Vaso di Pandora

I duellanti, psicosi e psichiatria e la costruzione della cronicità

L’idea più radicale dell’antipsichiatria è certamente quella che sostiene che la malattia mentale altro non è che la conseguenza di ambienti di cura alienanti, oppressivi, che calpestano la dignità degli individui. Basta chiudere i manicomi che la follia scomparirà. È anche l’idea meno dichiarata, quella su cui pochi psichiatri si sono mostrati pronti a scommettere. Basaglia, non a caso, ha lasciato tra parentesi il problema della malattia, disimpegnandosi con abilità politica dalla questione più spinosa su cui poteva ferirsi la sua proposta. Di Laing, che con Cooper più di tutti ha contribuito alla costruzione del pensiero antipsichiatrico, si è detto molto. A partire dai sui problemi familiari, una madre sofferente, una sorella psicotica internata a lungo, e non ultimo i sui problemi con l’alcol. Meno sulla concezione di fondo del suo pensiero. Un noto sito italiano(www.sospsiche.it)sostiene che “Forse le più bizzarre, confuse ed obsolete teorie sulla schizofrenia sono quelle dello psicoanalista inglese R.D. Laing. Laing promosse l’idea che la schizofrenia è una risposta sana a un mondo malato e che può anche essere una esperienza di crescita, una idea piuttosto romantica e senza senso che fu fatta propria negli anni ’60 da molti radicali”.
Ma, a parte l’apparente facilità con cui sono state criticate le sue idee, che sul piano clinico non hanno avuto significativi campi di applicazione, c’è da notare che alcuni aspetti del suo pensiero sono finiti, a mio modo di vedere impropriamente, nei movimenti antimanicomiali più ideologici, oppure, ancora più confusamente, nelle sempre più diffuse ed infinite manifestazioni di elogio della follia, tipo il matto è buono, siamo tutti un po’ matti, matto è bello, matti per il calcio, per la vela, per il cavallo, per la bici, la corsa, per questo e per quello.

Eppure, del pensiero di Laing ritengo che siano ancora presenti tra noi pezzi importanti, significativi sul piano clinico, e che andrebbero riconsiderati a fondo.
Laing scrive l’Io diviso a 28 anni, già vede con chiarezza i contendenti e la lotta.

Una breve storia
Un giovane viene segnalato al CSM per comportamenti bizzarri. Ha rivestito la stanza di carta stagnola, schermato le finestre, rifiuta il cibo di casa e si nutre di scatolette. La madre sostiene che tutto è conseguenza del cattivo rapporto che suo figlio ha con il padre. Invitati al gruppo di psicoanalisi multifamiliare, che da diversi anni era attivo in quel servizio, in pochi incontri dipingono il quadro. Tutti e due i figli mostrano stranezze, il padre li ha seguiti molto, fin da piccolissimi, con amore e durezza, cercando di inculcare loro una educazione marinaresca, militare, basata sulla forza, il coraggio, l’ambizione, lo sport. La madre ha cercato di compensare con una tenerezza segreta, affetto smisurato e mille attenzioni, cibo, denari, protezione. Mentre si compone il quadro il giovane passa all’azione e durante una lite scaraventa il padre dalle scale con violenza e rabbia, provocandogli una frattura e molte contusioni. Durante l’intervento delle forze dell’ordine dichiara di volere essere arrestato. Viene invece portato in ospedale e ricoverato in spdc. Lo vado a conoscere. Sveglio, occhi veloci, un bel sorriso, lucido, pieno di rabbia. Dice che ha fatto mille pazzie per difendersi dal padre che sentiva arrivargli dentro con tutti i mezzi. Ora ha finalmente fatto la cosa giusta. Si è ribellato. Non capisce perché è in ospedale e non in carcere.
Lo rivedo dopo due settimane, in una clinica romana molto nota, peraltro a pochi passi dal vecchio manicomio. È diventato uno schizofrenico tipico: passivo, bloccato, pensiero disorganizzato, qualche delirio senza affetto. Se lo avessi conosciuto solo allora non avrei avuto alcun dubbio. Il mix che lo pervade è rassegnazione, “non posso fare niente, sono colpevole”, e aloperidolo, ad alto dosaggio.


