocatorio e rabbioso, nessuno si è scomposto dandomi subito la misura di un clima, nel gruppo, tollerante ed accogliente.

Dopo una decina di minuti il paziente si è ripresentato nella stanza. A questo punto J. ha cambiato posto andando a sedersi al suo fianco e ha chiesto ad un famigliare cosa significasse il comportamento di questo ragazzo.
Il familiare rispose che, secondo lui, il ragazzo voleva essere accolto ma era spaventato perché temeva di essere allontanato a causa della sua aggressività e perciò se ne era andato prima che qualcuno lo espellesse dal gruppo.
Il paziente non ha detto più nulla ma si è fermato, per tutto il tempo restante, ascoltando in silenzio gli altri con attenzione.
Racconto questo episodio perché mi ha subito permesso di constatare la forza contenitiva e attrattiva del dispositivo multi familiare.
La mia esperienza a Buenos Aires purtroppo si è conclusa dopo un mese, ma ho portato a casa un bagaglio enorme di conoscenza
Spesso il paziente psicotico, come sappiamo, non arriva a differenziarsi e individuarsi, a trovare una sua identità.
Badaracco parla di “relazioni che fanno impazzire”, come ci ricordavano il dott. Narracci e il dott. Solari.

Secondo Badaracco il paziente psicotico è bloccato in una situazione simbiotica con uno dei genitori, o con entrambi, condizione che gli impedisce di formare la propria identità.
Tale situazione, come già detto, va a costituire la causa della psicosi.
Durante la mia esperienza pratica in Argentina ho potuto verificare e vedere quei fenomeni di cui parla il Professore.
I fenomeni, ad esempio, del “rispecchiamento metaforico” e dei “transfert multipli” che si creano all’interno del contesto della Multi (come la chiamavano in Argentina) e che favoriscono lo sviluppo di una rete di dialogo capace di interrompere il processo di identificazione patogena.

Il professore, prima degli incontri, mi parlava di “Mente ampliada”: “vedrai che nella Multi si può pensare insieme quello che non si può pensare da soli”, potrai assistere ad un confronto che arricchisce, che crea solidarietà e sostegno reciproco su più livelli”.
La Multi, infatti, permetteva di dare voce e spazio a quelle componenti emotive che un singolo difficilmente sarebbe riuscito ad esprimere all’interno della sua famiglia.

Le persone potevano vedere che i loro problemi erano presenti anche nelle altre famiglie.
I gruppi all’ospedale psichiatrico si svolgevano alla presenza dei pazienti ricoverati, dei familiari, dell’equipe di Badaracco, di tirocinanti e studenti in formazione che provenivano da tutto il mondo.
Badaracco o qualche suo collaboratore inizialmente cercava di approfondire i racconti di un partecipante, per facilitare l’avvio del discorso e la condivisione dei contenuti emotivi.

Cercava insomma di creare quella conversazione tra persone, di cui Andrea ci parlava prima.
Poi gli interventi dei terapeuti divenivano meno incisivi, si era oramai creata la conversazione, una conversazione circolare.
Il gruppo della Multi era numeroso, sempre, ma all’associazione psicoanalitica argentina ancora di più.
Anche più di 200 persone presenti ogni martedì sera.
Incontri tumultuosi, caotici, carichi di aggressività penserete voi? NO! Vi posso assicurare.

I familiari imparavano subito a stare dentro al setting e a seguire e rispettare quelle semplici regole che il professore prima di ogni incontro ripeteva: si deve parlare per alzata di mano, tutti possono parlare e tutti devono essere ascoltati.
Le persone che non funzionavano nel loro gruppo familiare, guardando altri, altre situazioni, riuscivano a dare supporto con i loro interventi, svolgendo funzioni di co-terapeutiche.

