Vaso di Pandora

Il corpo testimonia la nostra relazione con il mondo

Il corpo è testimonianza, storia, della nostra relazione con il mondo.
Il corpo è il campo, la storia della relazionalità, dell’incontro con “l’altro” (da noi) attraverso:
a) lo sguardo, b) la pelle, c) il corpo intero o le sue parti.

Per sempre siamo esposti allo sguardo (nostro ed altrui) che sempre richiama la dipendenza originaria, la dipendenza originaria dal desiderio e dalla creatività di chi ci ha allevato… desiderio gustoso, piacevole o piuttosto desiderio opaco, forse distratto o desiderio penetrante, proiettivo e quindi poco rispettoso dell’altro. In realtà noi ci costruiamo sul contatto, sullo sguardo e su come gli occhi “materni” ci restituiscono la nostra immagine, da lei vista e soprattutto vissuta.

Il contatto fisico è quindi la prima esperienza di attaccamento e si concretizzerà nella creazione graduale di un’immagine corporea, del Sé Corporeo, di un modello operativo interno che, iniziando come regolazione di esigenze fisiologiche, diviene regolazione dei nostri modi cognitivi ed affettivi di essere “al e nel mondo” fino a raggiungere una propria identità.

Ricordo come quanto cerco di comunicarvi sia oggi sostenuto da un lato dagli studi sull’attaccamento, sull’Infant Research, sui correlati neuro biochimici che influenzano il nostro funzionamento mentale, dall’altro dagli studi sui Neuroni Mirror e sulla simulazione incarnata, dove la scuola italiana con Rizzolati e Gallese a Parma è riferimento mondiale.

Allora noi veniamo dall’esperienza originaria della corporeità relazionale, condivisa nella diade madre (o chi per essa) – bambino. Alla nostra origine quindi vi è un modello di imprinting, psicosomatico, di “Dipendenza Psicofisica”.

Ideale è l’esperienza di essere contenuti e guardati con piacere reciproco da una madre, o chi per essa, affettuosa e grata per il piacere che noi neo-nati le diamo; è il concetto di madre specchio di Lacan ma anche di Winnicott, specchio benevolo caldo, morbido che ci ama comunque e sempre. Potremmo parlare di una “Distorsione Benevola Materna”, da intendere oggi in termini soprattutto ambientali e non solo strettamente legata alla mamma biologica… anche se…?

Distorsione Benevola che, se avremo avuto la fortuna di viverla, diverrà un mediatore sicuro che sosterrà le nostre esperienze psicosomatiche e relazionali, nel percorso di tutta la vita.

Ricordo peraltro come il cucciolo d’uomo fisiologicamente sia il cucciolo che resta più a lungo dipendente dall’entourage famigliare e sociale; noi, animali imperfetti perché non mossi del tutto dall’imprinting dell’istinto, non siamo del tutto predeterminati e quindi dipendiamo dai nostri mondi e dalle esperienze relazionali nel nostro divenire umani.

Alessandra Lemma, direttrice presso la Tavistock Clinic dell’Unità Psicologica della terapia delle patologie dello sviluppo, ricorda come “le forme più compulsive ed estreme di modificazione corporea riflettano una difficoltà ad integrare questo fatto basilare e naturale: non possiamo fare nascere noi stessi, abbiamo bisogno di essere nutriti ed allevati”. E qualcosa di più… abbiamo bisogno di essere visti, riconosciuti con desiderio!

“Siamo esseri guardati nello spettacolo/specchio del mondo “, ricordava Lacan.

Per Lacan, ricordava Cristiana Cimino nel seminario che si è svolto presso “La Tolda” nel 2014, il corpo non è mai solo il corpo biologico perché il linguaggio, soprattutto il linguaggio dell’inconscio, hanno effetto su di esso. Per strutturare il corpo, in quanto simbolico − diceva la Cimino − la funzione dell’altro è quindi essenziale.

Quando l’Altro ed il corpo, come spazio psicosomatico e simbolico personale ed interpersonale , vengono negati resta un vuoto abissale, autarchico, un vuoto comunque mortifero, che può essere riempito, quasi come una forma estrema di autoterapia, da un DCA, soprattutto dall’Anoressia , dove − scrive ancora Lacan − viene creato un corpo “fallico” che esclude l’altro, esclude il femminile in quanto oggetto/soggetto d’amore. Esse così diventano autarchiche, senza desiderio, e cercheranno di vietare l’accesso (Polacco Williams ed il meccanismo di “vietato l’accesso”), non solo al cibo ma ad ogni scambio affettivo e desiderante con il mondo e soprattutto con il proprio femminile.

Non è tuttavia facile, soprattutto oggi, nell’era della globalizzazione e del consumo, integrare il corpo nell’esperienza soggettiva di chi siamo, perché esso testimonia comunque la nostra dipendenza, il nostro umano limite. Dobbiamo, crescendo, tollerare che l’immortalità e l’autocreazione non sono alla nostra portata. Nell’era postmoderna, invece, i corpi sono spesso sostenuti da fantasie “autocreative”, di modificazione continua e sempre possibile, fantasie che sono vere sfide al “limite”, alla materia, forse anche alla mortalità.