A parte il fatto che di tanti casi gravi, molto gravi che ho seguito, quello di questo giovane, che tuttora a distanza di quindici anni continuo a vedere, è abbastanza risolto. Direi una recovery con svincolo familiare incompleto, funzionamento lavorativo, appartamento con supporto riabilitativo. Tuttavia sullo sfondo resta comunque una cronicità.
Di che natura è, cosa si è cronicizzato della sua malattia?
Spesso i pazienti quando stanno male, nel senso che manifestano i sintomi, sembrano più vivi, reattivi, fanno cose matte ma non sembrano davvero matti. Devi scavare per trovarla, la follia. Devi quasi provocarla, come gli impulsi folli di Frances (Graeme Clifford 1982), di Betty Blue (Jean-Jacques Beineix 1986). Altrimenti non la vedi. Poi quando la trovi, la follia emerge e a quel punto mostra gli artigli. E la psichiatria i suoi. Inizia la lotta.
La follia vuole il primato assoluto sulla personalità, non può lasciare spazi. Non è come quella bella follia che ci fa andare a largo anche se il mare è mosso, ci fa guidare tutta la notte, come cantava Bruce Springsteen, fa sognare l’impossibile, disegnare girasoli, costruire figure mitologiche in cui si può abitare, come fece Niki de Saint Phalle. Quelle sono belle follie, transitorie, intermittenti,in dialogo con la ragione, con il pennello ed i colori. La follia che viene fuori dai nostri pazienti, quando si libera, è totalizzante, non dà tregua. Ma la domanda che sorge spontanea è: sono follie diverse o ci confrontiamo con la stessa radice, che poi sviluppa in direzioni diverse a seconda del tipo di terreno che incontra?

Di Van Gogh non serve dire nulla. La De Saint Phalle fu ricoverata a 22 anni. Le fecero decine di ESK, farmaci, era indomita, ribelle, incontenibile. Quando guarì, grazie all’arte secondo lei, disse che nessuno, curanti e familiari, se lo aspettava. Ci sono moltissimi esempi illustri. Ma anche storie che vanno male, come quella di Syd Barrett, il genio dei Pink Floyd, che pure fu visitato da Laing, che non riusci a fare molto. Ricordo che da qualche parte ho letto che a proposito di quel paziente illustre, accompagnato nel suo studio da Roger Waters, disse che ormai era troppo malato, era troppo tardi.