Il peso di un problema vissuto da una persona si alleggeriva, perché condiviso da più famiglie, da un gruppo più vasto.
Si eliminava la vergogna e ogni soggetto sembrava arricchirsi.
Il poter pensare assieme quello che non si poteva pensare da soli contribuiva a creare una mente di gruppo, “una mente ampliada”.
Nonostante le dipendenze patologiche che si erano determinate all’interno delle famiglie coinvolte, dove ognuno non aveva più un limite nei confronti dell’altro, nel contesto della Multi ogni soggetto poteva rientrare in contatto con quelle parti di sé virtualmente sane.

Il Sistema esterno, grande, era capace di un forte contenimento.
L’obiettivo della Multi era, quindi, quello di favorire delle interdipendenze normo-geniche e non più patogene, permettendo al paziente e ai suoi famigliari di sviluppare risorse alternative che prima non potevano esprimere, né sapevano di avere.
Il gruppo multi familiare lasciava emergere, nella scena del setting, identificazioni patogene intrappolanti e l’intero gruppo le poteva osservare e raccontare, contribuendo a trasformarle ed interromperle.

Il setting multi familiare, in quanto gruppo allargato in cui sono presenti diverse famiglie è, inoltre, un luogo sociale per eccellenza.
I gruppi multi famigliari costituiscono, infatti, una sorta di microsocietà curativa che permette di pensare assieme quello che non si può pensare da soli.
Un luogo che possiamo definire “multietnico”, poiché ogni famiglia è portatrice della propria “etnia” e il confronto fornisce una buona risorsa per lo sviluppo della socialità nei nostri pazienti.

Michele Solari

Nel modello di Badaracco la famiglia, infatti, viene attivamente coinvolta nel trattamento che vede contemporaneamente partecipi svariati nuclei famigliari ed i terapeuti, qualunque ne sia la funzione o l’orientamento teorico.
Gli obiettivi che Badaracco insegue sono svariati: cercare di integrare la realtà esterna come la famiglia nel processo di cura; ristrutturare i legami patologici del paziente con il suo ambiente; avvicinarsi con maggiore facilità ai livelli più regressivi del paziente stesso; integrare le risorse terapeutiche come la psicoanalisi individuale, la terapia di gruppo, la cognitiva e quella sistemica famigliare.

La tecnica della psicoanalisi multi famigliare favorisce, come ci ricordava Monica, il crearsi di un contesto di rispecchiamento metaforico e di transfert multipli all’interno del quale i partecipanti interagiscono, sviluppando un dialogo capace di interrompere il processo di identificazione patogena.
A questo particolare setting, come si è detto, partecipano più nuclei famigliari con pazienti gravi.

In ognuno di questi nuclei sono presenti almeno due generazioni.
Sono quindi presenti tutti gli attori della situazione patologica.
Partecipano, entrando in rapporto con la patologia, oltre alla famiglia e al paziente designato, gli operatori coinvolti nei trattamenti in una condizione paritaria, cosa che permette di valorizzare, in modo omogeneo, tutte le risorse delle quali possiamo disporre per la cura dei nostri pazienti.

Come ci ha confermato l’esperienza ciò che avviene all’interno di un gruppo è una conversazione tra persone.
L’apparente semplicità di questo presupposto permette di fare emergere, in modo naturale, informazioni sulle relazioni che legano e intrappolano i partecipanti, che non potrebbero essere colte in altre situazioni cliniche.
La dimensione pubblica dà ai fatti che vi si svolgono una visibilità impensabile.
Si alimenta il pubblico per dare forza al privato.

Si trasforma un fatto intimo e privato in un fatto pubblico e i contenuti narrati da un membro del gruppo vengono accolti e condivisi emozionalmente dai componenti delle altre famiglie.
Si genera, quindi, solidarietà e sostegno reciproco a più livelli.

Questi scambi permettono un confronto che dà spazio e voce ai conflitti intrafamigliari, favorendo l’emergere di componenti emotive che il singolo difficilmente riuscirebbe ad esprimere all’interno della sua famiglia o di un trattamento duale.
I gruppi multi famigliari permettono, perciò, di sperimentare una sorta di coalizione e condivisione e di far vivere ai partecipanti l’esperienza che i propri problemi non sono solo esperienze personali, ma frutto di dinamiche presenti anche in altre famiglie.
L’intervento del conduttore, che è teso a facilitare l’avvio dei discorsi e l’esprimersi dei contenuti emotivi, alimentando una comunicazione circolare, diviene meno incisivo mano a mano che i confronti e le riflessioni emergono più facilmente.

