Vaso di Pandora

Cento… ottanta. Psichiatria tra storia e memoria di un ottuagenario (1956-2015)

Introduzione di Bruno Orsini

In questo libro Andrea Arata narra i sessant’anni della sua vita dedicati alla tutela della salute mentale ed alla cura della sofferenza psichica.
Tale suo impegno ha attraversato la seconda metà del novecento, “secolo breve” per il grande storico Hobsbawm, ma secolo lungo, anzi lunghissimo per l’evoluzione e lo sviluppo culturale della psichiatria.
In tale arco temporale, infatti, è venuta meno l’interpretazione soltanto organicista della malattia mentale. Si è affermata invece la dimensione psicodinamica e relazionale della psicopatologia, che si è via via dilatata sino a dare spazio all’interpretazione in chiave sociogenetica di gran parte delle manifestazioni della sofferenza psichica.

Tutto ciò ha determinato un radicale mutamento del rapporto tra la società e i malati di mente. Alcuni hanno addirittura voluto “mettere tra parentesi” la nozione stessa di malattia mentale contestandone la nosologia elaborata dalla psichiatria classica.
La preparazione scientifica e professionale di Arata gli ha consentito di attraversare tale temperie avvalendosi della sua triplice qualificazione: quella del criminologo, esperto dei molteplici aspetti della devianza, quella del medico legale fine conoscitore della normativa giuridica civile e penale che regola i rapporti tra sofferenti psichici e società e, soprattutto, quella del medico psichiatra, capace non solo di curare, ma anche di prendersi cura di quanti gli venivano affidati nell’esercizio dei ruoli sempre più rilevanti e gravosi che è stato via via chiamato a ricoprire.

Tutto ciò emerge da quanto egli ci narra sulle vicende affrontate e vissute prima nel contestato manicomio, poi nell’ambito del “servizio psichiatrico ospedaliero di diagnosi e cura” ( SPDC) posto in essere dalla legge 180 e, infine, in quello delle comunità terapeutiche residenziali, il cui sorgere, dagli anni novanta in poi, ha contribuito in misura decisiva alla liquidazione dei residui manicomiali sopravvissuti alla riforma del 1978.
Il libro costituisce un racconto preciso, attento, dettagliato, analitico di questo lungo percorso.

L’autore si attiene quasi puntigliosamente agli accadimenti, descrive vicende, luoghi, persone in successione cronologica e cerca di non indulgere, per quanto possibile, a giudizi e ad interpretazioni generali. Ne risulta un testo somigliante ad un diario, che lascia parlare i fatti.

Tuttavia questo diario narra comportamenti eloquenti: essi ci dicono che l’Autore è stato un riformista fermo, tenace e coerente, che ha colto, sin dagli anni 60 l’inaccettabilità morale, prima ancora che tecnica, del manicomio e che ha operato per superarlo con la necessaria gradualità.
Personalmente posso testimoniare che nelle battaglie che conducemmo principalmente attraverso l’AMOPI contro tutte le discriminazioni che i nostri malati erano costretti a subire, Arata fu costantemente presente anche nella discussione degli strumenti normativi che ci consentirono prima di attenuarle e poi di superarle. Ricordo che egli concorse al dibattito sull’elaborazione delle richieste che l’ AMOPI formulò e che sfociarono nella legge 431 del 1968, la cosiddetta legge Mariotti, che istituiva obbligatoriamente servizi territoriali di igiene mentale , prevedeva ricoveri manicomiali anche volontari, aboliva l’odiosa iscrizione di quelli coatti nei casellari giudiziari, migliorava significativamente il rapporto numerico tra operatori e degenti negli OOPP, introducendo in essi anche figure professionali prima ignorate quali psicologi e assistenti sanitari.

Certamente tale legge, per cui i riformisti si impegnarono con passione, non aboliva la ghettizzazione manicomiale, ma costituiva un passo in avanti significativo verso il nostro grande obbiettivo: superare i manicomi ed inserire i nostri malati ed i nostri servizi nel generale circuito della sanità italiana.

Certo le nostre battaglie riformiste non ebbero la risonanza, la visibilità, lo straripante successo mediatico delle iniziative anti istituzionali della psichiatria radicale, che fruirono del loro obbiettivo collegamento con la contestazione antiautoritaria globale nota come sessantottina.
Gorizia, che visitai con Arata negli anni sessanta, divenne un simbolo, Basaglia un’icona e “l’Istituzione negata”, pubblicata da Einaudi nel 1967, divenne, come i testi di Marcuse, una bandiera.

Noi riformisti e, credo, anche Arata, che fu mio valido successore alla guida dell’AMOPI ligure, eravamo ben lieti che, seppur a prezzo di semplificazioni, spettacolarizzazioni e personalizzazioni, la psichiatria radicale riuscisse a coinvolgere rilevanti aree della pubblica opinione nella battaglia contro i manicomi e, più in generale, contro la ghettizzazione dei nostri malati.