L’idea che cerco di portare avanti con questo scritto è che la follia cerca sempre un duello, una disputa, un cavaliere nero da sfidare, diceva Proietti in una celebre barzelletta. E che la psichiatria sembra bene attrezzata per farlo. Alza subito i pugni. Contro la madre, la famiglia che ha fatto impazzire il nostro giovane paziente, o contro la droga, oppure i geni, o i farmaci, la cattiva psicoterapia, le cattive abitudini, i traumi, la povertà, persino la sfortuna. C’è sempre un nemico da abbattere, un sintomo da inibire, una mano da legare, o più affettuosamente, da stringere forte. Durante il duello con la psicosi si costruisce il legame. Con chi, con la persona o con la malattia? E il duello perde senso nel tempo, a volte bastano due settimane e si perde la ragione della disputa, diventa fine a sé stesso. Cavaliere bianco contro cavaliere nero, Gabriel Feraud e Armand D’Hubert, i Duellanti di Conrad, costretti a vivere una ripetizione continua, mortale, di scontri con una ragione che è altrove e ormai dimenticata. Follia e psichiatria stretti stretti, l’una che alimenta l’altra, la follia che dà lavoro ai suoi servitori, come diceva Zapparoli.
Per questo mi piace l’idea del Open Dialogue, mai ingaggiarsi da soli, curante e paziente. E ancora di più la Psicoanalisi Multifamiliare, il grande gruppo che cura, che cerca la follia dove realmente sorge, tra le persone, tra le generazioni, ricostruendo con le persone coinvolte il senso e il soggetto. O ancora una psicoanalisi onesta, dove chi cura è il terzo, la creatura che nasce dall’incontro amoroso tra analista e analizzando, come la vedono Ogden e Benedetti.
Allora, tra tante teorie, ipotesi, strategie, procedure, setting, una semplice idea mi torna in mente. Come distrarre la vecchia psichiatria da sé stessa, dalle sue radici violente e guerresche. Gianni Giusto, uno psichiatra di comunità, sostiene l’idea della fattoria terapeutica. Ma a lavorare la terra, a spalare il letame, non ci vanno i pazienti. Ci vanno gli operatori. Si distraggono così, forse, dalla loro psichiatria, e i pazienti, forse, li seguono meno ingaggiati nel duello, si distraggono anche loro dalla psicosi, e così, forse, si possono costruire legami tra le persone, non tra tecnici e malattie, e così forse anche guarigioni, non cronicità. Per questo dobbiamo distrarci, guardare altrove, alla natura, all’arte, al vento, alla montagna. Questo serve alla psichiatria, uscire da sé stessa. E la psicosi che incontrerà, molti già lo sanno, avrà altre sembianze.

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Commenti su "I duellanti, psicosi e psichiatria e la costruzione della cronicità"

  1. Ci vanno gli operatori. Si distraggono così, forse, dalla loro psichiatria, e i pazienti, forse, li seguono meno ingaggiati nel duello, si distraggono anche loro dalla psicosi, e così, forse, si possono costruire legami tra le persone, non tra tecnici e malattie, e così forse anche guarigioni, non cronicità. Per questo dobbiamo distrarci, guardare altrove, alla natura, all’arte, al vento, alla montagna. Questo serve alla psichiatria, uscire da sé stessa. E la psicosi che incontrerà, molti già lo sanno, avrà altre sembianze.
    Eccellente , magnifica intuizione , diametrale rispetto al tradizionale ; asse lavoro

    Rispondi
  2. Un Dettaglio Divino
    Perché il “paziente” possa “guarire” cioè perché dal guardare possa passare al vedersi vedere deve prendere atto della esistenza di un – più di godere- cioè di cosa il – pomodoro- , che qualcuno coltiva, necessità e per questo passaggio ,non naturale , definibile anche castrazione si deve necessariamente fare i conti con il Reale e questo travagliato movimento non si impara con l’esperienza ne con la ripetizione e nemmeno si può programmare senza la presenza del soggetto anzi se lo si trascura il fantasma trionfa e annega nel godimento senza legge cosa di cui i pazienti invece sono espertissimi ed abilissimi politico-diplomatici. Basta ricordare il buon Ignác Fülöp Semmelweis il problema non si risolse semplicemente guardando come faceva, l’ostacolo vero era nelle persone non nelle cose. Cose che si possono disporre come si vuole o si vorrebbe o si pensa devono essere ma non influiscono nemmeno un pochino sul cambiamento intendo quello strutturale perché ,dicevano i suoi colleghi, che un aristocratico è pulito per natura . Il Dettaglio Divino è quello di cui l’Operatore deve aver contezza ovvero sapere per bene che posto occupa ovvero cosa è per l’altro… ecco deve avere la coscienza di essere il sembiante dell’Agalma .

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  3. Articolo che apre uno spazio al pensiero libero che permette di navigare in Mari in burrasca con l’idea di poter tornare in porto
    Per essere buoni psichiatri sembrerebbe allora utile essere in grado di rinunciare a pregiudizi e non essere troppo condizionati da. Teorie variabili che ingabbiano
    Un riferimento forte alla libertà di pensiero e di prospettiva che Bion ha più volte sottolineato .
    Lo stesso hanno fatto in tempo più recenti Conforto Petrella e Zapparoli

    Rispondi

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