Una caratteristica peculiare e sorprendente di questo modello è che i partecipanti, come abbiamo potuto verificare, apprendono veramente sin da subito a stare all’interno del setting.
Ci si potrebbe aspettare che si venga a determinare una situazione caotica, carica di aggressività, difficile da gestire.
In realtà, una volta apprese alcune regole di base come ascoltare, non parlare uno sull’altro e non trasformare in liti le conversazioni, si crea un clima molto rispettoso e costruttivo che permette di dare fiducia al gruppo.

La cosa interessante è che persone che non funzionano all’interno del proprio gruppo famigliare, ascoltando altre situazioni, riescono a vedere con chiarezza le dinamiche che emergono, svolgendo la funzione di co-terapeuti.
Di certo l’incoraggiamento a proseguire viene dall’osservare qualcosa che già Badaracco ci aveva anticipato: al contrario di quanto si potrebbe temere, l’allargarsi del gruppo fino a coinvolgere moltissime persone genera un contenitore che accoglie, anziché amplificare, le espressioni dell’aggressività insite in queste dinamiche patogene, creando una condivisione di vissuti che ne facilita la leggibilità e l’elaborazione.

Monica Acquasanta

Mi preme ripetervi come le famiglie apprendono subito a stare nel setting e a rispettare le poche indicazioni che ne regolano il funzionamento (parlare uno alla volta, per alzata di mano, in un clima di attenzione reciproca).
Ci tengo perché questo è uno dei dubbi che viene più frequentemente espresso dagli operatori, dubbio e timore che può scoraggiare ad intraprendere questa avventura.

Il gruppo, così come viene a costituirsi, al contrario, non viene vissuto come pericoloso, come possibile minaccia di perdere i confini del sé.
Esprimersi, quindi, liberamente, sentendosi parte di una squadra. Questo è ciò che accade in modo naturale.

Come dice bene Andrea nel suo libro, “attraverso il coinvolgimento dei familiari cambia il senso del ricovero… dalla delega totale verso l’istituzione (molto comune nei familiari dei pazienti gravi), si passa alla loro partecipazione attiva al processo di cura”.
Una co-costruzione terapeutica condivisa, utilizzando un termine sistemico.

Nel GMF anche la violenza può trovare uno scenario per rappresentarsi e divenire parola. (Questo mi ricorda anche ciò che avviene nei miei gruppi di psicodramma).
La messa in comune e la condivisione della sofferenza forniscono, quindi, una possibilità di “ripensare e rielaborare la realtà” da una prospettiva diversa da quella precedente.

Dall’esperienza in Argentina ho potuto capire meglio come la cura non può e non deve riguardare solo il paziente ma deve rivolgersi anche ai suoi familiari, anch’essi intrappolati dalle interdipendenze patologiche.
Noi operatori non dobbiamo dimenticare che anche i familiari sono persone che soffrono, altrettanto prigionieri di vincoli patogeni e altrettanto bisognosi di impostare un lavoro di auto-osservazione che permetta loro di rendersi conto della situazione in cui si trovano.

In altre parole debbono poter lavorare, grazie al GMF e al conseguente lavoro individuale o sul singolo nucleo familiare, in modo da allentare e rompere il vincolo che li opprime e che non consente di scoprire di possedere una virtualità sana.
L’esperienza sul campo mi ha permesso, inoltre, di conoscere non solo una teoria di riferimento coerente e funzionale ma, soprattutto, che la cosa più importante nel gruppo, come in altri contesti, è permettere a tutti i familiari (compresi quelli che possono fare insorgere in noi sentimenti sfavorevoli) di sentirsi ascoltati – compresi e rispettati, anche perché possano riprendere a pensare che si può contare sull’aiuto dell’Altro.