Per Susy Orbach, storica studiosa americana del corpo e delle sue patologie alimentari, globalizzazione e consumo promettono corrispondenze perfette anche attraverso corpi perfetti; Ella propone l’immagine di un consumatore onnipotente che mira ad un corpo sempre perfezionabile e autocreabile, non più veicolo di passioni vitali ma un corpo prodotto, costruito: i tatuaggi totali, il corpo scarnificato, il corpo anoressico, il corpo dilatato all’inverosimile dei grandi obesi ma anche un corpo prodotto che insegue ideali di bellezza totalmente idealizzati e, per questo, mai raggiungibili e mai appaganti.

Nomino qui anche quei fenomeni sociali e culturali, legati a modifiche, corporee che si pongono coscientemente come modelli culturali alternativi:
– il movimento dei Body Modifiers che si rivolge al corpo come spazio per esplorare l’identità e modificarla;
– La Body Art, con tatuaggi, piercing e performances anche estremi;
– I Cyber Punk che producono alterazioni somatiche individualizzate;
– Esponenti Queer, per i quali intervenire sul corpo, anche con pratiche estreme, rappresenta un gesto politicizzato contro l’omonimia della cultura unica, soprattutto sessuale e sull’identità di genere, con il fine di ridisegnare lo statuto del corpo e dei canoni schiavizzanti del Bello, prima da me descritti;
– I trasgender che “reinventano ” il corpo per adeguarlo al Sé.

Ecco allora anche il “Mostruoso”, come alterità sovversiva che rende il corpo altro, drammatizzazione di un gesto politico contro i pregiudizi sociali.
Purtroppo la cultura-consumo dell’immagine assimila facilmente anche questi fenomeni, cercando di banalizzare ogni spinta, anche dura al cambiamento, in una dimensione estetizzante, un po’ fine a se stessa, ahimè omogeneizzata dalla commercializzazione di massa.

Resta comunque per tutti il mito, peraltro antico, di reinventare, attraverso il corpo, il proprio Sé, negando le perdite, i lutti, forse anche le fasi della vita, negando soprattutto la fisiologica, inevitabile, originaria dipendenza: mi sembra emergere allora un confine labile con le patologie di chi vuole essere “autore” della propria identità e del proprio corpo, come ad es. nell’anoressia restrittiva.

Accenno qui solamente a quella clinica contemporanea che va dall’ansia per il proprio aspetto al disturbo dell’immagine corporea, al dismorfofobismo corporeo, alla funzione della clinica estetica “ostinata”, ai tatuaggi estremi ed alla scarnificazione fino ai nostri DCA.

Sono comunque tutte pratiche di modificazione corporea, da un lato per ridurre l’angoscia di frammentazione dall’altro come paradossale forma evolutiva del Sé; quando, come abbiamo visto prima, assumono forme collettive di appartenenza esse daranno l’aiuto, il sostegno di un’identità di gruppo.

Il corpo è sempre e comunque fenomeno sociale, è corpo sociale, connotato dal genere. Non esiste in realtà un corpo del tutto e solo naturale. Allora il corpo, il nostro corpo, racconta anche la storia, le vicissitudini, di questo conflitto interno primario tra fisiologica dipendenza e slancio vitale verso l’autonomia.

In realtà Winnicott ci ricorda come il bambino possa vivere il proprio Sé, la propria essenza psicosomatica, come amabile ed il proprio corpo come accettabile, solo se avrà vissuto l’esperienza dello sguardo e più in generale della holding materna come funzione benevola, anche reciprocamente gustosa ed affettuosa di accoglimento primario. Questa esperienza, se positiva, costituirà la base sicura − scrive ancora Winnicott − che ci accompagnerà per tutta la vita.

Si tratta di sensazioni somatiche legate a come la mamma, o chi per essa, tiene in Sé il corpo del bimbo, ovvero lo vede, lo sente, lo porta nella mente, come uno specchio che gli restituirà, via via, un’immagine del suo corpo piacevole e “degna” di amore .
Possiamo chiamare questa situazione relazionale primaria, rifacendoci ancora ad Alessandra Lemma, l’accoglienza psicosomatica amorosa: essa costituirà la “base sicura” di tutto lo sviluppo di cui scrive Winnicott, la base di quello che le moderne teorie dell’attaccamento definiscono Attaccamento Sicuro.

La percezione, l’esperienza psicosomatica del nostro corpo si formano quindi nella vita interpersonale e intrapersonale, soggettiva e sociale e costituiscono peraltro, attraverso l’esperienza dell’Accoglienza Psicosomatica Amorosa, la base della umana dimensione dell’empatia.

Il corpo porta inevitabilmente le “tracce” di questo percorso, essendo il luogo del limite intersoggettivo, crocevia delle relazioni, territorio dell’interiorità ma anche del territorio dell’alterità, testimone appunto di come l’alterità si è fatta e si fa nostra pelle. Lì, su questa superficie, è scritto, segnato, l’incontro tra storia individuale e storia sociale di ognuno di noi.