Certamente, però, eravamo consapevoli di una generale differenza di approccio tra chi considerava la psichiatria come cosa altra rispetto alla sanità e alla medicina e chi, come noi, pur rifiutando la medicalizzazione pura e semplice della sofferenza psichica, non intendeva rinunciare alla dimensione sanitaria e quindi anche clinica e, se del caso, anche farmacologica della psicopatologia.

Fu la linea riformistica che, alla fine, prevalse. Infatti, nella seconda metà degli anni settanta riuscimmo ad inserire i servizi psichiatrici nel servizio sanitario nazionale, ponendo così fine alla lunga vergognosa esclusione dei nostri malati e del nostro lavoro dal generale circuito della sanità italiana.

Del resto fu proprio la prospettiva riformista, che rispettava l’utopia ma praticava il realismo, che ci consentì di redigere e di condurre all’approvazione parlamentare la legge 180/78, che collocò i nostri servizi a pieno titolo nel generale tessuto sanitario del Paese e che mutò il rapporto tra i malati di mente e la società italiana. La legge 180, infatti, segnò il passaggio dalla esclusione alla cittadinanza per decine di migliaia di sofferenti psichici e aprì la via a quella psichiatria di comunità senza manicomi che era nei sogni di quella generazione di psichiatri di cui Arata ed io siamo stati partecipi.

Le pagine che il libro di Arata dedica al “trionfo” riformista del maggio 78 sono eloquenti e dimostrano il suo autentico coinvolgimento in quella vicenda che, come egli ricorda, fu accolta con “meno entusiasmo” da alcuni di coloro che, qualche tempo dopo, se ne attribuirono la paternità.

Ma, al di là di queste generali e sintetiche valutazioni, il libro di Arata va letto, pagina per pagina, perché oltre agli aspetti autobiografici, costituisce, davvero, una testimonianza autentica, diretta, veritiera di fatti e persone rilevanti nella vicenda della psichiatria ligure e nazionale.

Personalmente ho rivissuto, attraverso il libro, immagini, ricordi, speranze, battaglie, anche da me vissute, essendo state molte delle mie esperienze coeve a quelle dell’autore.
Giudico significative le pagine dedicate alle vicende manicomiali di Cogoleto e di Quarto che descrivono, con impietosa autenticità, la nostra impossibilità sostanziale di esercitare nella sua pienezza un ruolo computamentte terapeutico in strutture pensate, organizzate e gestite per custodire e per reprimere e che, negli anni, erano diventate un deposito di diversi, di abbandonati, di reclusi, oltre che di psicotici avviati alla regressione e alla cronicità. Arata nel narrare, con l’abituale oggettivo e analitico realismo, quella fase della sua esperienza non indulge mai ai toni patetici e talvolta un po’ nostalgici propri di certa letteratura rievocativa della vita manicomiale. Ci dimostra che si poteva essere indignati ma operosi e ci ricorda le modalità con cui alcune terapie allora possibili venivano di fatto praticate.

In questo ambito sono rilevanti le sue notazioni sulle nuove terapie farmacologiche introdotte alla fine degli anni cinquanta, ma anche le realistiche valutazioni di quelle antecedenti al loro avvento. Per esempio, quando ci descrive gli elettroshok, anche da lui correttamente praticati in era prepsicofarmacologica, non vola “ sul nido del cuculo”, non ne nega la drammaticità, ma neppure li inquadra negli orrori pseudoterapeutici costituiti dagli abusi della cosiddetta psichiatria biologica.
Arata ci ricorda poi che, a Quarto, già nel lontano 1965, il Segretario Generale dell’AMOPI Barucci, riferendosi alle esperienze francesi sulla psichiatria di settore, ebbe a sostenere l’unificazione dei servizi ospedalieri con quelli territoriali per affidare ad un’unica equipe multi professionale la complessiva tutela della salute mentale in ben definiti ambiti territoriali.

Tutto questo ci ricorda le origini antiche delle scelte riformiste che, dieci anni dopo, riuscimmo con la legge 180 a trasformare in norme legislative.
E non possiamo dimenticare che tali antiche opzioni anticiparono alcune delle scelte generali, per esempio quella di costituire le Unità Sanitarie Locali che avrebbero poi caratterizzato l’intero Servizio Sanitario Nazionale del nostro Paese.

Ma, forse, l’aspetto più significativo del racconto di Arata è quello che concerne la sua esperienza di direzione del Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura (S.P.D.C.) istituito dopo la legge 180 in un grande ospedale civile genovese: il Galliera.

Per comprendere la rilevanza e la difficoltà di tale suo compito occorre preliminarmente ricordare che tali servizi costituirono l’area di maggiore criticità nel rapporto tra psichiatria radicale e psichiatria riformista. Alcuni infatti temevano che gli S P D C divenissero espressione e strumento della contestata “medicalizzazione” della sofferenza psichica, che la pur breve degenza prevista nel loro ambito comportasse rischi di neo-manicomialità, che il carattere non consensuale di alcuni ricoveri potesse riprodurre la violenza detentiva tanto a lungo subita dai malati di mente.