E’ indispensabile, pertanto, sorvegliare e modificare la nostra abituale reazione emotiva verso i genitori dei pazienti.
I pazienti, infatti, sono spesso percepiti come sfortunati e deboli, vittime di quei genitori che non hanno saputo capire i loro bisogni, ingenerandoci sentimenti ambivalenti: persone a cui va fatto si riferimento ma che viviamo, talvolta, come oppressori di figli che sono poi divenuti poi folli.

Michele Solari

L’ESPERIENZA

La nostra esperienza con la terapia multi famigliare è piuttosto recente. Per una quindicina di anni abbiamo condotto incontri con i famigliari, che hanno riscosso una buona e costante adesione. Si è potuto osservare però che la tendenza naturale di questi gruppi era quella di “tenere fuori dalla porta”, non solo concretamente, la malattia, finendo col parlarne come di una disgrazia comune, un incidente sventurato al quale si poteva solamente rassegnarsi ottenendo un po di sollievo nel constatare di non essere soli, cercando qualche suggerimento su come gestire telefonate, visite, permessi, cibo, soldi e quant’altro.

Molto tempo prima di iniziare il gruppo multi famigliare abbiamo iniziato a introdurre nei nostri incontri l’idea che avremmo potuto lavorare in modo diverso, aprire le porte, non più parlare degli assenti, così diversi da come venivano pensati dai loro genitori o dagli stessi curanti e dare loro la possibilità di rappresentarsi come persone pensanti e senzienti. Come, in altre parole, i veri protagonisti della loro storia.

Molto tempo è ancora passato. A ciò ha concorso certamente il timore di affrontare un’avventura che ci pareva troppo più grande delle nostre capacità.
Prima di iniziare avevamo molti dubbi. Cosa accadrà quando riuniremo assieme tutte queste persone, pazienti, famigliari e operatori? Riusciremo a gestire i conflitti e l’aggressività che potrebbe scaturirne? Come potremo gestire la posizione di chi, pur avendo accesso al gruppo, non ha famigliari presenti? Come potremo organizzare la presenza degli operatori ai quali chiedere un’ulteriore impegno, magari fuori dall’orario di lavoro? Come coinvolgere i famigliari provenienti da altre regioni?

I dubbi erano molti. Inoltre la collocazione isolata di Redancia 1 complicava ulteriormente le cose.
Nel frattempo il gruppo dei famigliari aveva iniziato a riflettere sulla necessità di cambiare, di tentare una via nuova.
Al gruppo partecipava assiduamente un padre inglese, sposato con una italiana, da molti anni residente in Italia. Questo papà, sempre seduto al fianco della moglie, pur attento a quanto veniva detto, si distingueva per il suo incrollabile mutismo. Per lui, come per il figlio, con marcati tratti autistici, pareva che non fossero restate parole e che queste fossero un patrimonio esclusivo della moglie, sempre molto chiacchierona ed estroversa. Verso la fine del 2014 proprio lui, fra lo stupore generale, prese la parola dicendo che la mia proposta di allargare gli incontri anche ai pazienti gli pareva oramai ineludibile, anche sulla base di esperienze analoghe in Inghilterra che sapeva essere efficaci. Quel giorno decidemmo tutti assieme che con l’inizio del nuovo anno avremmo aperto le porte ed iniziato l’avventura.
Così fu tra molti patemi ed entusiasmi.

All’avvio del primo gruppo multi famigliare il gruppo di lavoro era molto preoccupato dalla grande eterogeneità dei pazienti presenti, molti dei quali usualmente polemici ed aggressivi.
Una volta spiegate brevemente le regole di interazione reciproca, ha preso la parola un padre lamentandosi delle condotte del figlio, sempre molto richiedente e a suo dire “cattivo e ingestibile”. La prima sorpresa è stata che il paziente, abitualmente molto irrequieto e impulsivo, sedeva accanto al padre senza reagire alle sue lamentele. Mano a mano che altri genitori intervenivano, esprimendo la propria opinione sul metodo “premio punizione” che il padre sosteneva essere l’unico possibile per suo figlio, si verificava una sorta di inversione delle attese.