La relazione tra modelli mentali introiettati come quelli di attaccamento, esperienze diadiche primarie, esperienze relazionali successive costituiranno i nostri mondi/modelli di funzionamento intra ed interpersonale, modelli inevitabilmente influenzati dagli assetti culturali ed economici prevalenti: questo insieme complesso di relazioni produrrà i Corpi/Mente di questo periodo storico che solitamente chiamiamo postmoderno.

L’Io − scrive Freud (Io e l’Es) − è una proiezione mentale sulla superficie del corpo perché l’Io si costituisce − ricorda sempre Freud − a partire dall’esperienza psicologica della pelle, della superficie del corpo.

L’esperienza della pelle porta in sé la prima esperienza del confine tra mondo interno che si va costituendo e mondo esterno.
L’esperienza sulla e della pelle “media” le prime relazioni oggettuali e la prima esperienza di Sé.

Fu Esther Bick ad evidenziare la funzione psicologica della pelle come holding, contenimento ed infine come involucro psichico: la pelle, infatti, tiene insieme le parti originarie, in fieri, della personalità, parti che originariamente non sono differenziate dal soma!

Ella evidenziava due possibilità per il lattante: a )il senso di coesione; b) il senso di dissoluzione.

Abitualmente il neonato “introietta” la funzione materna di contenimento che permetterà la creazione di uno spazio interno.
Anzieu proporrà il concetto di Io Pelle come involucro psichico legato al buon accudimento materno: coccole, nutrizione, manipolazioni affettive sul corpo del bimbo.
Così – scrive − il bimbo acquisirà la percezione di uno spazio interno delimitato dalla pelle.

Se questo processo non funziona il bimbo “produrrà ” una Seconda Pelle per contrastare la percezione angosciosa di avere una pelle fragile e/o piena di buchi.

A questo proposito Rosenfeld scrive di:
a) narcisismo a pelle spessa, a corazza, così spessa da non accorgersi quasi dell’altro da lui;
b)narcisismo a pelle sottile, facilmente intaccabile dalle ferite narcisistiche (Frances Tustin ed autismo a corazza ed a mollusco).

Così queste difese arcaiche andranno costruendosi nelle persone precocemente traumatizzate, umiliate, mortificate, controllate sadicamente nelle prime relazioni con il mondo.

Per gli autori si tratta di una forma di pelle mentale che produrrà imprinting di autogenerazione protettiva contro il terrore di esistere senza confini, senza alcun riconoscimento dell’esistere nel mondo.

Certamente vi è una forte relazione quindi tra sintomo, attitudine anorettica e il femminile, il godimento femminile: ho solo accennato ad alcune ipotesi ma credo che dobbiamo anche tollerare di non sapere, di non comprendere tutto, tollerare che questo è un campo in cui − come ricordava tanto tempo fa E. Kestemberg − ci confrontiamo sempre con l’irraggiungibile, la mancanza, il limite… umano limite ( il limite e la dipendenza dall’altro fisiologici).

A questo proposito, ricordo Sigmund Freud che, all’inizio degli anni trenta, confessa che del desiderio delle donne non ha capito nulla: c’è qualcosa che sfugge al suo sapere, sapere di uomo peraltro, qualcosa di più radicale che mette in discussione profonda la sua stessa concezione dell’Edipo.

Probabilmente non esiste la “donna”, (come) archetipo materno, come concetto della legge edipica, ma esistono le donne, ognuna suo modo, a seconda delle esperienze della vita e dell’esperienza del “femminile” di ognuna di loro: questo le rende perturbanti, quando appunto non assumono l’archetipo e le tradizionali richieste nei loro confronti, perturbanti ed in fondo incomprensibili soprattutto agli uomini. Le singole, irripetibili, donne non rientrano mai del tutto nella norma, nella aspettativa della regola edipica, che è comunque regola del padre/degli uomini. Come vediamo anche oggi, in molte parti del mondo e forse anche ed ancora nel nostro mondo occidentale, l’uomo cerca di far tacere il perturbante che il “femminile” può provocare.

Concludo ai confini della patologia e accenno al nostro lavoro terapeutico comunitario nel quale dobbiamo, e possiamo, guardare soprattutto al vettore del cambiamento dal “Dentro al Fuori”, favorendo e sostenendo le trasformazioni terapeutiche come re-invenzioni creative di Sé, riattraversando con i nostri pazienti i territori della dipendenza negata, della colpa nella separazione, della dipendenza fisiologica accolta finalmente come benefica nell’accettazione dell’aiuto e del rapporto dialogico con “l’altro da noi” verso la vitale autonomia, verso la capacità di avere finalmente cura affettuosa di Sé.

Insomma, al di là delle diverse modalità e tecniche terapeutiche impiegate, sarà fondamentale nel nostro lavoro esercitare con i nostri pazienti una temperata, quindi non cieca o esagerata ma sempre tenace, distorsione benevola che si leghi alla speranza e rifugga il pessimismo malevolo.

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