I temi divisivi che interessano e coinvolgono prepotentemente l’opinione pubblica suscitando legittime emozioni sono in questo momento: la pena immediata, severa e certa per chi spaccia droga e “vende morte” e la pena ridotta a colui che ha ucciso la fidanzata (ex?) perché a detta dei giudici della corte di appello in preda ad una tempesta emotiva.
Per entrambi i casi si elicita una risposta che fa riferimento alla pena esemplare ed in quanto tale certa, indiscutibile, inappellabile, addirittura vendicativa.
Semplice e lineare oltre che immediata; in tal senso ineccepibile.
Le cose si modificano quando invece della foresta, come diceva con una metafora azzeccata un mio vecchio maestro, ci si sofferma sul singolo albero e con esso si fanno i conti.
In tal caso le cose si complicano e necessitano di strumenti di pensiero più raffinati ed articolati che possano cogliere le contraddizioni intrinseche a relazioni affettive complesse sia nel caso si tratti di sostanze stupefacenti che di persone.
Mi verrebbe da dire che bisogna, prima di dare giudizi trancianti, valutare il contesto in cui l’azione si svolge per evitare che la pena generi ulteriore danno, non solo a chi la subisce, ma anche al tessuto sociale in generale.
Penso che bene lo abbiano fatto i giudici nei confronti dell’omicidio della fidanzata, perché non hanno assolutamente riesumato il delitto d’onore come qualcuno pretestuosamente ha pensato, ma inserito il ragionamento in una valutazione complessiva delle risorse emotive dell’omicida e anche del rapporto con il suo oggetto d’amore dal quale non tollerava il distacco se non a rischio della vita di entrambi.
Con pochi elementi il mio intervento vuole essere solo una suggestione che favorisca un pensiero sui limiti umani e sulla necessità di non semplificare eccessivamente.
D’altronde neppure un eccessivo e falso buonismo che accondiscenda ad invertire i valori etici e morali contribuisce ad una risposta riflessiva sui nostri bisogni.
sono d’accordo con Gianni, sono donna altrettanto sensibile alle tempeste emotive che possono travolgere ed altrettanto sicura che una pena debba esserci ma possa tenere conto della persona uomo o donna che sia e che le semplificazioni gli slogan aiutino solo a non pensare e a far del danno.
Hai toccato un grosso tema. Mi ha fatto venire un mente un istruttivo racconto, non ricordo di chi (ah, l’età…), ma il tema sì. Il protagonista ha il privilegio di assistere al Giudizio finale sui trapassati: inferno, purgatorio o paradiso? Dio è presente, ma non da Giudice bensì come testimone: come tale è attendibilissimo perchè onnisciente, ma proprio perciò non può nè vuole giudicare, conoscendo ogni risvolto di ogni evento.
Amministrare quella che chiamiamo giustizia è compito necessario ma improbo, e chi lo deve svolgere per professione ne sente, o dovrebbe sentirne, il peso. Eppure c’è chi se lo assume gratis e volentieri, “sentendosi come Gesù nel tempio” (De Andrè). Farlo aiuta a sentirsi “dalla parte giusta”, con operazione scissionale rassicurante.
Di primo acchito mi vengono in mente queste considerazioni …. tanto per riflettere…. Esiste una legge acefala che si applica meccanicamente che fa dei registri della parola un tutt’uno e stabilisce o sei nella legge o sei fuori, dove c’è un al di là diviso nettamente separato da un al di qua un esempio attualmente è quella del “mercato” cieco che segue una logica inumana , c’è un’altra legge quella simbolica che permette la convivenza e che da un taglio all’immaginario ma ammette il “perdono” e considera gli aspetti contestuali ed è una legge umanizzata , c’è anche una legge che è in perfetta armonia con il desiderio e non considera il sacrificio come soluzione ed è uno degli effetti della Analisi ed è la legge… dell’uomo… ma per fare questa distinzione occorre anche che l’immaginario non si confonda con il simbolico e nemmeno con il reale altrimenti…accade che datosi che ho perso il lavoro , ho perso il portafoglio , mi hanno rubato la valigia sono in condizioni di confusione mentale tale da non sopportare più le frustrazioni e siccome questo stato d’animo era presente al momento dell’incidente d’auto ne certifica una attenuante anzi e se per caso mi insulta, una colpa dell’altro se lo ho ucciso con un cacciavite ….e’ molto pericoloso traslare le risultanze di una interpretazione che è sempre frutto di un immaginario nel reale. E’ un po’ come sovrapporre il discorso manifesto del sogno con il discorso latente le conclusioni sulla responsabilità del sognatore sarebbero stravaganti….. guai a sognare di uccidere il padre…bisogna avvisare le forze dell’ordine?