Il padre diveniva, infatti, sempre più irrequieto e rabbioso e il figlio sempre più tranquillo e apparentemente a suo agio. Altri genitori esprimevano il proprio punto di vista mettendo in dubbio il metodo educativo del padre, con toni rispettosi e comprensivi.
A questo punto il figlio ha potuto parlare della madre, che aveva abbandonato entrambi molti anni prima, evocando una forte commozione generale. Per la prima volta abbiamo assistito al riavvicinarsi di questa coppia, culminato nel pianto e in un abbraccio che ha suscitato un lungo applauso spontaneo da parte del gruppo. Al termine della seduta gli operatori erano molto sorpresi nel riconoscere che il nostro paziente, da tutti considerato noioso e poco intelligente, aveva mostrato aspetti di sé che nessuno gli attribuiva.

Non poteva esserci un inizio più emozionante e stimolante per proseguire questo nuovo cammino e anche chi era scettico e spaventato, all’idea che non fossimo in grado di gestire il caos da tutti temuto, si è dovuto ricredere.
Abbiamo potuto assistere ad una situazione nella quale si è potuto toccare con mano il fenomeno del rispecchiamento, ben descritto da Badaracco, per il quale le persone che hanno perduto la capacità di riconoscere le situazioni che stanno vivendo, attraverso lo sguardo degli altri partecipanti al gruppo, riescono ad assumere un diverso punto di vista e ad accedere ad emozioni che aiutano ad uscire dal proprio mondo interno e da un pensiero che si era cristallizzato inchiodandoli a ruoli obbligati.

Michele Solari e Monica Acquasanta

OSSERVAZIONI E CONSIDERAZIONI

Colpisce da subito l’efficacia del materiale in movimento. Un movimento complesso: quello immediatamente percepito dei corpi, delle parole, delle storie che si vanno narrando o componendo attraverso gli sguardi, i pensieri e le interazioni che si sviluppano, e quello della direzione da dare, attraverso la teoria, e da sostenere e mantenere, mediante la tecnica.

UNA CONVERSAZIONE TRA PERSONE

Come abbiamo imparato “ciò che avviene all’interno del gruppo è una conversazione tra persone”, simile a quanto avviene in un normale consesso, conversazione nella quale emerge spontaneamente l’oggetto stesso del quale si parla, vale a dire il modo nel quale si sviluppa, esprime e mantiene la psicosi.
Ma si tratta di una conversazione allargata, in un contesto molto eterogeneo nel quale l’interlocutore è lo Sguardo della platea che attende, un’entità che contiene qualcosa di estraneo ed imprevedibile.
Il discorso si illumina di nuove luci dal momento che non si rivolge agli abituali interlocutori, figli, genitori, coniugi, terapeuti, intrappolati o alle prese con le identificazioni patologiche della simbiosi, ma suscita risposte diverse e inattese che mettono in crisi le sicurezze fusionali dei partecipanti.

Nel gruppo multi famigliare, inoltre, si esprimono una molteplicità di ruoli e posizioni concomitanti. Il paziente prima di partecipare è ancora tale, ma quando entra in seduta diviene un membro del gruppo e quando parla è semplicemente una Persona.
Analogamente i suoi genitori, o quelli degli altri, divengono membri del gruppo e durante l’incontro si trovano ad essere genitori per i propri figli, sconosciuti per quelli degli altri e Persone quando intervengono.

I PAZIENTI “ORFANI”

Ci sono, inoltre, i pazienti “orfani”, quelli che non hanno famigliari presenti.
Ci siamo subito preoccupati della loro particolare posizione temendo che potessero sperimentare in modo concreto un’assenza che rimandava al trauma di altre destrutturanti presenze, assenti dentro e fuori di sè.

Anch’essi sperimentano ruoli diversi: membri del gruppo e della famiglia allargata; persone che esprimono il proprio pensiero; viaggiatori che possono passare dal ruolo di figli a quello di genitori, con identificazioni mutevoli e proiezioni che offrono spesso al gruppo utili stimoli e riflessioni, resi più autorevoli da uno status di apparente neutralità.