Lo stesso Basaglia nel febbraio del 1978 (a meno di tre mesi dal varo della 180) li aveva definiti strumento di “criminalizzazione”.
Ma gli SPDC furono pesantemente contestati anche da molti ambienti conservatori, nostalgici dei manicomi. Essi dicevano che occorreva
evitare che “i matti entrino negli ospedali civili” perché la loro presenza avrebbe disturbato e danneggiato tutti gli altri malati. Ricordo bene che, nonostante il convergere di tante ostilità di opposto segno, fummo assai determinati nel varare legislativamente,con la 180, l’ingresso dei servizi psichiatrici negli ospedali civili, convinti come eravamo che, precluso il ricovero dei nuovi malati nei manicomi, non si potessero lasciare nell’abbandono coloro che avevano gravi ed urgenti necessità di assistenza e cura non adeguatamente fronteggiabili dai nascenti servizi territoriali e praticabili soltanto in condizioni di degenza. Ciò anche nel caso in cui i malati rifiutassero il ricovero ospedaliero proprio perché affetti da disturbi psichici tali da comprometterne la consapevolezza di malattia.

Come si vede, i servizi psichiatrici ospedalieri di diagnosi e cura furono il crocicchio in cui si misurarono diverse opzioni, anche alternative. Esse trovarono il loro punto di equilibrio attraverso l’acquisizione del carattere eccezionale ed esclusivamente sanitario di tutte le degenze ospedaliere psichiatriche e attraverso il conseguente esplicito rifiuto di quella falsa equazione tra malattia mentale e pericolosità che aveva tanto a lungo costituito la principale giustificazione dell’esistenza stessa dei manicomi.

La narrazione di Arata , come sempre documentata e precisa , ci aiuta a meglio comprendere le difficoltà di chi aveva il compito di fronteggiare le più gravi emergenze psichiatriche in un ambito territoriale attraversato da problemi economici, etnici, sociopolitici di estrema complessità in anni che furono poi definiti “ di piombo”. Solo ciò basterebbe a comprendere l’utilità ed anche il valore del libro di memorie di cui stiamo parlando.

Tra l’altro, il fatto che Arata ci documenti che uno dei suoi problemi non fu quello di gestire persone che rifiutavano il ricovero, ma, al contrario quello di avere lo spazio per ospitare coloro che, avvertendone la necessità, lo richiedevano dimostra l’infondatezza dei timori di chi , anche in sede legislativa, aveva in ogni modo cercato di limitare al massimo la capienza di tali servizi.

Il lavoro psichiatrico di Arata si è svolto nei luoghi e nei tempi più critici del cambiamento e dell’evoluzione della cultura e dei servizi psichiatrici del nostro Paese: i manicomi e i servizi psichiatrici di diagnosi e cura negli ospedali civili. Per questo le sue memorie diventano inevitabilmente anche testimonianza dei modi in cui, negli ultimi anni, si è declinato nelle sue scelte concrete il nuovo rapporto tra società italiana e malattia mentale.
Ciò è vero anche per la parte conclusiva del suo lavoro: quella dedicata all’assistenza psichiatrica residenziale e alle comunità terapeutiche, ambiti in cui egli operò nel suo ultimo decennio della sua attività professionale.
Questa parte del suo scritto ripercorre efficacemente la fase in cui furono superate le prevenzioni contro la residenzialità psichiatrica (ritenuta, inizialmente, passibile di derive neomanicomiali) e documenta il ruolo da essa ricoperto nel definitivo superamento dei residui manicomiali.

Arata ci ricorda anche i criteri ispiratori, antichi e nuovi, del suo lavoro in tali strutture residenziali, inizialmente solo genericamente definite: la personalizzazione dell’approccio, la valorizzazione dell’autonomia di ciascuno, la spinta alle relazioni interpersonali ma anche alle iniziative individuali, l’impegno per trasformare la convivenza in comunità e, soprattutto, la facoltà di chiedere e di ottenere di uscirne.
Di particolare interesse il suo impegno per ottenere il varo legislativo dell’ “amministratore di sostegno”, figura temporalmente definita, strumento di interventi personalizzati e quindi variabili da caso a caso secondo le specifiche indicazioni del giudice tutelare.

Come sempre, la generale enunciazione di tali orientamenti è supportata nel testo dalla concretezza di una eloquente e precisa casistica.
In queste note non possiamo sottacere che in tutta la storia da lui narrata è ben presente talvolta in modo esplicito, talvolta solo per accenni, la straordinaria figura di Piera Bevilacqua, valente psichiatra, colta, capace, generosa, che è stata davvero consorte dell’autore.

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