Al profano medio che poco o nulla capisce di giurisprudenza e atti giudiziari vari può effettivamente apparire aberrante la sentenza in questione. Adesso non voglio entrare nel merito del caso specifico perché non conosco a fondo le motivazioni della sentenza e non sono un tecnico giuridico. Tuttavia, quel poco che ho letto mi lascia un tantino perplesso da profano e mi dà soltanto l’opportunità di estrapolare qualche riflessione di respiro più generale. Ora esaurito il “contesto” in cui mi muovo, se tengo conto di questo fatto e di altri di natura simile del recente passato, potrebbe effettivamente sembrare (o quantomeno sembra a me) che il “delitto d’onore” a suo tempo uscito a forza dalla porta stia rientrando quatto quatto dalla proverbiale finestra, seppure sotto spoglie un tantino mentite. Nella sentenza, si spiega che la decisione di dimezzare la pena al reo deriva in primo luogo dalla valutazione positiva della confessione. Inoltre, si legge nell’atto, sebbene la gelosia provata dall’imputato fosse un sentimento “certamente immotivato e inidoneo a inficiare la sua capacità di autodeterminazione”, tuttavia essa determinò in lui, “a causa delle sue poco felici esperienze di vita” quella che il perito psichiatrico che lo analizzò definì una “soverchiante tempesta emotiva e passionale”….Una condizione, questa, “idonea a influire sulla misura della responsabilità penale” (dall’ergastolo, poi ridotto a 30 anni per il rito abbreviato si è passati ai 16 anni per quello che sembra un brutale omicidio avvenuto dopo una lite tra due persone che si frequentavano da poco). Qualcuno sa per caso se la “soverchiante tempesta emotiva e passionale” addotta dal bravo perito psichiatrico sia un nuovo o più vecchio istituto giuridico da affiancare possibilmente a quelli più noti che trattano “dell’infermità mentale” o “dell’incapacità di intendere e di volere”? O si tratta soltanto di un “invenzione” oserei dire quasi “letteraria” del bravo perito psichiatrico? Vabbè che il bravo giudice alla fine decide in piena autonomia com’è noto, senza farsi condizionare da suggestioni che non siano di natura prettamente giuridica (?????) ma il profano si dice (a se medesimo): o – la gelosia provata dall’imputato è un sentimento “certamente immotivato e inidoneo a inficiare la sua capacità di autodeterminazione”, o la gelosia – determinò in lui, “a causa delle sue poco felici esperienze di vita” quella che il perito psichiatrico definì una “soverchiante tempesta emotiva e passionale…“idonea a influire sulla misura della responsabilità penale”. Ora a me sembra un tantino contraddittoria la formula. Boh! O forse bisognerebbe intendersi sul significato di “autodeterminazione”. Non so, sinceramente non mi convince granché ‘sta storia della “tempesta emotiva e passionale” avanzata (?) dal perito psichiatra che sembra aver voluto mettere insieme Shakesperare e Goleman in un sol botto che verosimilmente la dice più lunga sulla cultura umanistica del perito cui va tutta la nostra solidarietà in quanto anche noi sperticati sostenitori del “tempestoso” bardo inglese e del più moderatamente “emotivo” Goleman. Spero che simili elucubrazioni non mi facciano passare come rappresentante emblematico del solito bieco senso comune e giustizialista che affiora tradizionalmente tra la media della popolazione. Non ci tengo proprio a questo onore. Ma tanto per chiacchierare, non sottovaluterei nemmeno una forma di “giustizialismo del senso comune all’incontrario”. Il senso comune di quelli che – se non puoi battere l’avversario fanne proprie le tattiche e le strategie e i termini e gli slogan -. Allora ecco che torna buono il concetto di “contesto” o di “ambiente” o “milieu” pure, tipico dei fautori dell’ambientalismo in psicologia o comunque di tutti i sistemici sfegatati ad oltranza. Però questa volta i termini vengono utilizzati impropriamente e soltanto per provare a giustificare certe azioni e diminuire le responsabilità eventuale del singolo. Anche le sentenze giudiziarie e le perizie psichiatriche soffrono di un certo clima, non sono immuni da un tal “contesto” forse. E il “contesto” in questo caso è quello in cui soffia un venticello che trovo imbarazzante e che lambisce dolcemente le nostre guance ma senza mai sferzarle e allora risulta piacevole persino per le anime meno reazionarie e più “moderate” perché tutto sommato non siamo ancora in una fase di allarme sociale (ma dipende dai punti di vista) e allora anche le coscienze più progressiste sonnecchiano. Il “contesto” generale attuale è quello in cui volentieri “qualsiasi cittadino può farsi giustizia da solo”.