Questi pazienti, nel contesto multi famigliare, sono nella miglior condizione per poter esprimere la loro competenza della malattia e delle relazioni che vi sono implicate, svincolati dall’influenza fisica dei propri genitori.
Abbiamo spesso osservato quanto il loro contributo possa essere prezioso, dimostrandoci una volta di più che con la loro esperienza i pazienti sono i nostri veri maestri.

Naturalmente anche i tecnici che partecipano mutano ruolo e posizione. Da operatori e terapeuti, già implicati transferalmente con molti dei presenti, a percettori e osservatori del materiale clinico che va emergendo e potenziali supervisori per i propri colleghi, ad attivatori e conduttori della conversazione, a semplici membri del gruppo, a Persone che possono esprimere in modo più naturale il proprio pensiero.

In questo contesto i terapeuti sono spinti a porre attenzione sugli aspetti strutturali, distributivi e relazionali piuttosto che sui sintomi.
Il principale fattore che accomuna i presenti, sembra sia, molto semplicemente, essere Persone che parlano e pensano con altre Persone di qualcosa che riguarda tutti, in una situazione nella quale è possibile sperimentare il valore di sé e delle proprie parole attraverso l’attenzione che i partecipanti prestano al discorso di ognuno.
Le Persone, in gioco fuori dal proprio ruolo, possono più facilmente mutare posizione, sperimentando cambiamenti non solo immaginari (possono essere alternativamente figli, genitori, consiglieri, terapeuti, ecc.) deponendo nella socialità del gruppo qualcosa del proprio segreto, di intimo che, pur filtrato dalle resistenze, ne rivela un’ originalità nascosta.

LA “MENTE AMPLIADA”

Come abbiamo potuto osservare, se il gruppo multi famigliare costituisce una sorta di famiglia allargata, anche la sua mente si amplia come effetto di un allargamento dei movimenti dialettici, con la creazione di nuove catene significanti che inducono i partecipanti a valicare il limite delle proprie resistenze e sicurezze.
Ma “mente ampliada” non significa mente infinitamente aperta, dove tentare di evacuare il rimosso in un colpo solo. A questo fanno pensare quei partecipanti che presa la parola tendono ad invadere la mente del gruppo, monopolizzando narcisisticamente la conversazione.

Crediamo che queste situazioni vadano moderate, col richiamo alla regola, quando minacciano l’attenzione del gruppo portato ad estraniarsi o a concentrarsi su un suo membro come portatore della verità.
Ma la mente aperta sembra talvolta produrre qualcosa di eccessivo, di trasgressivo, come in fondo deve anche essere, un resto che pure fa parte del tesoro del gruppo e che può essere in grande parte perduto.
Ci è parso che possa essere utile riprendere, nell’incontro successivo, proprio dai resti della volta precedente lasciando quindi nella mente dei partecipanti qualcosa di sospeso, un’aspettativa, un interrogativo.

GLI ALTRI IN NOI

Incontrare gli altri in noi equivale ad incontrare se stessi e al tempo stesso significa accettare la differenza dall’altro e soprattutto iniziare a riconoscere la propria differenza per costruire migliori confini dell’io e difese più adattative.
In questo senso ci pare che il GMF crei una condizione di fertile antinomia tra il desiderio di identità personale, che va sempre sostenuta e quello di una identità collettiva che contiene anche i bisogni fusionali dei presenti.

Gli altri in noi, nel GMF, non sono solo le presenze genitoriali e filiali ma anche la presenza stessa del gruppo.
Un’altro noi, nel quale rispecchiarsi, che ha delle regole di comunicazione che permettono di sperimentare limiti che vengono vissuti senza necessariamente essere imposti.

IL RISPECCHIAMENTO METAFORICO

In virtù del rispecchiamento metaforico la presenza di più nuclei familiari, disponibili a narrarsi, facilita la scoperta di non essere gli unici a soffrire, grazie alla condivisione di difficoltà simili, favorendo lo strutturarsi di fattori terapeutici specifici quali la solidarietà, il superamento dello stigma e dell’isolamento sociale, il mutuo apprendimento, l’aumento della speranza e il rafforzamento della funzione riflessiva.
Le storie si intrecciano ma non sono mai uguali.

Rispecchiarsi nell’esperienza altrui riguarda l’identificazione, la condivisione, la suggestione e la circolarità delle idee, ma può comportare il rischio di ridurre le esperienze dei singoli a esperienze generalizzabili. Crediamo vada tenuto a mente che l’esperienza è sempre soggettiva, non esistendo un’esperienza uguale ad un’altra.

Nella conduzione del gruppo ciò può tradursi nel sostenere chi si è rispecchiato nelle emozioni del racconto ascoltato, invitandolo ad esprimere il proprio vissuto, nelle somiglianze ma anche nelle differenze percepite, valorizzando la sua soggettività.

Il concetto di rispecchiamento metaforico, infine, ci pare sia di grande aiuto nel dare una direzione alla conversazione. Facendo leva sulla similitudine di un discorso che coinvolge diversi attori, si evidenziano analogie e differenze cercando di evitare che i racconti si indirizzino, sulla base del desiderio e del piacere personale, nelle direzioni più disparate, confondendo il pensiero del gruppo.

PENSARE INSIEME CIO’ CHE NON SI PUO’ PENSARE DA SOLI

Non si è mai soli quando si pensa, non fosse altro per la dialettica interna che si attiva.
Il pensiero si misura però con difese e oggetti interni che sono oscuri al pensante stesso e il pensiero simbiotico impoverisce e intrappola le persone all’interno di schemi relazionali e percettivi mortiferi.

Partecipare al gruppo implica di per sé la speranza e l’attesa che si penserà assieme quello che da soli non si riesce a pensare.
Riteniamo che questo dia forza al dispositivo MF che permette, nel solfeggio tra pubblico e privato, di incontrare qualcosa che non si immaginava nemmeno, qualcosa di estraneo e sorprendente e che al tempo stesso riguarda profondamente tutti i partecipanti.

I racconti di storie vere e coinvolgenti, che fanno capo all’esperienza diretta di chi gli espone, possono suscitare in chi ascolta una ridda di letture ed interpretazioni razionalizzanti col risultato di allontanare chi parla dal gruppo trasformandolo in oggetto, impoverendone, aggressivamente, la soggettività.

Ci pare che questa tendenza vada sorvegliata e scoraggiata spostando l’attenzione del gruppo su altre esperienze personali, evitando così la solitudine della razionalizzazione.

I TRANSFERT MULTIPLI

Citiamo Badaracco: “a cambiare in tale setting è anche la modalità del transfert che si trasforma in transfert multipli, ovvero corrispondenze degli altri in noi. Il transfert psicotico viene diluito in transfert multipli e ridotto di grado emotivo a causa della presenza di tante entità nelle quali proiettare parti di sé”.

Il contenitore gruppale consente, quindi, “di sciogliere e ridistribuire”, tra i vari membri del gruppo, la potenza dei transfert psicotici dissociativi, che possono essere reintegrati e rielaborati con una minore carica emotiva.
I transfert multipli garantiscono, inoltre, il collante del gruppo e sostengono le identificazioni reciproche e i movimenti di individuazione.

Crediamo però che debbano essere maneggiati con molta delicatezza per non cadere troppo facilmente in una oggettivante seduzione interpretativa.

CONCLUSIONI

Vogliamo sottolineare, in conclusione, che il modello di Badaracco non deve essere inteso unicamente in relazione alla tecnica applicativa che si esprime nel GMF.

Riteniamo, infatti, che debba essere appreso anche per l’importanza esplicativa dei fenomeni che osserviamo nelle patologie gravi e non solo.

Crediamo, in altre parole, che Badaracco ci abbia lasciato in eredità una teoria della psicosi e delle patologie gravi che può anche estendersi ad altre condizioni di sofferenza che hanno prodotto nei nostri pazienti, in diversa misura, un ostacolo a pervenire ad una individuazione sufficiente e necessaria a strutturare un’identità propria.

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