Mi spiego meglio. Questo è il tempo dei “giustizialisti ambientalisti” che si appellano ad un male interpretato senso del “contesto” o “dell’ambiente” o delle “circostanze” (attenuanti) ma soltanto per provare a dare più spazio a certi atteggiamenti davvero privi di qualsiasi crisma contestuale e pregni invece del più bieco individualismo. Si potrebbe definire un “ambientalismo giudiziario” nel senso che si prendono a prestito concetti o elaborazioni tipiche di certa psicologia o di certa sociologia o di certa antropologia per stravolgerli e inserirli in più tipiche dinamiche giudiziarie o processuali. Dall’altra parte certi concetti tipicamente giudiziari tipo il concetto di “infermità mentale” o quello di “incapacità di intendere e volere” vengono utilizzati più o meno inconsapevolmente dal senso comune ma distorcendoli a loro volta. Mi sembra che tante volte ci sia nella politica, nella giustizia e persino nelle perizie rivolte all’accertamento delle condizioni psichiche dell’individuo l’esigenza inconfessata di soddisfare (più o meno inconsciamente) le aberrazioni morali di certo popolare “senso comune”. Quel tipo di senso comune che non necessita di essere accreditato da alcuna teoria scientifica perché sostenuto unicamente dalle ragioni del risentimento e della vendetta o della “paura”.
Allora uccidere per amore è ancora un’idea concepibile, secondo il senso comune tale da meritare uno sconto di pena, dunque. Voglio dire che ancora viene fatta balenare l’idea che in fondo in fondo per amore si possa pure morire ammazzati. Seppure 16 anni, se te li fai tutti, sono pur sempre un bel carico da espiare. Ma non è questo il punto, ovviamente. Mah!
Allora eccoli questi “giustizialisti contestuali” che si appellano al “contesto” per spiegare certe umane reazioni ma che in realtà fanno leva sull’ennesimo mal interpretato senso dell’empatia o dell’Identificazione che acquistano in questo “contesto” tutto il sapore della “regressione difensiva” cioè nascono dal bisogno di “restituire un senso di autostima e di coesione del Sé minacciato”. In sostanza qui l’empatia non vuol dire comprendere il dolore altrui immedesimarsi per dare origine a dei comportamenti morali, ma indossare i “panni più sporchi dell’Altro” allo scopo di autoassolversi preventivamente. Allora si ricorre al bieco escamotage di farci sentire quasi complici. Si tratta del più famoso “chi non ha peccato scagli la prima pietra” che è poi una chiamata di correità speciale a pensarci bene. Allora tu uomo e donna comuni – tu “mettiti nei panni” di quello che improvvisamente si ritrova con un ladro o una banda di ladri in casa e che magari ti violentano pure mogli e figlie. E tu, non gli spareresti volentieri un colpo in testa a scopo non solo preventivo, ma redentivo proprio? – Considerate che il fatto non è ancora accaduto e forse non accadrà mai. Ma è così a livello ipotetico che si discute. – E anche tu mettiti nei panni di quel fidanzato, marito, amante in preda ad un attacco di gelosia. Non saresti anche tu capace di un omicidio in quella situazione parossistica? Suvvia, tutti hanno avuto chi più chi meno una moglie, una fidanzata, una compagna, un amante eventualmente. Insomma una donna. Tutti dovrebbero averne una, si capisce. E subito finisci per sentirti una merdina. E non puoi fare a meno di ripetere a te stesso che “sì…effettivamente bisognerebbe trovarsi in quelle condizioni prima di scagliare la prima pietra”. E siccome può capitare a tutti prima o poi di strangolare mogli, figlie, madri, amanti e compagne assortite oppure potrebbe succedere di ritrovarsi con un ladro stupratore in casa non ti augureresti di avere anche tu un giorno un aiutino, uno sconticino di pena molto “comprensivo”? E così si sono messi sotto i piedi pure la “comprensione”. Come biasimare certi individui per la loro debolezza. Forse anche tu avresti fatto cose come quella che ha subito la malcapitata compagna dell’assassino. Ma se solo pensassi di potermi comportare come lui come potrei condannarlo con sufficiente severità? Sigh!
Gli esseri umani sono bravissimi ad inventarsi i modi più disparati con i quali continuare a sognare l’impossibile o seguitare a dissociarsi dalla realtà. Per opporsi alla terrifica sensazione di mediocrità, di insulsaggine personale, per contrastare l’orribile stupore e agghiacciante di “essere niente” ricorriamo pure all’omicidio a volte. Salvo poi risvegliarci più o meno improvvisamente, più o meno colpevolmente, più o meno capaci di intendere e di volere per “scoprire” che abbiamo compiuto un immane “cazzata”. Non siamo qui per sputare sentenze sull’umanità che è fallace di suo, si sa, né per salvarla eventualmente. Salvare o condannare “l’umanità”, agognare una società giusta e senza droghe eventualmente, prefigurarsi il regno di dio sulla terra non sono proponimenti, né desideri realistici: sono categorie, concetti, astrazioni che rischiano di tramutarsi repentinamente in un’ideologia collettiva che normalmente troverà il suo modo di realizzarsi calpestando le prerogative dei singoli individui. Quindi, non è in termini di giustizialisti o di buonisti che dovremmo ragionare, forse. Il mondo è un tantino più complesso (a proposito di “contesto”) Non bisognerebbe mai in nessun “contesto” sfruttare la prontezza di certi esseri umani a “identificarsi” con l’aggressore invece che con la vittima. “L’identificazione con l’aggressore” (Anna Freud o Ferenczi qui non centrano nulla, non completamente, almeno) avviene proprio paradossalmente appellandosi subdolamente a qualità umane generali (come la compassione, la tolleranza)
Io simpatizzo con le persone, empatizzo con loro e non mi permetto di sputare sentenze sul prossimo perché non posso sapere un cazzo della vita degli altri. E forse neanche un assassinio è un vero assassinio. Si può sempre dare la colpa alle situazioni. Pardon! Al contesto. In fondo anche gli assassini sono delle vittime tante volte. E il confine tra carnefice e vittima e molto sottile tante volte. Ok! Niente da dire. È anche vero che certi esseri umani – sono rimasti fondamentalmente come gli altri animali: obbediscono solo alla loro natura. E allora perché non dovremmo perdonarli? Tuttavia, non si può perdonarli ogni volta che si piegano alla loro natura altrimenti non apprenderanno mai nulla -. È anche così che dalla natura si è passati alla cultura. Alcuni di noi reagiscono ancora secondo il condizionamento pavloviano. C’è della incommensurabile arroganza, un’infinita presunzione, c’è del narcisismo oserei dire quasi maligno nel voler perdonare le persone a tutti i costi o nel volerne a tutti i costi edulcorarne le responsabilità. Rilevo in questo atteggiamento non “amore”, né compassione, ma una sottile forma di disprezzo verso gli altri; colgo anche il pregiudizio irrazionale che nessuno possa avere lo stesso alto livello etico di cui personalmente ci crediamo depositari esclusivi. Il vero narcisista non è colui che si dichiara superiore agli altri sotto l’aspetto etico ma colui che nega agli altri la capacità di approdare a certe vette dell’etica, semmai. Un modo questo per esonerare e deresponsabilizzare tutti. Questo è il “contesto” del “condono” generalizzato. Che è un altro modo più sottile di ostentare la propria presunta superiorità e di detestare cordialmente il prossimo. Io invece non posso perdonare agli altri con dei pretesti ciò che mai al mondo perdonerei a me stesso. Per carità, adesso sei davvero melodrammatico. Voglio dire che bisogna essere indulgenti anche con se stessi quando è il momento di essere indulgenti. E chi decide? Fatti salvi i casi in cui è sufficiente per mondarsi una moderata predisposizione individuale all’introspezione, negli altri casi ci vorrà comunque qualcuno che decida. Bisogna dare ad ogni essere umano la possibilità di rendere conto delle proprie azioni. Questa è l’umiltà! Allora prudenza! Perché il “contesto” è una di quelle variabili che si prestano ad essere rivoltate come si vuole. La giustizia è tale perché è chiamata a giudicare il caso singolo. Il problema eventualmente nasce quando giudici e clinici assumono decisioni e operano scelte in base a considerazioni di tipo generale e generico (categorie, tipologie, concetti, astrazioni). È ovvio che scelte e decisioni non possono non essere guidate in qualche misura dalla personale “formazione-weltanschauung”. Tuttavia, attenzione che – un’inconscia pietas o un normale desiderio istintivo – non ci facciano perdere di vista proprio le persone reali e la loro sofferenza. Cosa centra questo con il tizio che ha strangolato la compagna? Mah! Com’è difficile per giudici, dotti, medici e sapienti giudicare il prossimo. Questo è il “contesto” in cui reazionari e progressisti ragionano per slogan e paradossalmente finiscono per utilizzare lo stesso linguaggio. Questo è il “contesto” in cui si consumano i soliti discorsi da bar dello sport, niente paura. Psicologia e sociologia d’accatto tutto insieme. Non male vero?